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La Stampa Rassegna Stampa
06.02.2009 Ma che furbo quel Gheddafi, troppo demonizzato dagli americani
l'ammirazione di Igor Man per il dittatore libico

Testata: La Stampa
Data: 06 febbraio 2009
Pagina: 28
Autore: Igor Man
Titolo: «Re Gheddafi e la tela del potere»
La STAMPA del 6 febbraio 2009 pubblica a pagina 28 l'analisi di Igor Man "Re Gheddafi e la tela del potere".
Vi si coglie l'ammirazione per il dittatore libico, presentato come un abile politico ingiustamente demonizzato dagli americani (come sostenne a suo tempo Andreotti, che il "vecchio cronista" cita con approvazione).
Gli attentati terroristici, le violazioni dei diritti umani, il continuo appello alla scomparsa di Israele non contano nulla.
Ecco il testo:


Per la buonanima di Sadat, Gheddafi era un pazzo pericoloso. Il tunisino Burghiba lo definì uno scippatore cinico. Durante lunghi anni il Colonnello venne marchiato dagli Stati Uniti alla stregua d’un volgare terrorista. «Manca solo che gli attribuiscano il potere di scatenare i terremoti», ironizzò Andreotti che per altro non si è mai stancato (da ministro degli Esteri, da presidente del Consiglio) di esortare Gheddafi a star coi piedi in terra. C’è voluta la strage di Lockerbie, e il bombardamento su Tripoli ordinato da Reagan: maldestre, fuori bersaglio le bombe e tuttavia drammaticamente recepite, per sedarlo. La Libia (o Jamarija) è un gigante economico, grazie al gas e al greggio, ma è un nano politico. Il Colonnello ha sfidato ostinatamente i marosi del panarabismo, nella convinzione d’essere l’uomo del destino, il deus ex machina del riscatto palestinese. Facts are stubborn, i fatti sono ostinati, dicono gli inglesi, e finalmente Gheddafi ha capito che il panarabismo era finito in cantina e bisognava puntare al bersaglio grosso «per dare una mano alla Storia», come ebbe a dirmi quando mi ricevette nella sua tenda vera, piantata nel deserto della Sirte. Il «bersaglio grosso» è l’Africa. È chiaro che capi e capetti africani, quelli bravi, quelli cattivi, i ladri e gli onesti, non gradivano che Gheddafi facesse, in Africa, al Qaid, la guida. Così ogni vertice panafricano si concludeva con un bel niet al Colonnello smanioso di costruire un impero, con la terra degli africani.
Ma da buon beduino, Gheddafi sa invecchiare mantenendo giovani i sogni e il vertice panafricano di Addis Abeba finalmente l’ha incoronato re; gli ha conferito un ruolo «sovrano» che Gheddafi ha definito «re dei re». Il beduino spesso «erratico» ha tessuto una tela di potere degna d’un Andreotti diremo abbronzato. Ha personalmente scritto a ben 52 presidenti, esplicando i punti cardinali del suo, a lungo meditato, riscatto dell’Africa. E alla fine gli han dato una cambiale non proprio in bianco ma garantita da lui stesso, il Colonnello.
Proprio in concomitanza con l’annuncio regale, Italia e Libia hanno finalmente firmato quel «trattato» che dovrebbe disciplinare l’afflusso degli immigrati in Italia. L’accordo c’è, all’Italia costerà una tombola ma dovrebbe infine sanare la piaga dei disgraziati che sbarcano a Lampedusa in cerca di pane. Molti, fra politici ed esperti, hanno ironizzato sui «vertici» di Libia, osservando che Gheddafi è lunatico e cerchiobottista. Hanno trascurato il fatto che Gheddafi ha di fronte uno come il Caw, non un distratto burocrate qualsiasi. Il Vecchio Cronista è stato ricevuto spesso da Gheddafi: ho tratto la convinzione che il beduino dalle sette vite e dalle settecento divise (le ordina a un sarto italiano) è tutt’altro che erratico. Se la politica è un bazar, diremo che Gheddafi ha fatto un buon affare poiché il trattato premia la Libia e sfuma il ricordo d’un passato crespo. Laggiù l’Italia portò verde e benessere ma anche violenza, lacrime. Il Colonnello ha demonizzato l’Italia persino pateticamente. Ma con uno come il Caw non c’è partita per al Qaid. Anzi: la partita c’è fra Libia e Italia ma le carte, questa volta, sono intonse. (C’è solo da augurarsi che il «nuovo giocattolo», la carica di Re dei Re d’Africa, non distolga il Colonnello dagli impegni solennemente sottoscritti).

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