Da Il FOGLIO del 29 gennaio 2009, a pagina 2, l'articolo di Cristina Giudici "Per l'islam italiano l'integrazione non è un'opinione, ma le ombre restano":
Milano. E’ difficile che una giovane musulmana italiana possa scrivere un incipit come quello che si trova nell’autobiografia di Darina al Joundi, immigrata a Parigi da Beirut, che si intitola “Quando Nina Simone ha smesso di cantare” (Einaudi) e inizia così: “Basta con quel maledetto Corano! Non so perché ho gridato, ma dovevo gridare per non tradire la promessa fatta a mio padre: non permettere a nessuno di leggere il Corano al suo funerale”. Così come è difficile trovare storie autoctone, come quella descritta da Robin Yassin- Kassab, un anglo-siriano, che nel “Il traditore” (Il Saggiatore) racconta il dramma di un giovane londinese, laico, in guerra con la moglie che deciso di tornare all’islam e descrive con un cupo sarcasmo: “Lei con il’hijab sembrava castigata, prudente. Visti dall’esterno apparivamo proprio come due musulmani a piede libero”. Eppure anche in Italia i giovani musulmani hanno cominciato a scrivere romanzi, saggi, articoli per descriversi, emergere dalle zone d’ombra in cui sono cresciuti e affermare la propria identità. Nella redazione milanese del settimanale Vita, venti musulmani di seconda generazione, in maggioranza donne, si incontrano ogni settimana per scrivere un inserto mensile, Yalla Italia, ideato da Paolo Branca e coordinato da Martino Pillitteri. Una piccola nicchia intellettuale, indipendente dall’egemonia delle associazioni religiose. Alcune di loro sono osservanti, come Sumaya Abdel Qader, scrittrice, o Rassmea Salah, che dopo una lunga riflessione ha deciso di mettersi il velo perché vuole essere ambasciatrice della sua religione, ci ha spiegato, ma ha sfidato suo padre, egiziano, e il giorno della tesi di laurea gli ha presentato il fidanzato italiano. Altre sono completamente laiche, come Nadra, ballerina, o Randa Ghaza che ha già scritto tre romanzi e l’ultimo si intitola: “Oggi forse non ammazzo nessuno” (Sonzogno). Fra loro c’è anche un pittore libanese, Alì Hassoun, che inserisce figure e simboli del mondo africano e musulmano nelle riproduzioni dei quadri di Picasso e di De Chirico per favorire un dialogo artistico fra due culture. Durante la riunione discutono con i loro coetanei ebrei sulla guerra a Gaza. L’atmosfera è chiassosa, allegra, ma anche grave, perché sono tutti consapevoli di rappresentare una piccola élite intellettuale che potrebbe fare qualche – piccola – differenza. Una differenza che già si nota se poi si parla con i soci dell’associazione dei giovani musulmani, settecento in tutto, radicata soprattutto al Nord, che ha una vocazione missionaria e sta aprendo nuove sezioni anche nel resto d’Italia. Da sempre considerata costola dell’Ucoii, un’organizzazione vincolata idealmene ai Fratelli Musulmani, in questi anni ha fatto qualche passo avanti e qualche altro indietro. Si è aperta ulteriormente al dialogo interreligioso con ebrei e cristiani, mentre su Hamas non ha una posizione unitaria. Nel loro forum si possono leggere posizioni diverse, fra quelli che solidarizzano senza se e senza ma con Hamas e altri che invece percepiscono la minaccia della leadership politica palestinese. E mentre l’Ucoii è diretta da 25 anni dallo stesso presidente, i giovani musulmani indicono elezioni ogni due anni, e mai con un candidato unico. Ma allo stesso tempo rappresentano una generazione che non ha più bisogno di ribellarsi ai “padri” perché aderiscono volontariamente ai loro dogmi, anche se a differenza dagli adulti aspirano a un riscatto sociale, a una maggiore integrazione. Ma dopo anni di conflitti, se non altro interiori, oggi sono tutti convinti che la loro fede rappresenti l’unico strumento di emancipazione, un valido antidoto contro una società corrotta. Il nuovo presidente dei giovani musulmani si chiama Omar Jibril. Omar è uno dei pochi musulmani di seconda generazione davvero italiano, figlio di una coppia mista, madre sarda, padre egiziano. Cresciuto spiritualmente alla moschea di Segrate, non stringe la mano a una donna e sulla democrazia ci ha detto che l’Italia è un paradosso perché qui ognuno è libero di dire ciò che vuole anche se un deputato, una volta ottenuto un seggio, non lo molla più e agisce per il suo interesse personale, mentre nella sua associazione si tiene conto degli insegnamenti del Corano e si prendono decisioni in base alla shura, la consultazione comunitaria. Omar è ingegnere e ci spiega così la sua visione dell’islam.“ A ogni azione umana si prendono dei punti che valgono per il paradiso o per l’inferno e io voglio andare in paradiso”. Integrato, apparentemente, come lo è Hamid Zarati, presidente italiano del Gep, giovani europei per la Palestina: un gruppo che è apparso sulla scena politica italiana durante le manifestazioni contro la guerra ad Hamas. Che sogna di islamizzare la causa palestinese in Europa, all’interno di un panarabismo europeo. “Siamo nati per studiare meglio le radici del conflitto arabo-israeliano”, ci ha spiegato Hamid, laureato in medicina. “Ci riuniamo con esperti, studiosi, viaggiamo in Europa e nel Medioriente, ma rappresentiamo un’altra generazione rispetto agli imamfai- da-te”, insiste Hamid che però ha studiato nella moschea di Abu Schwaima, a Segrate, ma anche in Siria e in Libano, dicono i più informati e anche lui è quindi un imam autoproclamato. Hamid, che si prepara per diventare medico, spiega bene il paradosso dei giovani musulmani che sono integrati sul piano formale, ma non per questo più moderni o favorevoli all’occidente. Lui viene dall’associazione dei giovani musulmani, è un imam itinerante, ogni venerdì cambia moschea, per guidare la preghiera (con lui ci sono per ora solo 25 ragazzi). Hamid critica l’associazione dei giovani musulmani, colpevole di non avere la necessaria consapevolezza sul dramma palestinese: “Sono nati qui e hanno molti luoghi comuni, non sanno da cosa è nato il conflitto per una terra che gli israeliani vogliono occupare e il nostro compito è informarli, renderli più consapevoli”. Un compito che inquieta molti loro coetanei che considerano la nascita di questo gruppo un segnale negativo, di una deriva ideologica che favorisce al contrario la rottura con la società italiana. Secondo Souad Sbai, unica donna araba entrata nel Parlamento italiano, è evidente che ci sia stata una chiusura, un ulteriore ritorno alla religione, fra i giovani musulmani. “Ma non bisogna dimenticare che ci sono anche migliaia di giovani arabi che hanno bisogno di interrogarsi sul loro rapporto con l’occidente perché per molti questo è il migliore dei mondi possibili”. Eppure l’imam Rosario Pasquini, della moschea di Segrate, pochi giorni fa ha impartito ai membri dell’associazione dei giovani musulmani una lezione sull’identità islamica, per insegnare loro come comportarsi “in un contesto alieno”, ci ha detto. “Loro non hanno alcun problema con la democrazia. Sanno bene che se circolano le monete false è perché ne esiste una autentica che è il sigillo della profezia di Maometto”. E alla fine tutti arrivano alla stessa conclusione che non è tanto diversa da quella dei loro padri: la democrazia non esiste nei paesi musulmani, ma nell’islam sì. E in Europa? Risposta corale, collettiva e ambigua: dipende. (2. fine. Il primo articolo è uscito sul Foglio di ieri)
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