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Il Foglio Rassegna Stampa
02.02.2009 E' ora di riscrivere la storia della guerra in Iraq
Un editoriale di Giuliano Ferrara

Testata: Il Foglio
Data: 02 febbraio 2009
Pagina: 1
Autore: Giuliano Ferrara
Titolo: «Care Cassandre, forse è ora di riscrivere la storia della guerra in Iraq»
Dalla prima pagina de Il FOGLIO del 2 gennaio 2009, l'editoriale di Giuliano Ferrara "Care Cassandre, forse è ora di riscrivere la storia della guerra in Iraq":

Ce ne avevano messo di tempo la grande stampa e la grande tv per accorgersi che la nuova strategia irachena di Bush e Petraeus si stava rivelando quella giusta. Questo giornalino, che si era permesso di mandare nella provincia di Anbar due inviati a raccontare il surge, la conquista di un livello decente di sicurezza, la nuova tattica militare e la nuova strategia politica contro Al Qaeda e gli estremismi tribali dell’ex partito baathista, alla fine era riuscito a indurre i colossi dell’informazione a raccontare qualcosa di vero e di serio sulla grande storia di inizio secolo, il contrattacco occidentale all’attentato più feroce e temibile della storia dell’umanità, l’11 settembre del 2001. Siamo di nuovo in epoca distratta. Tutti i benpensanti della geopolitica mondiale guardano di sghimbescio, e senza saperne assolutamente nulla, a Guantanamo Bay, dove sorge uno dei tanti e necessari carceri per combattenti nemici che tra qualche mese sarà rimpianto, sempre che riescano davvero a chiuderlo e a sostituirlo con una soluzione giuridico-legale effettivamente migliore e più garantita. Ma le elezioni provinciali in Iraq, la battaglia fatta da donne e uomini in un normale sabato di democrazia per sanare le ferite etniche, settarie, e per rimarginare piaghe politiche pluridecennali di un’odiosa dittatura terroristica, questo interessa meno. L’Iraq non è più la tomba di soldati americani caduti in battaglia, e la profetessa Spinelli non ha molto da dire, parla d’altro; è sempre meno il luogo impossibile dove la furia religiosa e il risentimento portano a incandescenza la vita quotidiana, e il focoso polemista Zucconi non vuole darsene per inteso. Si chiama inoltre democrazia politica, democrazia elettorale dei partiti, il sistema che faticosamente, centimetro dopo centimetro, promette di rimpiazzare questa specie di sharia laica che fu la tirannia di Saddam, dove al posto della legge di Dio c’era la sua legge, la legge del Raiss; ma anche questo piccolo particolare non interessa che pochi addetti ai lavori rimasti al loro posto nel tentativo di raccontare la realtà possibile che gli occhi possono fissare senza perdersi nel labirinto fumoso dell’ideologia, cioè noi e pochi amici. La compassione pelosa dell’occidentale stanco va sempre e solo agli eserciti terroristi chiusi nei loro tunnel a Gaza, e ai bambini che gli fanno da scudo umano, e un certo tipo di osservatore europeo muove il culo dalla sedia solo se debba raccontare la riscossa dei Talebani nel sud dell’Afghanistan. Ma nessuno vuole compassionevolmente e freddamente rifare la storia della guerra in Iraq, delle feroci polemiche che l’accompagnarono e seguirono, del dolore consapevole che portò una classe dirigente responsabile a deciderla e a eseguirla nel nome della nostra sicurezza e libertà e della sicurezza e libertà degli iracheni, degli arabi, degli islamici del grande medio oriente, e magari rifare questo percorso alla luce di come si è provvisoriamente concluso, con l’emancipazione politica di sciiti sunniti e kurdi iracheni; no, meglio aspettare che qualcosa vada storto, meglio sperare che qualche gesto affrettato di Barack Obama rimetta in discussione con un ritiro affannoso i risultati di normalizzazione politica e civile conquistati con la tragica fatica di cinque anni di guerra durissima. Che nel cuore del mondo arabo islamico una spietata e nichilista tirannia sia stata trasformata nel più grande esperimento costituzionale e riformatore dell’intera storia islamica, questo non interessa l’ottusità morale e politica nonché il pressappochismo storico degli occidentali che dannano Bush e si prosternano, moda odiosa e snob, di fronte alla speranza messianica di Obama.

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