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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Anna Foa Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento 05/02/2009

Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento                Anna Foa

Laterza                                                                                 Euro 19

E’ più che una storia degli ebrei nel Novecento “Diaspora”, il nuovo libro di Anna Foa. E non solo per lo stile avvincente, che appassiona anche chi, come me,  ne ha seguito da vicino genesi e stesura. Questo libro racconta infatti la storia della nuova identità ebraica che si forma nel confronto con la modernità, un’identità ricca di sfaccettature e di aspetti imprevedibili che ancora attende di essere compresa e compiuta: “Chi è ebreo oggi?” si domanda la storica nell’ultima pagina. Scomparsa l’anima dell’ebraismo europeo, l’identità ebraica si fonda oggi su due nuovi paradigmi, la Shoah e Israele, tra gli ebrei americani e quelli che vivono nello Stato ebraico, mentre in Europa la diaspora pare “un cimitero fatto di memorie e di fantasmi”, dove “un ebraismo virtuale ha preso il posto di quello reale”.

 

 

Foa mette in rilievo aspetti poco noti, che fanno riflettere: uno dei più importanti, il ruolo decisivo degli ebrei dell’Est europeo, che pure erano i meno “moderni” in quanto ultimi a ottenere parità giuridica, che hanno portato negli Stati Uniti l’ebraismo ortodosso ma anche la spinta all’assimilazione, che hanno inventato il socialismo ebraico dei kibbutzim e che, a causa del loro numero imponente e della loro povertà, hanno dato la spinta definitiva a Hitler per procedere all’orrore della “soluzione finale”. Ma sono anche quelli che, con l’uso di una lingua propria, l’yiddish, hanno per primi costruito una cultura solo ebraica, e perfino una tradizione iconografica particolarissima, resa celebre dal russo Marc Chagall. Ed è stato l’ebraismo russo a inventare il sionismo, cioè “l’adozione più netta dei paradigmi della modernità”, che interrompe “il processo ormai avviato di integrazione e di assestamento degli ebrei nei Paesi dell’Europa occidentale, rimettendo radicalmente in discussione l’esistenza stessa degli ebrei della diaspora”.

 

 

Nuova anche l’attenzione data all’esplosione culturale che si verifica nell’ebraismo europeo, finalmente emancipato, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: “La cultura europea sembra improvvisamente fatta tutta in buona parte da ebrei”. Una creatività che non si spiega solo con l’emancipazione, ma anche con la particolare affinità degli ebrei con la modernità, soprattutto nei suoi aspetti più nuovi: ebrei saranno infatti i direttori di teatri e giornali, i musicisti all’avanguardia e i protagonisti creativi del mondo del cinema. Centrale è stato il ruolo degli ebrei di cultura tedesca – basti citare Freud, Einstein, Mahler, Schonberg – poi tutti costretti a emigrare dal nazismo. La novità è anche che si tratta di una cultura priva di religione, quando non apertamente antireligiosa, che però resta ebraica nel profondo: divenuti finalmente cittadini come gli altri degli Stati Uniti – come dimostra l’ampia partecipazione alla Prima guerra mondiale – gli intellettuali sono spinti alla costruzione di un’identità ebraica alternativa a quella religiosa, ma altrettanto forte quanto quella.

 

 

Largo spazio, ovviamente, è riservato alla complessa costruzione dello Stato d’Israele, rispetto al quale molti degli intellettuali fondatori, come Martin Buber e Gershom Scholem, avevano fin dalle origini colto le contraddizioni e individuato il problema più grave, cioè la relazione con gli arabi, che “avrebbero costituito il test morale alla luce del quale sarebbe stato giudicato il sionismo”. E poco nota è la terribile responsabilità che hanno tutti gli Stati occidentali nei confronti degli ebrei che cercavano di fuggire dalla Germania dove erano sottoposti a vessatorie discriminazioni razziali e dove, poco tempo dopo, avrebbero conosciuto il genocidio: nessuno accettò di accogliere gli ebrei in pericolo, e perfino le comunità ebraiche di Palestina, pronte ad accogliere i loro fratelli, si trovarono nell’impossibilità di farlo perché i britannici temevano che gli arabi si allenassero con i tedeschi, e cercavano quindi di non irritarli con altre correnti migratorie. Davanti a questo, il problema dei silenzi sembra poca cosa.

Lucetta Scaraffia

Il Corriere della Sera


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