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Informazione Corretta Rassegna Stampa
26.01.2009 George Mitchell: il ritorno
l'ex capo della missione americana in Medio Oriente con Clinton ricoprirà lo stesso ruolo con Obama: l'analisi di Danielle Sussmann

Testata: Informazione Corretta
Data: 26 gennaio 2009
Pagina: 1
Autore: Danielle Sussmann
Titolo: «George Mitchell: il ritorno»
George Mitchell torna a capo della missione americana in Medio Oriente.
L’ex capo missione mediorientale di Clinton è stato assegnato come responsabile per i colloqui di pace tra Israele e palestinesi, nel quadro dei nuovi equilibri e divisioni che si sono creati nel mondo arabo a causa della minaccia nucleare ed egemonica iraniana, e dopo l’Operazione israeliana Cast Deal. Obama l’ha scelto a discapito di una rosa di esperti ebrei di ben più alto profilo sul Medio Oriente: Dennis Ross, Daniel Kurtzer, Martin Indyk e Richard Holbrooke. Mitchell ha familiarità  con il Medio Oriente anche perché è figlio di una libanese, Mary Saad, emigrata negli Stati Uniti a 18 anni.
Mitchell ha già esposto le sue convinzioni il mese scorso, al convegno dell’ISS (National Security Studies) all’Università di Tel Aviv. Tra le affermazioni più rilevanti, ha detto: “Israele ha uno stato, ma la sua popolazione vive in un insopportabile stato d’ansia, pertanto il suo supremo obiettivo è la sicurezza. I palestinesi non hanno uno stato e ne vogliono uno integro, indipendente, viabile economicamente e geograficamente. Questo è il loro supremo obiettivo…Credo che nessuno dei due possa raggiungere il suo obiettivo negando all’altra parte i suoi obiettivi. Israele non può ambire ad una concreta sicurezza se i palestinesi non hanno uno stato, e i palestinesi non riusciranno ad avere uno stato finché gli israeliani non avranno una certa sicurezza.” Sic. Secondo Mitchell “qualsiasi conflitto è destinato a finire”. Il parametro di Mitchell è la costante analogia con il successo raggiunto nel 1998, con l’Accordo di Belfast che mise fine al conflitto nell’Irlanda del Nord. Questo successo l’ha raggiunto insieme a Richard Haass mediante i contatti con lo Sinn Féin. Haass era candidato alla missione mediorientale, ma vi sono state forti opposizioni perché – sull’esempio dei contatti con l’IRA – sostiene la necessità dei colloqui con Hamas. Molti analisti e politici occidentali sostengono sia la tesi di Mitchell che quella più radicale di Haass. Ci si chiede quanto alta sia la loro malafede, oppure quanto alta la loro superficialità, oppure quanto alta la loro pericolosa ingenuità. Perché questi sono i tre elementi catalizzatori che condizionano la questione mediorientale.
Malafede. L’analogia Irlanda del Nord/conflitto israelo-arabo palestinese (e più ampiamente, arabo ed islamico) è inesistente quanto surreale. L’IRA, malgrado i feroci attentati – ma dormivano le piazze occidentali dopo il massacro del Black Sunday voluto a freddo dal governo di Sua Maestà? – non ha mai inteso “prendersi” l’intera Gran Bretagna o cancellarla dalla faccia della terra. Tutte le sigle del terrorismo palestinese mirano alla “liberazione” della Palestina. Cioè: alla distruzione, e  cancellazione come stato, di Israele. Quel minuscolo territorio assegnato dalle Nazioni Unite alla Nazione Ebraica - dopo che furono disattese le promesse della Dichiarazione Balfour e i legali diritti sanciti dalla Società delle Nazioni su un’estensione ben maggiore – infastidisce l’immenso mondo arabo confinante e più ampiamente, le nazioni dall’Africa all’Asia più orientale nel nome dell’islam. I sostenitori dell’analogia nordirlandese, di fatto, vogliono anch’essi la cancellazione di Israele come stato, a favore di uno stato binazionale. I padri sostenitori di tale obiettivo sono il duo Carter-Brzezinski con un largo seguito liberal sostenuto dalla Fondazione Carter. La stessa alla base delle elezioni palestinesi che videro la prevedibile vittoria di Hamas.
Superficialità. Quest’ultima nasce dal disinteresse ad approfondire la questione mediorientale, delegando ad una maggioranza politicamente più ampia tale compito (Democratici americani, Vaticano e sinistre internazionali), ma sostenendone l’approccio di compromesso. Pertanto abbiamo la dicitura “governo di Tel Aviv” “esercito di Tel Aviv” “…di Tel Aviv”. Si badi bene che per essere corretti politicamente, basterebbe scrivere al posto di Tel Aviv “israeliano. Pertanto, la dicitura scorretta non è solo provocatoria, ma pericolosa nella sostanza. Non solo crea assuefazione all’ignoranza dei più ad una dicitura che nega ad Israele, come stato sovrano, il  riconoscimento storico e spirituale della sua capitale. Ma ancor più subdolamente, delegittima l’esistenza stessa  dello Stato di Israele! Pertanto, la superficialità va nella stessa direzione della malafede.
Ingenuità. Ovviamente, l’ingenuità non può che riferirsi ai popoli. In Occidente prevale da anni un relativismo buonista che ha intaccato ogni valore e deformato ogni realtà asservendoli ad una logica manicheista che nulla ha di razionale e concreto. Chi manovra le piazze, tra estremismi e buoni sentimenti, sa perfettamente quanto la democrazia sia obbligata a tenere conto di tali manifestazioni. La strategia pilatesca si nutre di un’immensa galleria di esibizioni della sofferenza palestinese - alimentata furbescamente dai responsabili palestinesi – ignorando del tutto quella israeliana, aizzando le piazze contro Israele. Si nutre di belle parole sul diritto di Israele ad esistere, quando poi lo nega sul piano letterario e della propaganda. Piange gli ebrei della Shoah per rivendicare il diritto ad insultare e negare l’esistenza e i diritti degli ebrei vivi, addirittura associandoli ai nazisti di ieri. Strumentalizza la Shoah per banalizzarla, ribaltando i termini carnefice-vittima ed uniformando il suo contesto storico ai palestinesi. La strategia pilatesca ha successo perché si è rivolta ad almeno due generazioni di ignoranti, facili prede della propaganda e dello slogan facile. Tra chi ha bisogno di un nemico da odiare e di un capro espiatorio per lavarsi la coscienza, ci siamo ridotti ad avere una società confusa e malsana. Se la questione ebraica non tenesse sempre banco, né quella islamica, su quale altra etnia si riverserebbe la sete di rancore, di frustrazione di questo nostro Occidente?
Esaminata la struttura su cui riposano ampia strategia politica e il consenso delle sue piazze, ci si può chiedere se l’apparente approccio carteriano di Obama sul Medio Oriente sarà basilare oppure del tutto rivoluzionario. Potrebbe riservare delle sorprese in un mix tra le politiche di Bush e dei precedenti presidenti degli Stati Uniti.
Una forte valenza simbolica per l’ebraismo è stata rappresentata dal “dono” della bandiera americana che sventolava sul più alto pennone del Campidoglio durante la cerimonia del giuramento di Obama, all’ambasciatore israeliano Sallai Meridor nel segno della continuità dell’alleanza e degli impegni americani con e a favore di Israele. Il Day One di Obama è iniziato con la prima telefonata ad un leader mediorientale, a M. Abbas presidente dell’AP. Al cerchiobottismo delle apparenze, si deve rilevare che è stato un gesto sostanziale quanto simbolico. Dando rilievo ad  Abbas, Obama ha dato un  segnale forte nel ritenerlo l’unico legittimo leader palestinese. In tal modo ha rinforzato la sua leadership, ma, altrettanto, l’ha coinvolto come prima parte ad impegnarsi concretamente per la pace e per l’edificazione dello stato palestinese. Nel non scegliere un inviato speciale per il Medio Oriente che fosse ebreo, forse Obama ha voluto dare un ulteriore segnale di imparzialità all’islam. La strategia Obama la capiremo solo fra qualche mese, ma alcune percezioni le avremo quando si comporrà la lista dei membri della nuova Commissione Mitchell.
Nel 2000, la Commissione Mitchell – che aveva come compito l’inchiesta sulle ragioni che avevano portato alla rivolta di al-Aqsa scatenata da Arafat – annoverava i seguenti membri: l’ex senatore americano Warren Rudman, l’ex presidente turco Suleyman Demirel, l’ex ministro degli esteri norvegese Thorbjorn Jagland e il capo della diplomazia dell’Unione Europea Javier Solana.  Dovremmo pertanto aspettarci una composizione similare per il nuovo pannello: un (ex) senatore americano, un turco, un europeo e il nuovo capo della diplomazia della UE. La Turchia ha svolto un influente ruolo pre Operazione Cast Deal, tra Israele e paesi arabi, sia a livello stati che su alcune spinose controversie islamiche. Tuttavia, durante il conflitto israeliano contro Hamas, la leadership islamica al governo turco si è scagliata con pesantissimi attacchi verbali (“più infiammanti di quelli mai affermati dai tradizionali nemici di Israele”) contro l’alleato militare e commerciale mediorientale. Tenuto conto che l’esercito turco è il potente difensore della laicità della Turchia, i rapporti israelo-tuchi non avrebbero ragione di incrinarsi. Per ora, non se ne ha alcuna notizia. Inoltre, la Turchia, grazie a Sarkozy che però si oppone alla sua entrata nella UE, si è vista rafforzata nel suo ruolo di importante partner mediterraneo nella rivalutazione prioritaria dell’organismo politico-economico rilanciato dal presidente francese dopo il periodo di lunga “morte” dalla sua fondazione. La Norvegia si trova a malpartito. Non solo considerata ostile ad Israele, ultimamente la sua ambasciata a Teheran si è trovata coinvolta in uno scandalo diplomatico. Dal computer della  segreteria dell’ambasciata sono partite migliaia di e-mail con diverse fotografie allegate, che riproducevano ognuna una manipolazione tecnica con un parallelo tra foto della Shoah e foto di Gaza durante l’Operazione Cast Deal. Sorpresa inspiegabile per i norvegesi, ma un precedente per non volerli nella nuova Commissione Mitchell. Quanto al nuovo capo della diplomazia UE, non si avrà lo schierato filoarabo tradizionale, ma un membro ceco, con la Repubblica Ceca schierata con Israele e gli Stati Uniti. Tuttavia, la resistenza anti-UE sollevata dal presidente ceco rischia di far valere in campo ancora la presidenza francese, approfittando del MediaPartneriato Mediterraneo. I giochi europei rischiano di appetire la visione carteriana della politica mediorientale americana. D’altronde, gli analisti concordano sul fatto che la demonizzazione di Bush è nata dal rifiuto europeo ad una collaborazione fattiva nella guerra al terrorismo e alla collaborazione economica. Si chiedono solo quanto durerà il flirt europeo con Obama, quando questi farà le stesse richieste di Bush. L’inazione e i compromessi stanno alla  politica europea come la sua strategia pilatesca.
In questa analisi non può mancare un riassunto-commento sulla pubblicazione del rapporto della Commissione Mitchell (C.M.) 2001 (www.mideastweb.org/mitchell_report.htm). Inizialmente, fu ben visto da Israele, perché Mitchell non sposò le tesi arabe sulla relazione Sharon-Monte del Tempio (o Spianata delle Moschee) quale innesco della rivolta di Arafat il 28 settembre 2000. Tuttavia, Mitchell sposò tutte le premesse palestinesi come causa delle violenze dell’epoca. La C. M. accettò come un dato di fatto che 1) l’OLP avesse guidato le sommosse quale movimento per una “indipendente e genuina auto-determinazione”. Ma se aveva già ottenuto questo con gli Accordi di Oslo!  Inoltre, il rapporto non ha tenuto conto delle pubblicazioni dell’OLP, anche in pieno processo Oslo, delle mappe e dei resoconti dei media, consistentemente e chiaramente inneggianti alla liberazione della Palestina, di tutta la Palestina, quale obiettivo da raggiungere attraverso tappe diverse; 2) considerò i rivoltosi armati di bottiglie Molotov come “dimostranti palestinesi non armati”; 3) affermò che le forze di sicurezza israeliane non stavano fronteggiando un reale pericolo quando si dovettero controntare con una mobilitazione che cercava di ucciderli con razzi e bombe; 4) non menzionò che l’AP aveva ammassato 50 mila armi oltre a quelle legali, in netta violazione agli accordi di Oslo.
La Commissione accettò la nozione che le forze di sicurezza dell’AP non erano semplicemente in grado di controllare i loro servizi di sicurezza (sic!); non considerò affidabile i rapporti dell’intelligence israeliana che documentavano la pianificazione dell’AP alla rivolta: dal maggio del 2000. Non inserì la documentazione che dimostrava che nei precedenti sette anni l’AP aveva preparato i suoi media, il sistema scolastico e i servizi di sicurezza ad un violento scontro con Israele. Mitchell liquidò la documentazione come un “punto di vista” israeliano. Altrettanto, rigettò la caratterizzazione israeliana sul conflitto quale “conflitto armato equivalente ad una guerra”. Come descrivere altrimenti un esercito che fa fuoco con i suoi mortai sulle città israeliane?!! La C.M. condannò pure l’IDF per aver ucciso ufficiali dell’OLP in tempo di guerra, senza possibilità di alternativa. Invece di fare un esplicito richiamo all’OLP affinché fermasse gli attacchi dei cecchini sulle strade israeliane e sulle autostrade, la C.M. “condannò le postazioni di armati tra o vicino ai civili” lasciando presumere che fossero accettabili gli attacchi dell’OLP da postazioni senza civili nei dintorni. La C.M. sposò la propaganda araba quando ammonì “le forze di sicurezza e i “coloni” israeliani ad interrompere la distruzione di case, strade, alberi e proprietà agricole nell’area palestinese” senza tener conto che molti di questi luoghi erano stati rasi al suolo per consentire i combattimenti delle forze di sicurezza dell’AP. La C.M. accettò la nozione che “i coloni e gli insediamenti” fossero la causa della rivolta palestinese, aggiungendo che la permanenza di comunità ebraiche in Giudea e Samaria violavano “lo spirito del processo di Oslo” anche se non vi è una sola parola negli accordi di Oslo che si rifaccia alla necessità dello smantellamento di un qualsiasi insediamento israeliano. La C. M. ha delineato una strana analogia tra insediamenti e l’inadeguatezza dei palestinesi a riprendere i negoziati fintanto che gli insediamenti continuano ad esistere, offrendo più di una scusa all’OLP per continuare il suo conflitto armato. In conclusione, il Rapporto della Commissione Mitchell ha seppellito ogni credibilità di Mitchell quale inviato responsabile di una missione sul Medio Oriente.
In conclusione, la situazione è molto cambiata da allora. Va, inoltre, tenuto in conto la lettera del 14 aprile del Presidente Bush ad Ariel Sharon – legittimata dal Congresso degli Stati Uniti – per un impegno americano a sostenere il 67 plus. Cioè, i negoziati sulla linea armistiziale del 1967, tenendo conto della realtà sulla maggioranza etnica che si è sviluppata – sulla ed entro quella linea - in Israele e in Cisgiordania. Va tenuto conto che devono essere ripristinati gli accordi seguiti al ritiro unilaterale israeliano da Gaza, tra Israele, Egitto e Giordania. Soprattutto, da parte dell’Egitto affinché impedisca il contrabbando da Rafah di armi e finanziamenti a Hamas e loro alleati del Fatah e Jihad islamica. Va tenuto anche conto dell’Iran, ma questo è un altro argomento e più complesso.
Facciamoci però poche illusioni: il paragone mediorientale con l’Irlanda del Nord, il precedente rapporto della Commissione Mitchell, l’odio antisraeliano sempre più acceso nelle piazze occidentali, la mistificazione internazionale sulla questione arabo-israeliana, sono i nemici di ogni pace concreta in Medio Oriente.
Danielle Sussmann

http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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