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Il Foglio Rassegna Stampa
24.01.2009 Il nemico della jihad non è l'Occidente: è la civiltà
la prefazione di Giulio Meotti al nuovo libro di Lee Harris

Testata: Il Foglio
Data: 24 gennaio 2009
Pagina: 4
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Gli uomini e le rovine»
Da pagina 2 dell'inserto del FOGLIO del 24 gennaio 2009, riportiamo un estratto della prefazione di Giulio Meotti al libro do Lee Harris "La civilità e i suoi nemici", in uscita da Rubettino.
Ecco il testo, intitolato "Gli uomini e le rovine":

Le migliaia di morti provocati dal terrorismo contro le Twin Towers, il grande pianto e le intense preghiere suscitati dagli attacchi terroristici, l’immenso spavento indotto dalla perfezione tecnica e dal nullismo mistico di quel quadruplice volo mortale, hanno spinto gli americani a percepire la minaccia assoluta che viene dalle viscere oscure del fanatismo e del nichilismo di una perversione del sentimento religioso. Assoluto è l’aggettivo ideale per questa parabola della distruzione e della sopravvivenza tracciata da Lee Harris, un atto di sacerdozio laico in onore di una nazione e di una civiltà che è rimasta in piedi di fronte a un nemico che ne voleva fare “l’ombra di se stessa”. Edward Rothstein sul New York Times ha scritto che il grande merito di Harris è che “invita a una pausa, sostiene che la visione moderna per sconfiggere i nostri nemici è basata su false premesse: che la storia progredisca, che la storia progredisca verso una ragione sempre più influente e che la ragione possa superare ogni ostacolo. Nella visione di Harris questi errori hanno condizionato il confronto cruciale fra il jihadismo e la cultura liberale occidentale”. Filosofo, saggista, polemista e scrittore americano fra i più letti dopo alcuni saggi sull’11 settembre, Lee Harris è autore di questo classico del pensiero contemporaneo, “Civilization and Its Enemies”. Grande estimatore di Benedetto XVI, il Papa della lectio magistralis di Ratisbona, Harris è anche noto come “l’anti-Fukuyama” per il suo attacco alle teorie sulla “fine della storia” e al neoconservatorismo come “illusione postmoderna”. “Civilization and Its Enemies” è un’opera salutata perfino dai liberal come un indispensabile tour de force intellettuale sugli attacchi alle Torri Gemelle. Nel suo stile colloquiale e cristallino, che ha il merito di non attenuare ogni elemento identitario, Harris fornisce il più potente argomento contro la fine della storia. Nel suo appello è fortissimo il richiamo ai founding ideals, ai valori che non appartengono solo agli Stati Uniti d’America e che il mondo intero ama e persegue: la convinzione dell’eguale dignità della persona; la convinzione che le verità universali morali esistono e sono accessibili a tutti; la convinzione che i contrasti e i disaccordi richiedono apertura ad altri punti di vista e ragionevolezza nella ricerca della verità; la convinzione che debba esserci libertà di espressione e di religione. E che si debba essere pronti a lottare per difenderli. Harris è il primo ad aver denunciato la perdita dell’istinto di difesa in occidente. Poi è tornato in libreria con “The Suicide of Reason”, un pamphlet dinamitardo sul crollo del fronte interno e del neorazionalismo di fronte all’attacco del fanatismo islamista. Secondo lo scrittore olandese Leon De Winter, “Harris è l’intellettuale americano che forse più degli altri ha analizzato in profondità gli effetti morali, psicologici e politici dell’11 settembre”. Democratico per formazione, prestato ai repubblicani dopo che il terrorismo jihadista ha svelato il suo volto, Harris non edulcora lo scontro di civiltà e lega entrambi i libri con l’idea che oggi in gioco ci sia qualcosa di più della sicurezza: il fallimento della nostra civiltà. “Noi ci troviamo”, scrive l’autore, “nel bel mezzo di un conflitto tra coloro per i quali la categoria nemico è determinante nell’organizzare l’esperienza umana, e coloro per i quali l’immagine del nemico è bandita dal dibattito pubblico e addirittura dai propri pensieri. Perché ci odiano? Ci odiano perché siamo il loro nemico”. Harris scardina le fortezze sociologiche e postmoderne con le quali la nostra pubblicistica ha letto il crollo delle Twin Towers, l’ultimo volo degli shahid guidati da Mohammed Atta e il nodo infame dello sterminio seriale di esseri umani innocenti, musulmani e “infedeli” uccisi proprio perché innocenti, come in un grande sacrificio umano di massa. “L’11 settembre non è stato un atto di terrore clausewitziano, cioè terrore usato come arma strategica per il suo effetto psicologicamente debilitante sul popolo americano. E’ stato un dramma simbolico, un grande rito a dimostrazione della potenza di Allah, uno spettacolo destinato a inviare un messaggio non al popolo americano ma al mondo arabo. Ulteriori azioni su scala minore non avrebbero esercitato alcun fascino, ed era il fascino – e la grandiosità – ciò che al Qaeda perseguiva”. Passione socratica alla ricerca, vocazione alla terra bruciata, nessuna indulgenza e tanto sdegno rendono Harris uno dei pochi pensatori americani in grado di lacerare tabù e scomporre veli. Questo Carl Schmitt americano, filosofo laico cresciuto nel Sud dei battisti evangelici, secondo la scrittrice e dissidente somala Ayaan Hirsi Ali “comunica un senso di urgenza, un desiderio di scuotere dal loro sonno i leader occidentali, costringendoli a prendere atto di quanto finora non hanno saputo comprendere: sono oramai in guerra contro un avversario che si batte secondo le leggi della giungla”. Harris prende atto che l’occidente ha fallito nel rapporto con il revival islamista. L’errore della ragione astratta illuminista è la dimenticanza: “Civiltà nascono e tramontano e in ciascun caso la caduta non era inevitabile, ma conseguenza di una decisione o della mancanza di decisione. Gli esseri umani avevano dimenticato il segreto di come preservarla per i propri figli. Anche noi ci stiamo pericolosamente avvicinando a questo punto. Il passato ci dice che non può esserci pace perpetua, coloro che sono convinti di questa illusione mettono in gioco la propria sopravvivenza, ci sarà sempre un nemico e il conflitto sarà fra due modi di vivere che non possono coesistere. Ma il passato non dice come finirà. Franklin D. Roosevelt sapeva di avere solo due scelte: resa o guerra. Se la ragione tollera coloro che si rifiutano di giocare secondo le regole della ragione, il risultato sarà il suicidio della ragione”. Harris vede nel fondamentalismo un “meccanismo di difesa”, che ha protetto l’islam dalla pressione di un mondo in trasformazione, consentendogli di espandersi verso nuovi territori e culture. Ma c’è un altro fanatismo, che starebbe contaminando le società occidentali, ed è quello che lui identifica come un “fanatismo della ragione”. A suo parere, la ragione ha in sé un potenziale che potrebbe essere fatale, poiché induce nei leader occidentali una sorta di cecità di fronte alla sollevazione islamista. Harris ha ragione a ritenere che essi abbiano in genere idee molto confuse sul mondo islamico. Ma il problema, sottolinea Ayaan Hirsi Ali, non è un eccesso di ragione, quanto il relativismo morale, la tendenza a idealizzare i costumi tribali. La nota dolente del pensiero di Harris si trova forse nel non riconoscere che dopo l’11 settembre si è aperta una grande partita anche all’interno del mondo islamico. Il viaggio nel “cuore del medio oriente”, come il presidente americano Bush ha definito la spedizione irachena, si è trasformato in un’avventura tragica e imperfetta attraverso le malignità arabe, il dispotismo, il settarismo e l’antimodernismo. Harris è straordinario nel guidarci fra i meandri di questo magma occulto. Stando così le cose, nella guerra fra “fanatici e dubitaristi”,come li chiama il filosofo americano, non è difficile immaginare chi vincerà. L’unica speranza è che la ragione umiliata riscopra la propria legittimità nel confronto con il fanatismo armato e riconosca se stessa come nemica dei fanatici. Uno dei più bizzarri paradossi del relativismo, afferma Harris, è che non possiamo dire che la nostra religione e la nostra cultura siano meglio di altre. Una gloria dell’occidente è stato lo sradicamento del virus del fanatismo. Forse lo abbiamo raggiunto al prezzo della nostra sconfitta. “Una società senza nemici non ha bisogno di insegnare ai propri figli come combattere e come correre quando qualcuno vuole ucciderli. Ma una società che ne ha deve fare tutto questo e deve farlo bene, altrimenti perirà”. L’immagine tratteggiata da Harris è quella di una meravigliosa montagna che sta per crollarti addosso. Harris non si beve la doxa dell’insignificanza della religione, maneggia con cura un risveglio lontano dai canoni neosecolaristi intrisi di prepotenza e di indifferenza, una filosofia fit, in forma, conveniente, che ha una vocazione al pensiero unico. Una cultura incapace di capire il più dirompente fenomeno del nostro tempo: la “bomba umana”, come la chiama André Glucksmann. Prima del crollo del World Trade Center, tutti i grandi saggisti prevedevano una fase secolare e benigna della storia. L’11 settembre ha cambiato tutto questo. Quando lo schema si è rotto a causa della “più grande dimostrazione del potere di Allah”, come Lee Harris definisce l’11 settembre leggendo la storia tramite una lente atrocemente hegeliana, frantumando in pezzi il falso cleavage laico-religioso, solo allora si è capito che la politica non si giustifica da sola per il fine utilitario che incarna. Non è un caso che la battaglia per la libertà e per la democrazia resti saldamente nelle mani di Gerusalemme e Washington, due fra i paesi più religiosi al mondo. Il sacro non è soltanto distorsione mitica e sottomissione, è il mondo moderno che è stato risacralizzato a viva forza dal purismo teologico dell’islam. Da questo risveglio religioso è travolto anche il modello turco, la terra di frontiera dove l’originale formula della laicità coatta e instrumentum regni è alla prova della libertà di religione nell’epoca del conflitto tra civiltà. La saggistica post-11 settembre era in grave ritardo sul fronte interno. Il mirabile pamphlet di Lee Harris urgeva per colmare un vuoto di cui si avvertiva la nera pesantezza. Schiaccia e va oltre la nostra retorica umanitaria che non prevede guerra, tragedia e l’inevitabile. E’ meglio della filastrocca “siamo tutti americani, ebrei e madrileni”. L’islam radicale o fondamentalista o politico, come si voglia chiamarlo, il jihad intriso di profezia, si è candidato alla guida della umma nell’attacco all’occidente, qualunque cosa questa parola significhi. Noi la traduciamo con il nostro modo di vivere diverso e libero, laico e confessionale, cristiano-ebraico, persino pagano, che Harris ama e difende con tutte le proprie forze. Però dobbiamo anche credere, come ha detto il presidente americano Bush, che “i tagliatori di teste non sono il vero volto dell’islam”. Una parte di quel mondo ha scatenato una sollevazione che ci ha travolto, facendo della propria miseria e nostalgia, dell’infinita bellezza della sua religione un grido di battaglia contro il Grande e il Piccolo Satana, americani ed ebrei. E’ qui che l’opera di Harris è chiarissima: “L’unica via per evitare la fine orrenda è riportare il mondo islamico alla ragione quanto prima”. Non abbiamo alternativa dal combattere questa guerra, sembra dirci Harris. “E’ stato il nemico ad aver deciso cosa sia questione di vita e di morte”. Bandire la parola “male” dal vocabolario è un atto di disonestà e una forma di resa morale e intellettuale. Il presidente Bush ha chiuso il suo discorso ad Abu Dhabi nel gennaio del 2007, il più ambizioso che si ricordi di un presidente americano sulla “nobile religione dell’islam”, con i versi di un poeta libanese. Bush ha detto che quella statua “fu disegnata da un uomo che viaggiò molto in questa parte del mondo e che originariamente aveva immaginato che questa donna potesse reggere la sua torcia all’ingresso del Canale di Suez. Alla fine, invece, fu eretta nel porto di New York, dove è stata di ispirazione per generazioni e generazioni di immigrati. Uno di questi immigrati era un poeta di nome Ameen Rihani Gazing. Guardando la sua luce tenuta in alto, si chiese se mai la sua sorella potesse essere eretta nella terra dei suoi progenitori arabi. Scrisse proprio così: ‘Quando porgerai il tuo volto a oriente, oh Libertà?’”. Rihani è stato il più grande intellettuale arabo-americano del Novecento, diceva che “per tutti noi la libertà è un diritto e la ricerca della felicità l’obiettivo supremo”. Macerava il pragmatismo arabo con richiami all’idealismo anglosassone, nella tentazione autoritaria del mondo arabo infondeva l’ottimismo della speranza americana. “Nei vasti silenzi del deserto ogni voce, ogni nota e ogni suono ha un valore”. Cristiano maronita cresciuto in un ambiente agnostico e tollerante, Rihani ha scritto alcuni fra i più straordinari reportage di viaggio del secolo scorso, il più splendente da Karbala, in Iraq, in occasione dell’Ashura. E’ il giorno in cui gli sciiti rievocano l’anniversario della morte dell’imam Hussein, quando un gruppo di giovani porta un alto palo metallico ornato di nastri rossi verdi e bianchi che svolazzano e schioccano al vento, i bambini offrono l’acqua alla folla che assiste, tutti bevono e recitano una preghiera per il martire nipote di Maometto, dietro agli uomini che portano il palo avanza un cavallo bianco senza cavaliere, con una magnifica sella sulla groppa e ornato di piume bianche sulla testa ciondolante. Le donne piangono, l’atmosfera è carica di attesa. Rihani viaggiò a lungo nelle terre dell’islam e in quelle processioni vide il fremito di una deliverance tanto attesa, una liberazione. Come ha spiegato Michael Oren nel suo ultimo saggio “Power, Faith and Fantasy”, “Rihani proclamò il suo amore per le libertà del Nuovo Mondo davanti a pubblici arabi e americani, chiedendo loro di raggiungere quelle libertà per il medio oriente”. Fervente oppositore del califfato ottomano, Rihani portò avanti una generosa campagna per formare una generazione di arabi americani dediti alla costruzione di un medio oriente libero e tollerante. Visitando il centro islamico di Washington nel giugno dello scorso anno, Bush ha detto: “Conserviamo nei nostri cuori l’antica speranza di uno dei grandi poeti musulmani, Rumi: ‘Le lampade sono differenti, la luce è la stessa’”. E’ la grande lezione sul mondo arabo di Ameen Rihani valida ancora oggi. E’ anche la lezione di Lee Harris, laddove afferma che “la civiltà che gli Stati Uniti sono ora chiamati a difendere non è quella dell’America e neanche quella dell’occidente; è la civiltà creata da tutti gli uomini e le donne, di qualsiasi parte del pianeta, che sono riusciti a rendere l’attuale comunità intorno a loro meno dedita alla violenza, più aperta, più tollerante, più fiduciosa. La civiltà, in questo senso, è cinese, americana, africana, europea e musulmana. Coloro che lavorano per questo obiettivo si trovano tutti dalla stessa parte e noi tutti abbiamo un nemico comune. E’ un nemico la cui origine risale alla notte dei tempi, in effetti, al nemico che iniziò il ciclo sanguinario e spietato di violenza e di guerra, l’eterna banda degli uomini spietati”. Non esistono parole altrettanto chiare e coraggiose. Valgono per i pompieri dell’11 settembre, per i giovani soldati israeliani e per quelli iracheni a cui le madri e le vedove di Baghdad hanno donato mazzi di fiori e copie del Corano.

lettere@ilfoglio.it

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