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Azarel Kàroly Pap
Traduzione di Andrea Rényi
Fazi Euro 18,50
Gyuri è un bambino che il destino rapisce. Nasce all’alba del secolo scorso in una famiglia di ebrei ungheresi, talmente aperta alla modernità che chiama “prete” il rabbino e “chiesa” la sinagoga. Però Gyuri è una specie di pegno che viene affidato al nonno Geremia. Quest’ultimo vive in un altro mondo, seppure a due passi da casa: sotto una tenda, fra gli stenti dell’ascesi, di una fede tanto pura quanto esigente. Gyuri trascorre qualche tempo in quella bolla di follia, poi nonno Geremia se ne va all’altro mondo e lui torna in quella casa che non conosce, attorniato da padre, madre e fratelli. Dove tutto sembra ancor più folle che nella tenda del nonno. Gyuri diventa un bambino da esorcizzare, commenta Lidi, la domestica cristiana. Lui se la ride – come fa Dio degli umani affanni -, delira, disobbedisce. Soprattutto, si pone delle domande. Su Dio e il mondo. Sul senso del tutto e del niente. E per il conformismo ammantato di modernità che i suoi genitori praticano assiduamente, porsi domande è una specie di eresia. Tanto che Gyuri finirà a mendicare fuori di casa, un po’ cacciato e un po’ fuggito. Benché questa parentesi di vita sia forse soltanto un accesso di delirio, un sogno perduto nella nebbia. Il Gyuri di Karoly Pap, protagonista di Azarel, è un grande personaggio. Riflette l’infanzia del suo autore, nato a Sopron nel 1897, figlio e nipote di rabbini. Azarel uscì a Budapest nel 1937 e segna una multiforme carriera letteraria, stroncata fra Buchenwald e Bergen-Belsen. E’ un romanzo intimista e storico al tempo stesso, perché Pap è bravissimo a entrare nella psiche del suo bambino, a dargli voce mentre legge la follia che sta dentro il mondo, armato soltanto del suo candore. Eppure questo libro è anche l’affresco storico di una comunità ebraica, quella ungherese, che non ha fatto in tempo a tirare le somme fra integrazione e chiusura. La catastrofe imminente trascolorerà tutto. Trasfigura le parole, le fa mute: “Considero questo periodo di silenzio la fase più importante della mia carriera – scrive Pap alla vigilia dell’invasione tedesca, nel marzo del 1944 -. Ho sempre pensato che scrivere fosse un mio dovere morale. Il lungo silenzio me lo ha confermato e reso una fede. Finchè i membri della famiglia dell’umanità si faranno guerra, gli scrittori, per lo meno così la penso io, non possono far divertire coloro che sono complici di questo crimine collettivo”.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa
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