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La Stampa Rassegna Stampa
25.01.2009 Abolisce il contesto del contrabbando tra Gazae e l'Egitto, dà a una vicenda privata un significato politico che non ha
analisi di due articoli di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 25 gennaio 2009
Pagina: 16
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Cibo, medicine e armi: Gaza riparte dai tunnel - Neanche i tank mi toglieranno le mie nipoti»
Da La STAMPA del 25 gennaio 2009, riportiamo l'articolo di Francesca Paci "Cibo, medicine e armi: Gaza riparte dai tunnel".
In esso, come in molti articoli pubblicati dalla stampa italiana sui tunnel tra Gaza e l'Egitto, non viene chiarito un punto fondamentale.
Contrabbando d'armi e infiltrazioni terroristiche riguardavano anche i valichi, ed'è per questo che si è reso necessario il loro controllo. Hamas è giunta a bombardarli, provocandone temporanee chiusure, perché ne vuole il controllo. Sia per rendere dipendente la popolazione dal proprio sistema assistenzialistico, sia per armarsi senza intralci.
Il contrabbando di armi non è una conseguenza del controllo delle frontiere di Gaza da parte di Israele. E' invece quest'ultimo ad essere una conseguenza della volontà di Hamas di armarsi per condurre la sua guerra a oltranza contro lo Stato ebraico.

Oltre a non chiarire il contesto del contrabbando a Rafah, l'articolo di Francesca Paci utilizza espressioni che attribuiscono a Israele una volontà distrutrice inesistente. Leggiamo ad esempio:
"L’aviazione non ha risparmiato neppure la lapide in ricordo di Rachel Corrie, l’attivista americana travolta nel 2003 da un bulldozer israeliano mentre cercava di bloccare la demolizione di una casa a pochi metri da qui".

Difficile pensare che l'aviazione israeliana abbia intenzionalmente bombardato una lapide.
In questa frase, poi, manca una precisazione fondamentale: che la morte di Rachel Corrie fu un incidente (provocato dalla sconsideratezza delle azioni dell'ISM , che impiega i suoi militanti come scudi umani contro le azioni antiterroristiche israeliane).

Ecco il testo dell'articolo:

Due ore dopo il cessate il fuoco ero già là sotto a controllare i danni, ci vorranno 10 mila dollari ma ripartiremo». Mahmoud, 17 anni, pantaloni combat e bomber, mostra fiero il suo piccolo cantiere: un fazzoletto di sabbia coperto da un telo di plastica e al centro, puntellata da tubi di alluminio, la bocca del tunnel, un buco largo un metro e ottanta sormontato da un montacarichi rudimentale. Il terreno intorno sembra esploso in mille crateri, come se una talpa gigantesca avesse scavato furiosamente. Secondo il capo di Stato maggiore israeliano Gabi Ashkenazi «tutte le gallerie conosciute sono state bombardate». L’aviazione non ha risparmiato neppure la lapide in ricordo di Rachel Corrie, l’attivista americana travolta nel 2003 da un bulldozer israeliano mentre cercava di bloccare la demolizione di una casa a pochi metri da qui. Mahmoud mostra i frammenti del cippo funebre della ragazza, una specie di protettrice dei contrabbandieri con la pala. «Dovessero distruggere i tunnel cento volte, cento volte li ricostruiremmo», dice avvolgendosi l’imbracatura intorno alla vita sottile. Afferra piccone, walkie-talkie e giù, un volo di 15 metri nel labirinto che si estende sotto il confine egiziano.
A Rafah, estremo Sud della Striscia di Gaza, la ricostruzione è cominciata da un pezzo. Mentre Europa e Paesi arabi cercano la cabala per risollevare la sorte di un milione e mezzo di palestinesi senza arricchire i signori di Hamas, centinaia di giovanissimi, la «meglio gioventù» locale, si sono rimboccati le maniche: chi carica e scarica, chi puntella, chi scava ex novo. I bombardamenti israeliani hanno minato il commercio ma, come nel paradosso keynesiano delle fosse scavate e poi riempite, hanno rilanciato l’edilizia. I tendoni di plastica da cui si accede alla città sotterranea sono ovunque, un grande accampamento a una ventina di metri dalla frontiera dove 1200 poliziotti egiziani pattugliano senza grande convinzione.
«Per mesi questo buco ha sfamato 24 famiglie, i 12 proprietari e gli operai»; urla Alì riparando la scala a pioli verso l’abisso. Generatori e gru fanno un rumore assordante. La sua ditta, nel campo profughi Brazil, ha aspettato che finissero le bombe e si è rimessa in moto. Accanto alla pompa dell’aria di marca israeliana, riserva d’ossigeno per chi scava, il contatore del Comune di Rafah segna il consumo dell’elettricità.
Un camion carico di materassi e pannolini supera il somaro che trascina tra i vicoli sterrati il carretto con a bordo quattro donne velate fino ai piedi. «Il dieci per cento dei tunnel ha ripreso a funzionare», rivela Abu Raham, 50 anni, proprietario di un paio di gallerie che a pieno ritmo rendono 100 mila dollari al mese. Israele lo sa: l’operazione Piombo Fuso ha decimato l’arsenale di Hamas mancando però l’obiettivo principale, la distruzione della rete sotterranea da cui passano zucchero e cioccolata ma anche armi, esplosivi, munizioni. Il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni ha messo in guardia i palestinesi: «Se servirà un’altra operazione militare per bloccare il traffico clandestino non ci tireremo indietro». Loro, a Rafah, si portavano avanti con il lavoro.
Gaza brucia in superficie. Gli ulivi spianati dai carri armati a ridosso dell’ex colonia ebraica di Netzarim, una mucca squartata alla periferia di Jabalya dove il fetore dei rifiuti addensa l’aria, le macerie del Parlamento. Sotto, nelle catacombe, si attizza il mito della «resistenza». «Gli israeliani hanno ucciso solo civili e bambini ma i nostri leader sono tutti al loro posto», mormora Sabaha Abu Khalima tra le bende che le coprono le piaghe. Un missile le ha portato via il marito e quattro figli, lei è ricoverata al reparto ustionati dell’ospedale Shifa assieme ad altri cinque feriti. «I casi gravi sono stati trasferiti in Egitto», spiega l’infermiera Khetem Matar. Il corridoio umanitario sopra quello commerciale.
«L’unico modo per eliminare i tunnel è riaprire i valichi», nota Bilad, 35 anni, disoccupato fin quando, nel 2004, si è messo sul mercato. Armi no, dice. Non qui. Con la testa indica un edificio mezzo distrutto poco più in là. Inutile forzare le lamiere, un ragazzo con la barba lunga caccia via i curiosi in malo modo. Bilad non simpatizza con Hamas: «Le guerre già perse non vanno combattute, se il presidente Abu Mazen riprendesse il controllo di Gaza ci riapriremmo al mondo. Obama sembra bene intenzionato, insciallah». Ma poi chissà. L’unica luce in fondo al tunnel, per ora, è quella egiziana.

A pagina 16, un altro articolo di Francesca Paci "Neanche i tank mi toglieranno le mie nipoti".
La storia è in parte simile a molte altre nel mondo: un conflitto per l'affidamento dei figli dopo la fine di un matrimonio.
Solo che in questo caso il padre,  palestinese, è morto ucciso da un missile in un'operazione militare israeliana, e la moglie, ebrea, è tornata in Israele.
A contenderle l'affidamento dei bambini è ora il nonno, che li tiene con sé a Gaza.

L'aspetto singolare dell'articolo consiste nel fatto che questa vicenda, privata e sicuramente dolorosa per tutte le persone coinvolte, viene trasformata in un nuovo capitolo della "resistenza" palestinese alla preponderante forza israeliana.

Ecco il testo:



Jasmine Kadera fa capolino da dietro le gambe di nonno Mahmoud. Gioca con le piccole trecce nere, sorride. Lui no: «Non permetterò che la portino via». Una macchia rossa sullo scalino davanti alla porta di casa Kadera, a Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza, ricorda il punto in cui papà Rami è stato colpito da un missile israeliano una settimana fa, poche ore prima del cessate il fuoco. Da quando è morto il figlio, Mahmoud ha una missione: proteggere le tre nipotine, Jasmine e le gemelle di 2 anni Suleima e Dali, dal Tribunale Superiore di Gerusalemme che ha dato ragione alla nuora, l’israeliana Galit, fuggita da Gaza un anno e mezzo fa con tre figli e intenzionata a riprendersi le bimbe.
I giudici israeliani spaventano Mahmoud più dei carri armati che alla fine dell’offensiva di terra si erano spinti fin dentro i vicoli sterrati a ridosso della sua abitazione. «Galit vuole che le bimbe crescano in Israele, tra gli ebrei, dimenticando che sono nate da padre e madre musulmani», dice, mostrando il certificato di conversione all’islam firmato da Galit il giorno del matrimonio.
La storia di Rami e Galit Popouk comincia nel 1998 a Nazareth, lui lavora come elettricista lei è appena emigrata dalla Russia. S’innamorano, si sposano, nel 2000 decidono di andare a vivere insieme a Gaza. Fin qui i ricordi di Galit e del suocero coincidono. La camera da letto nuziale, al primo piano di casa Kadera, è un piccolo tempio: gli smalti di Galit, le sue foto con il velo azzurro, gli abiti di Rami che non c’è più. «Era felice qui, aveva un appartamento con mobili nuovi, delle amiche, una famiglia che l’amava e che se tornasse l’amerebbe ancora», racconta Mahmoud. Ammette d’averle negato il permesso di lavorare, ma solo per rispetto: «Aveva trovato un posto da traduttrice alla Palestinian Tv, dissi no perché una donna in televisione non è rispettabile». Nessuno immaginava che un giorno d’estate del 2006, con la scusa di portare i figli Tami, Maor e Daniel, in Israele per una visita medica, Galit si sarebbe lasciata alle spalle il valico di Eretz senza voltarsi mai più.
Lei, che è diventata un caso sulla stampa israeliana, dice di averci pensato parecchio: «Ero l’unica ebrea a Gaza, non ce la facevo più». A lungo ha chiesto a Rami di raggiungerla a Nazareth con le bambine. A lungo l’uomo è stato tentato, parola di Mahmoud: «Si sentivano al telefono ogni giorno, centinaia di shekel. Rami voleva andar via. Gli dissi che era libero, ma Jasmine, Dali e Suleima no, le abbiamo cresciute noi, non le lasceremo partire». Quando è scoppiata la guerra Galit ha perfino sognato il blitz: «Ho telefonato mille volte ai comandi militari, chiedevo di mandare le truppe a prendere le bambine». Avrebbero trovato Mahmoud Kadera sulla porta, più agguerrito dei miliziani in trincea.

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