Pubblichiamo il colloquio epistolare tra Hannah Arendt e Samuel Grafton apparso nell’inserto culturale del SOLE 24 ORE e intitolato “Hannah, Israele e il mostro”.
Nel 1963 la Arendt fu inviata a Gerusalemme per seguire il processo Eichmann: di lui scrisse che era un “malvagio senza qualità”. In questo carteggio inedito spiega le sue ragioni e perché condannò i capi ebraici che collaborarono coi nazisti per salvare vite umane.
Ecco il testo:
Il 19 settembre 1963 Hannah Arendt ricevette una lettera da Samuel Grafton in cui questi la informava che la rivista “Look” aveva commissionato “uno studio sulle reazioni incredibilmente interessanti causate dal suo libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”. Nella sua missiva Grafton diceva alla Arendt che “sperava fosse così gentile da rispondere ad alcune sue domande per poi successivamente svilupparle in un’intervista” e aggiungeva di non considerarle “in alcun modo un interrogatorio”. Il giorno seguente Hannah Arendt rispose: “La ringrazio per la sua lettera e sono assolutamente d’accordo a rispondere alle Sue domande”.
Sono anch’io, come lei, uno scrittore che cerca la verità. Mi sembra che le reazioni al suo libro costituiscano un importante fenomeno politico che necessita di essere analizzato. In quest’ottica mi sono segnato le seguenti domande: ritiene che le reazioni al suo testo gettino nuova luce sulle tensioni della vita e della politica ebraiche? Se è così, cosa rivelano?
Non ho una risposta definitiva alla sua domanda. La mia sensazione è di avere inavvertitamente toccato la parte ebraica di quello che i tedeschi chiamano il loro “passato irrisolto” (die unbewaltigte Vergangenheir). Ora mi sembra che questo problema fosse comunque destinato a presentarsi e che il mio resoconto l’ha cristallizzato agli occhi di quelli che non leggono grossi libri (…) probabilmente anche accelerandone la sua tematizzazione in un discorso pubblico (…)
Quali ritiene siano le cause reali della reazione violenta di chi ha attaccato il suo libro?
(…) Una causa importante mi pare sia stata l’impressione che io abbia attaccato l’establishment ebraico, perché non solo ho messo in evidenza il ruolo del consiglio ebraico durante la soluzione finale, ma ho anche mostrato come i membri di questo consiglio non fossero solamente dei “traditori”. In altre parole, poiché il processo ha toccato il ruolo della leadership ebraica durante la soluzione finale e io ho riportato questi avvenimenti, tutte le attuali organizzazioni ebraiche e i loro capi hanno pensato di essere sotto attacco. Quanto è accaduto, a mio parere, è stato lo sforzo concordato e organizzato di creare un’”immagine” e di sostituire questa al libro che ho scritto.
Sulla base di queste reazioni lei cambierebbe qualcosa se dovesse iniziare ora a scrivere il libro? Non per blandire i critici, ma perché quelle reazioni le hanno mostrato una suscettibilità da parte di alcuni ebrei che l’ha sorpresa e di cui ora vorrebbe tenere conto?
Non sono stata sorpresa dalla “suscettibilità di alcuni ebrei” e siccome io stessa sono ebrea penso di avere tutte le ragioni per non esserne allarmata; penso che sia contrario all’onore della nostra professione – “uno scrittore…che cerca la verità” – tenere conto di cose del genere. Comunque la violenza e soprattutto l’unanimità dell’opinione pubblica tra gli ebrei organizzati (ci sono poche eccezioni) invero mi ha sorpreso. Concludo che non ho solo urtato delle “suscettibilità”, ma interessi consolidati e di questo prima non ero a conoscenza. (…) Mi posso solo chiedere: cambierei forse qualcosa alla luce di questa campagna politica? La risposta è: la mia unica alternativa sarebbe stata quella di rimanere completamente in silenzio; una volta però cominciato a scrivere, sono stata obbligata a raccontare tutta la verità, così come l’ho vista. (…)
Secondo lei cosa avrebbero potuto fare gli ebrei in Europa per resistere con più forza? (…) Se, come lei dice, i nazisti celarono gli scopi dei trasporti verso i campi di concentramento arrivando a mascherare un centro di sterminio come una stazione ferroviaria, allora forse che gli ebrei sono stati vittime di un inganno piuttosto che del tradimento dei loro capi? In quale momento i leader delle loro comunità avrebbero dovuto dire “smettete di collaborare e lottate”?
Perché dei funzionari ebrei collaborarono? (…) Non ci fu mai un momento in cui i capi ebraici avrebbero potuto dire, per usare la sua espressione, “smettete di collaborare e lottate!” La resistenza – che vi fu, ma ebbe un ruolo molto piccolo – significava solo: non vogliamo quel tipo di morte, vogliamo morire con onore. Ma il problema della collaborazione è ozioso. Certamente vi fu un momento in cui i capi ebraici avrebbero potuto dire: non dobbiamo più collaborare, dovremmo sparire. Un tale momento potrebbe essere stato quello in cui essi, pienamente informati di cosa significava la deportazione, ricevettero dai nazisti la richiesta di preparare le liste di deportazione. I nazisti diedero loro il numero e le categorie di persone che dovevano essere mandate nei centri di sterminio, ma chi poi ci andò e a chi venne invece data una possibilità di sopravvivenza fu deciso dalle autorità ebraiche. In altre parole, in quel particolare momento chi collaborò fu padrone della vita e della morte. Riesce a immaginare cosa significa questo in pratica? Pensi a Theresienstadt, dove ogni dettaglio della vita quotidiana era nelle mani dei capi ebraici.
In quanto alle giustificazioni per una tale linea di condotta, ve ne furono molte in Germania. Era piuttosto diffuso il pensare: a) se qualcuno di noi deve morire, è meglio che lo decidiamo noi anziché i nazisti. Non sono d’accordo. Sarebbe stato infinitamente migliore lasciare che i nazisti sbrigassero da sé i propri affari omicidi; b) con cento vittime ne possiamo salvare mille. Questo mi sembra come l’ultima versione del sacrificio umano: prendi sette vergini e sacrificale per placare l’ira degli dei. Questo non è il mio credo religioso, e certamente non è la fede dell’ebraismo. Infine, la teoria del male minore: agiamo noi affinchè non vi siano uomini peggiori a prendere i nostri posti; facciamo brutte cose per prevenirne di peggiori.
Eichmann, pur con il ruolo limitato che lei gli attribuisce, non avrebbe potuto causare in condizioni di guerra ritardi e confusione nei trasporti se avesse voluto salvare anche solo qualche vita? Il non averlo voluto non basta forse a renderlo un mostro secondo ogni accezione del termine?
Non penso che Eichmann avrebbe potuto sabotare i suoi ordini anche se avesse voluto (una volta fece qualcosa del genere, come scrissi). Ma avrebbe potuto dimettersi e non gli sarebbe accaduto nulla se non un arresto della sua carriera. Di certo fece del suo meglio, come ho detto molte volte, per eseguire quello che gli venne richiesto. Se la sua devozione al compito è sufficiente per chiamarlo un mostro, allora lei deve concludere che la maggior parte dei tedeschi sotto Hitler furono dei “mostri”. (…)
Non penso di aver minimizzato alcunché. Ho solo raccontato cosa avrebbe potuto fare e cosa no, quali erano le sue competenze. Il processo, poi seguito dal giudizio della Corte Suprema, (…) agì come se sul banco dell’imputato ci fossero Heydrich o addirittura Hitler, non Eichmann. Questo fu assurdo. Non fui io a sminuire il ruolo di Eichmann, bensì l’evidenza dei fatti. (…)
Lei pensa che gli ebrei nel complesso abbiano imparato qualcosa dall’esperienza di Hitler?
Non ho dubbi sul fatto che l’esperienza di Hitler abbia lasciato un segno profondo su tutta la popolazione ebraica mondiale. Nel libro ho parlato delle reazioni immediate e talvolta ho pensato che noi siamo testimoni di un cambiamento profondo del “carattere nazionale”, per quanto ciò sia possibile. Ma non sono sicura; e mentre penso che sia arrivato il tempo di raccontare i fatti, sento che per un giudizio così ampio non è ancora arrivato il momento giusto. Lasciamo questo alle generazioni future.
Traduzione di Alessandro Melazzini
Da pagina 35 de La REPUBBLICA, un'intervista di Vanna Vannuccini alla storica Anna Grunenberg, autrice di un libro sulla storia d'amore tra Hannah Arendt e Martin Heidegger: "Arendt Heidegger, due amanti piene di colpe":
Un amore in Germania nel secolo appena passato che mette a nudo le lacerazioni della storia e della cultura tedesca. Un rapporto fatto di felicità e tragedia, impegno e delusione. Due amanti che per origine, carattere e esperienze di vita non avrebbero potuto essere più distanti. Da quando sono state pubblicate le lettere di Hannah Arendt e Martin Heidegger (quelle di lui erano state a lungo inaccessibili) la loro storia d´amore si è rivelata al lettore in ogni dettaglio. Per quanto riguarda lei è la storia di una liberazione del pensiero, dell´emancipazione intellettuale di una donna perseguitata perché ebrea. Per quello che riguarda lui è la storia di un maestro che abbagliato dal potere tradisce se stesso e il proprio pensiero. Per entrambi è però anche la forza di un amore, al quale soprattutto lei è incondizionatamente fedele, in nome della fedeltà verso se stessa.
Il seme di questa fede incondizionata nell´entelechia dell´amore lo aveva gettato il trentacinquenne professore che le citava Agostino ("amo significa volo ut sis, voglio che tu sia come sei") e già nella sua seconda lettera, il 21 febbraio 1925, le scriveva : "Perché l´amore è un dolce fardello? Perché noi ci trasformiamo in ciò che amiamo eppur restiamo noi stessi. Vogliamo dire grazie all´amato ma non troviamo niente che sia sufficiente se non il dono di noi stessi. Così l´amore trasforma la gratitudine in fedeltà a se stessi e nella capacità di credere incondizionatamente nell´altro". Tanta totale disponibilità naturalmente non sedusse solo sul piano filosofico la studentessa diciottenne, bella e affamata di sapere. Tre anni dopo, lasciata Marburg dove insegnava Heidegger, Hannah Arendt si laureò a Heidelberg con Jaspers con una tesi sul concetto di amore in Agostino.
Antonia Grunenberg, che dirige il Centro e l´Archivio Hannah Arendt all´Università di Oldenburg, ci racconta in un libro ben curato e dettagliato (Storia di un amore, Longanesi, pagg. 500, euro 22) la storia di questo amore che fece scandalo – non solo perché era il legame tra una ragazza e un uomo sposato e padre di famiglia; lo scandalo continuò anche dopo la guerra perché lei, emigrata negli Stati Uniti, volle riprendere fin dal suo primo viaggio di ritorno in Germania i contatti con lui, che si era lasciato sedurre dal nazionalsocialismo e nel 1933 era stato nominato rettore dell´Università di Marburg. Qual è il segreto di un amore così pervicace da ignorare qualsiasi tipo di delusione?
«Il segreto del loro amore era, io credo, quello di prendere nutrimento da più fonti. Una di queste era la passione . Ma un´altra era la fedeltà, un´altra ancora la fede nella verità del vissuto; e infine il comune, ancorché conflittuale, rapporto con il pensiero e il suo sviluppo».
Perché Hannah Arendt volle riprendere i contatti con Heidegger?
«Dalle lettere e da tutte le notizie che abbiamo è evidente che Arendt prima di tutto voleva sapere se il suo amore era stato vero, se aveva anche per Heidegger questo significato esistenziale che lei gli attribuiva; o invece se per lui era stato soltanto un affaire, una storia. Certamente c´era da parte di lei anche la curiosità di sapere che cosa fosse divenuto davvero quest´uomo che aveva tradito la filosofia, il pensiero e lei stessa. Tra gli emigrati negli Stati Uniti si parlava continuamente degli amici e dei colleghi di un tempo, di quanto si fossero compromessi col nazismo, e su Heidegger correvano le voci più disparate. Si sapeva che era stato uno dei primi rettori universitari a passare al nazismo a bandiere spiegate. Perciò lei voleva sapere quello che veramente aveva fatto, chi era, come si era comportato».
La scoperta più interessante nelle sue ricerche?
«E´ stato capire a fondo quale fosse l´idea dell´amore per Hannah Arendt. Secondo lei dall´amore tra due persone nasce una terza cosa che è un riferimento per entrambi. L´amore non consiste solo nei sentimenti verso l´altro, ma prende una forma propria – che chiede qualcosa a entrambi gli amanti. Ho anche capito perché Hannah Arendt dopo la guerra abbia sempre rifiutato la definizione di filosofa, anche se si muoveva nell´ambito della filosofia. Aveva infatti elaborato una critica radicale al modo in cui Heidegger e altri si occupavano di filosofia come materia di riflessione senza sentire nessun impegno verso il mondo, senza manifestare in alcun modo quella "cura" in senso ontologico di cui Heidegger parla diffusamente in Essere e Tempo. Secondo Arendt questo pensiero che distoglieva lo sguardo dal mondo fu una delle cause del fallimento degli intellettuali europei di fronte agli avvenimenti politici del secolo scorso».
Alla fine, diventa Hannah la figura dominante nel loro rapporto?
"Hannah Arendt era una figura dominante e Heidegger, almeno quando lei lo incontrò di nuovo dopo la guerra, era un pensatore chiuso in se stesso, che esercitava il pensiero non con la determinazione ma piuttosto attraverso la calma, la contemplazione. Certamente lei non lo ha mai dominato, ma poiché si muoveva nel mondo più di lui, aveva più collegamenti con il mondo reale, poteva nei loro colloqui anche sfidarlo, provocarlo».
Il rapporto tra Arendt e Heidegger è secondo lei in qualche modo paradigmatico dei rapporti tra tedeschi e ebrei?
«In un certo modo e per un certo periodo senz´altro. Rapporti di questo genere ce ne sono stati molti. Gli intellettuali tedeschi e gli intellettuali ebrei si influenzavano reciprocamente. E´ vero che alla fine del 19esimo secolo c´era stata una divisione negli ambienti del movimento giovanile nazionalista, ma prima del 1933 non aveva influito su i veri grandi intellettuali. E questa era stata fino al ‘33 anche l´esperienza di Hannah Arendt. Fu nel ‘33 che la situazione precipitò e gran parte degli intellettuali tedeschi e europei si rivelarono volenterosi collaboratori dei regimi autoritari. L´esperienza del crollo dell´intellighenzia europea fu considerata paradigmatica da Arendt e fu quello che la spinse a riflettere continuamente sul rapporto del pensiero filosofico col mondo».
Uno dei temi su cui riflette è la natura della responsabilità di chi è sottoposto, praticamente disarmato, alla propaganda di un regime totalitario. Qual è il suo giudizio?
«Nei dibattiti del dopoguerra sulla colpa e sulla responsabilità Hannah Arendt tracciò un confine preciso. In genere la discussione oscilla tra due poli. Chi dice che sotto una dittatura non si può parlare di responsabilità perché la dittatura è violenza e costrizione. E chi sostiene che esiste l´obbligo a resistere, anche a rischio della vita. Hannah Arendt propone una terza prospettiva. Con Kant e con Socrate lei sostiene che nessun uomo può voler convivere con il suo alter ego criminale. Il nostro alter ego (che in termini cristiani è la coscienza) ci dice che non possiamo commettere crimini, altrimenti diventiamo nemici del genere umano. Hannah Arendt non teorizza la resistenza militante, ma dice che il minimo comune denominatore è non diventare complici del male, in quanto siamo portatori di una responsabilità verso la collettività e non possiamo accettare che vada distrutta. Quindi abbiamo almeno la possibilità di tirarci indietro. Se dessimo per scontato che i regimi totalitari possono distruggere anche l´ultima capacità dell´uomo all´autocontrollo nei termini del senso comune, torneremmo in una situazione precivilizzazione, in cui ognuno è nemico dell´altro : homo homini lupus. Questo è quello che la colpì particolarmente nella vicenda e nella persona di Adolf Eichmann, che era palesemente un uomo privo di coscienza. Proprio questo sensus communis era assente nell´epoca di cui parliamo, anche e soprattutto tra gli intellettuali».
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