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Il Foglio Rassegna Stampa
28.01.2009 La campagna elettorale di Benjamin Netanyahu
e inoltre: la prima parte di un'inchiesta sui giovani musulmani italiani

Testata: Il Foglio
Data: 28 gennaio 2009
Pagina: 3
Autore: la redazione - Cristina Giudici
Titolo: «Netanyahu ha tre motivi per non agitarsi nella corsa elettorale - Giovani e integrati, sì, ma né moderati né laici.Viaggio nell’islam italiano»

Da Il FOGLIO del 28 gennaio 2009

Netanyahu ha tre motivi per non agitarsi nella corsa elettorale , pagina 3

Gerusalemme. A oggi Benjamin Netanyahu può permettersi di iniziare una calma campagna elettorale da predestinato alla vittoria alle elezioni israeliane del 10 febbraio. I sondaggi, a una settimana dalla fine dell’operazione militare a Gaza, dimostrano che la destra è sempre più forte. Se si votasse oggi, il partito di Netanyahu, il Likud, prenderebbe 32 seggi sui 120 della Knesset, ma la destra nel suo insieme – il partito di Avigdor Lieberman, lo Shas, e il ticket degli altri partiti ultraortodossi – arriverebbe a 69 seggi. Se realmente il Likud decidesse di allearsi con gli altri movimenti di destra, sia Kadima sia i laburisti di Avoda che oggi guidano il paese e che hanno gestito la guerra a Gaza si ritroverebbero all’opposizione. Uri Dromi, direttore del Mishkenot Shaananim a Gerusalemme, spiega al Foglio che il rafforzamento della destra è strettamente legato “alla delusione nata dopo il ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nel 2005”. “Se lasciamo Gaza, i missili colpi ranno il sud di Israele”, aveva detto allora Netanyahu, causando lo rottura con l’ex premier, Ariel Sharon, e la nascita del partito di centro (pro ritiro) Kadima. “Oggi gli israeliani dicono che aveva ragione lui – continua Dromi – E c’è anche l’aspetto economico: molti possono non essere d’accordo con le riforme thatcheriane che il leader del Likud impose al paese quando era al governo, ma oggi possiamo dire che ha salvato il paese dal disastro economico. Ecco perché molti israeliani, in tempo di crisi, pensano che lui sia il premier migliore”. Oltre alla sicurezza e all’economia, c’è anche un’altra ragione che consolida la forza del leader del Likud: rappresenta un ostacolo a un processo di pace imposto dall’esterno. Secondo Bernard Avishai, autore de “La Repubblica ebraica” (Harcourt 2008), “il team del presidente americano Barack Obama è preoccupato dai sondaggi che danno Netanyahu come prossimo premier d’Israele perché pensano che sarà difficile lavorare con lui e che possa impedire il loro obiettivo dei due stati contigui, Israele e Palestina”. Non è dato sapere quali siano le aspettative dell’Amministrazione Obama e certo non c’è da aspettarsi una dichiarazione ufficiale in questo senso, ma molti commentatori israeliani hanno segnalato le possibili difficoltà tra Gerusalemme e Washington, e in particolare tra Netanyahu e il segretario di stato, Hillary Clinton, antica e non sempre buona conoscenza del passato (Bibi è stato premier dal 1996 al 1999, quando il presidente americano era Bill Clinton). Ma il leader del Likud non è uno che si fa prendere alla sprovvista, non certo sulla scena internazionale, su cui si muove con dimestichezza invidiabile. Così, se può cominciare una campagna elettorale calma dal momento che parte con un vantaggio forte, Netanyahu si è impegnato a rassicurare gli interlocutori esteri. Domenica ha scritto un articolo sul Jerusalem Post dal titolo indiscutibilmente conciliatorio – “Yes,we can” – in cui sottolineava le grandi sfide che sia Israele sia l’America devono affrontare dal punto di vista economico e da quello del possibile riarmo nucleare della Repubblica islamica d’Iran. Sul conflitto tra Israele e palestinesi ha scritto: “Portare avanti la pace con i palestinesi moderati è possibile, ma deve essere fatto in un modo che non sacrifichi la sicurezza di Israele e che non rafforzi Hamas e Hezbollah, che agiscono in nome dell’Iran”. Rassicurando Obama sul fatto di essere entrambi sulla stessa lunghezza d’onda, Netanyahu concludeva così: “In poche settimane, gli israeliani potrano scegliere una leadership in grado di affrontare tutte le sfide che abbiamo davanti. Io e i miei colleghi nel Likud possiamo fornire questa leadership”. Per gli israeliani non c’è dubbio che il leader del Likud sia determinato a combattere le forze che vogliono distruggere Israele e l’occidente. Resta da vedere come si assesterà l’asse Washington-Gerusalemme.

Giovani e integrati, sì, ma né moderati né laici.Viaggio nell’islam italiano , pagina 2 di Cristina Giudici:

Milano. Fino a qualche anno fa, per capire cosa fosse la democrazia per i musulmani che vivono in Italia era abbastanza semplice. Bastava dividere la comunità musulmana fra buoni e cattivi. Fra quelli, una minoranza, che credevano nella nahada, nel rinnovamento, che potesse coniugare le ragioni della fede con quelle del pluralismo e dei diritti dell’individuo, e quelli che invece diffidavano di ogni forma di integrazione e ritenevano che l’unico partito legittimo fosse quello del Corano, perché consideravano la democrazia occidentale una forma di deviazione dalla retta via e dalla battaglia, se non altro dogmatica, agli infedeli. Spesso, sempre per semplificare, si tendeva a dividere gli uni e gli altri in due generazioni. I padri, gli adulti, che proibivano ai figli di parlare italiano in casa e nelle moschee, in alcune almeno, li esortavano a non contaminarsi, a non stringere le mani ai cristiani e agli atei, perché per loro esisteva una sola patria, la umma, e dall’altra parte i figli che davanti a due modelli di vita si sentivano inquieti, incerti, qualche volta dissociati. E spesso si ribellavano a un’interpretazione della religione che coincideva con le tradizioni islamiche dei loro paesi di origine. Oggi però i giovani musulmani, circa 300 mila, stanno diventando protagonisti all’interno delle loro comunità e si stanno preparando a prendere il posto dei loro padri, biologici e putativi. Fino al punto che la generazione degli imam-fai-da-te, egemonizzata dall’Ucoii, sta per essere sostituita da ragazzi laureati, istruiti, poliglotti, apparentemente integrati. Decifrare il cambiamento avvenuto negli ultimi anni è più difficile perché i nuovi musulmani parlano più italiano che arabo, anche se tutti o quasi hanno studiato la lingua sacra del Corano. Ma, superato il momento critico seguito all’11 settembre, ora si sentono più liberi di essere come sono. Hanno fra i venti e i trent’anni, sono spesso già giovani genitori di quei bambini che diventeranno immigrati di terza generazione, sono quasi tutti convinti che la libertà di espressione, coincida con la libertà di culto e con il diritto a costruire moschee, e credono che il fallimento della democrazia coincida con la difficoltà con cui riescono a ottenere la cittadinanza italiana. E allora, per capire chi sono i nuovi musulmani italiani bisogna ripartire da Khalid Chaouki. Oggi come ieri il punto di riferimento per la G2 dell’islam italiano è lui. Dopo l’11 settembre 2001, fu proprio lui il primo ad esporsi pubblicamente per raccontare la sua ribellione contro i “padri” islamici. Khalid Chaouki fece scalpore nella sua comunità con un libro autobiografico perché raccontò i conflitti che dilaniavano la sua comunità. Come molti, dopo l’11 settembre dovette spiegare agli italiani quanto odiasse il terrorismo. Ma allo stesso tempo provò a scuotere i suoi fratelli dal loro sonno “perché gli attentati venivano fatti in nome del nostro Dio del nostro Corano”, scrisse poi. Divenne un simbolo del rinnovamento di giovani musulmani che volevano opporsi alla morale tradizionalista islamica perché aveva un sogno, che però si è spezzato. Accettò insieme a Souad Sbai, impegnata sul fronte dei diritti delle donne, e a Magdi Allam, la sfida di costruire un islam moderato. Raccontò i sorprusi domestici commessi in nome della fede; dei ragazzi che non potevano esercitarsi a casa con uno strumento musicale perché era proibito; delle ragazze tolte dalla scuole dai genitori per impedire loro di diventare occidentali. E, come presidente dell’associazione dei giovani mussulmani, provò a forzare la porta della roccaforte, per sottrarsi all’influenza dell’islam militante, ma fallì. “E così sono rimasto solo”, racconta oggi al Foglio. “Ecco perché – spiega – non voglio più definirmi moderato. A costo di essere considerato ambiguo”. “Per troppi anni sono stato obbligato a dimostrare di essere diverso da ciò che ero. E alla fine essere moderati equivaleva ad essere antislamici”. E oggi non ha bisogno di nascondersi, di scegliere le parole, per spiegare perché è arrivato alla conclusione che “l’Italia non è pronta a un dialogo costruttivo con i musulmani, non sul fronte politico almeno. Ma dall’altro lato va detto che neppure i musulmani sono pronti a riformare l’islam”. Khalid oggi ha 26 anni, è giornalista, è direttore del sito www.minareti.it e non ha mai smesso di praticare la sua fede: “Gli altri preferivano pensare che fossi laico solo perché ero critico”, racconta al Foglio. Così, fallita l’esperienza governativa della consulta islamica, oggi preferisce definirsi un musulmano in cerca di uno spazio pubblico dove ricominciare a riflettere. Khalid vive la sua fede in modo privato, studia testi sacri di pensatori che cercano la modernità nel Corano, ma senza uscire dal solco della tradizione. Anche per questo, rappresenta una generazione di transizione: una generazione che Khalid considera in parte bruciata non solo dalla cecità della sinistra o da una certa intollerenza dalla destra, ma anche dall’incapacità dei musulmani di trovare un equilibrio, ma una generazione comunque diversa, così giovane che può permettersi di essere come è. Senza giochi di specchi. Senza false proiezioni. “Anche – aggiunge Khalid – a costo di arroccarsi su posizioni più rigide: perché non è sufficiente stare attenti al fatto che non si arrivi a derive integraliste. Dall’altro lato però – conclude – credo sia giusto e onesto affermare che questa democrazia è stata per noi un fallimento. Almeno per ora”. Integrati dunque, ma non per forza moderati. Istruiti e poliglotti, ma non per questo più laici. Anzi talvolta arroccati dentro le loro certezze dogmatiche, o condizionati dal disincanto, la frustrazione, di non essere completamente italiani. Con alcune eccezioni, però, all’interno di un contesto comunitario diventato variegato e frammentato, dove spesso emergono diversi approcci alle regole civili e politiche della democrazia italiana che hanno partorito piccole nicchie intellettuali e libertarie come Yalla Italia ma anche derive ideologiche panarabiste come i Giovani europei per la Palestina (ne parleremo nella prossima puntata). Se si guarda poi ai blog delle seconde generazioni, vista dai loro occhi, la società italiana viene raccontata in modo atroce. Si scorrono pagine e pagine di episodi considerati di intolleranza, di razzismo, di ostilità, di pregiudizi. Nient’altro. Ogni notizia è resa impersonale perché il soggetto, anzi la vittima, non ha mai un nome, ma si chiama semplicemente G2: seconda generazione. E non c’è quasi traccia di una riflessione sul rapporto fra democrazia e islam, che invece ossessiona i loro coetanei nei paesi arabi, almeno nel Maghreb. No, loro parlano solo di un tema, da cui dipende il loro futuro: il diritto alla cittadinanza italiana. Osama al Saghir, tunisino, è stato anche lui presidente dell’associazione dei giovani musulmani fino a due anni fa. Ha 25 anni e da cinque attende la cittadinanza. “La maggior parte dei giovani musulmani non sono nati in Italia, ma vi sono cresciuti e pochissimi hanno ottenuto la cittadinanza. Ovvio – spiega – che alla fine molti abbiano con il paese in cui vivono un rapporto solo di natura burocratica, cosa questa che può distorcere persino la percezione della democrazia. Non sarà italiano, ma in visita a Parigi, per quanto mi riguarda, io cantavo l’inno di Mameli. Ogni anno rinnovo il permesso di soggiorno per motivi di studio e non posso votare. Eppure questo è il mio paese. Io temo che si rischi una seria deriva identitaria fra i giovani musulmani se non si fa qualcosa per promuovere il loro senso di appartenenza. Perché se non si appartiene a una nazione, allora si appartiene a qualcosa d’altro, a una comunità religiosa, dove è più facile che si dia retta a un matto che parli degli italiani come degli infedeli, o a gruppi politici che rinnegano la democrazia”. E non si capisce se sia solo una paura, la sua, o qualcosa che ha percepito dentro la sua comunità. (1. continua)

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