Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Costruire case è un atto di guerra ? lo sostiene l'architetto Eyal Weizman, israeliano antisraeliano
Testata: Corriere della Sera Data: 28 gennaio 2009 Pagina: 33 Autore: Stefano Bucci Titolo: «Architettura, un'arte di guerra»
Le case degli israeliani negli insediamenti in Cisgiordania, al pari della barriera di sicurezza ( e dei grandi alberghi nei paesi mediorentali) sarebbero, per l'architetto israeliano (residente a Londra) Eyal Weizman, atti di occupazione e di guerra.
Un'equiparazione folle.
Dal CORRIERE della SERA del 28 gennaio 2009, a pagina 33, "Architettura, un'arte di guerra" di Stefano Bucci
La teoria è semplice: dovunque ci siano insediamenti controllati, che siano resort turistici oppure campi profughi, lì l'architettura diventa in qualche modo un'architettura militare, un'architettura di occupazione. E dunque Sharm El-Sheikh e le «gated communities» lungo i confini tra gli Stati Uniti e il Messico, i «fortini» del G8 e i campi di permanenza per clandestini. Anche se tutto sembra trovare la migliore esemplificazione «nei territori occupati della Palestina, dove le opere d'architettura interpretano la stessa politica di espansione dello Stato israeliano, tanto che ai soldati vengono insegnati i primi rudimenti di edilizia e urbanistica per poter seguire al meglio queste indicazioni». Qualche esempio: l'insediamento di Migron, cinque chilometri a Nord di Gerusalemme, o i villaggi di Ein Yabrud e Burka. Questa, almeno, è l'opinione dell'architetto israeliano (nato ad Haifa nel 1970 ma da tempo trapiantato a Londra) Eyal Weizman, saggista e direttore del Centre for Research Architecture del Goldsmith College, un «personaggio contro», che ha più volte dichiarato «di aver scelto lo studio dell'urbanistica come mezzo per raccontare la tragedia politica della popolazione palestinese ». Per lui, oltretutto, «si parla di occupazione, in ogni situazione in cui si operi una riorganizzazione dello spazio, sia che si tratti di costruzione o di distruzione». E dunque dalle case dei coloni alle strade «create nei territori occupati a beneficio soltanto degli occupanti, fino al continuo riposizionamento del muro che divide Israele dai territori palestinesi». Nel suo nuovo libro ( Hollow Land, che uscirà a marzo in Italia da Bruno Mondadori con il titolo Terra vacua, pp. 288, e 25) ha raccontato tutto questo: «per far capire — dice Weizman — come gli intonaci, le tegole, le cave di pietra, i sistemi di illuminazione stradale urbani ed extra-urbani, l'ambigua architettura degli alloggi, la forma degli insediamenti e la loro organizzazione, le fortificazioni e le recinzioni non siano altro che strumenti di una stessa subdola strategia di controllo, un modo per escludere il più possibile i palestinesi dal territorio». Weizman è categorico quando parla del Muro: «È la rappresentazione di un idea politica — spiega —, che cerca disperatamente di separare l'inseparabile. In qualche modo è la rappresentazione di un incubo degno di Edgard Allan Poe o di Jules Verne». Ci sono soluzioni? «Certo, la decolonizzazione di certe aree, per farle diventare veri e propri laboratori di ricerca e di convivenza». A questo proposito Weizman cita il lavoro di un gruppo definito «Decolonizing Architecture»: «Lavora sullo smantellamento di tutte le strutture di dominazione, siano esse finanziarie o militari». Ma quale è il pericolo maggiore dell'architettura oggi, anche di quella di pace? «Escludere, disgregare, rimuovere». Creando enclave, spazi chiusi e controllati, destinati ad accogliere i clandestini oppure i grandi ricchi. Niente di nuovo, dice Weizman: «L'avevano fatto a suo tempo gli antichi romani». Di tutto questo Eyal Weizman parlerà domani (alle 12) a Bologna, nell'ambito della prima giornata di «Urbania », il quarto festival internazionale di urbanistica in programma a Bologna dedicato quest'anno a «L'inferno e il paradiso delle città». Con lui ci saranno (oltre a Gianluigi Ricuperati di «Abitare» e a Fabrizio Gallanti) Alessandro Petti autore di Arcipelaghi e enclave. Architettura dell'ordinamento spaziale contemporaneo (Bruno Mondadori) e Ferruccio Sansa che ha firmato con Marco Preve il pamphlet Il partito del cemento (Chiarelettere, 12mila copie vendute) dedicato allo scempio edilizio in Liguria: «Weizman parla di un paese in guerra. Ma le analogie con l'Italia rimangono. Anche da noi il potere, in tutte le sue forme, si serve dell'architettura per occupare fisicamente lo spazio, per appropriarsene e per imporre la propria volontà. E per farlo si serve talvolta di grandi architetti. La scelta di Fuksas per il grattacielo di Savona è la classica foglia di fico: chi mai vorrebbe mettersi contro al progetto di una simile star? Meno male che stavolta i cittadini si sono ribellati». Anche Stefano Boeri, uno dei progettisti degli spazi del prossimo G8 alla Maddalena (dovrebbe essere tutto pronto alla fine di maggio) concorda con questo rischio di «occupazione forzata»? «È sempre possibile rispettare il territorio. L'importante è non creare strutture avulse, che rimangano estranee e spesso inutilizzate. A La Maddalena, il giorno dopo la fine del G8, tutto potrà tornare come prima».
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