A Gaza l'Egitto è parte del problema, non della soluzione: è questo che Obama deve capire l'analisi di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 24 gennaio 2009 Pagina: 3 Autore: Carlo Panella - la redazione Titolo: «Obama entra nella partita mediorientale con tre schemi - Mitchell e Holbrooke sono l’usato (non proprio) sicuro di Obama»
Da pagina 3 del FOGLIO del 24 gennaio 2009, "Obama entra nella partita mediorientale con tre schemi" di Carlo Panella:
Roma. La decisione del presidente americano, Barack Obama, così come del segretario di stato, Hillary Clinton, di telefonare come prima cosa ad Abu Mazen, presidente palestinese, era scontata, ma è comunque indicativa. “Graziato” dalla dirigenza di Israele che ha con tutta evidenza calcolato i tempi dell’operazione “Piombo fuso” avendo presente il discrimine del 20 gennaio, Obama e la Clinton devono ora smettere di proclamare al mondo che la loro Amministrazione segna una “svolta epocale” e devono materialmente iniziare a praticarla. Hanno un discreto vantaggio, rispetto a Bush. Israele ha infatti risolto, manu militari, la principale impasse che ha immobilizzato sinora Abu Mazen: il governo di Ismail Haniyeh e il “golpe di Hamas” – che il presidente dell’Anp ha sempre denunciato, ma soltanto a parole, senza riuscire a produrre alcuna iniziativa politica – ormai sono fuori gioco. La vittoria politico-militare di Israele a Gaza si basa proprio su questi tre capisaldi ormai acquisiti. Il potenziale militare di Hamas è stato colpito e distrutto in modo determinante; il rapporto di egemonia e di terrore tra Hamas e la popolazione di Gaza è stato incrinato; infine il rifiuto di Hamas di riconoscere il permanere di Abu Mazen alla presidenza dell’Anp è rientrato, nei fatti. Benché il mandato di Abu Mazen sia scaduto il 9 gennaio, la sua decisione – appoggiata dall’Olp – di prolungarlo, così come di anticipare le elezioni politiche dal 2010 al 2009 (decretando così scaduto il governo Haniyeh), è oggi indiscutibile. Non per la prima volta, Israele ha usato la forza non soltanto per la propria difesa, ma anche per rafforzare la claudicante leadership di Abu Mazen. La controprova sta nell’assenza di proteste palestinesi in Cisgiordania durante i giorni di Gaza, imposta dalle forze di sicurezza di Abu Mazen, che tanto forte denunciava il “massacro di palestinesi” ad opera di Tsahal, quanto si apprestava con realistico cinismo a goderne i dividendi politici. Ora, però, Obama dovrà giostrare la sua iniziativa su tre variabili. Le prime due sono l’esito elettorale delle elezioni israeliane e la costituzione di un “governo di unità nazionale” palestinese. Su questo terreno, Obama ha solo da attendere di sapere quale sarà il premier che dirigerà il probabile governo di unità nazionale a Gerusalemme: il ben piazzato leader della destra, Bibi Netanyahu, il ministro degli Esteri e canddata di Kadima, Tipzi Livni, o il vittorioso ministro della Difesa e leader dei laburisti, Ehud Barak. I tre partiti quasi sicuramente formeranno una coalizione di governo, ma soltanto le urne decideranno chi lo dirigerà. Quanto al secondo punto, le possibilità di un accordo di pacificazione interpalestinese paiono a oggi assolutamente scarse. I colloqui al Cairo tra Hamas e Anp continuano a essere rimandati, mentre le più feroci accuse reciproche continuano a tenere il campo. In realtà, anche questa partita dipende in modo determinante da un elemento esterno: l’atteggiamento dell’Egitto. Dalla morte di Yasser Arafat in poi, infatti, tutta la crisi di Gaza, tutti i successi di Hamas sono dipesi in larga misura dall’atteggiamento ambiguo dell’Egitto e in prima persona di Omar Suleiman, il capo dei servizi egiziani, plenipotenziario di Hosni Mubarak per la crisi palestinese. L’attribuzione a Omar Suleiman del ruolo chiave di mediatore salvifico della crisi palestinese è ormai un rito condiviso da tutti i commentatori internazionali. Ma qui è l’equivoco. Proprio qui e soltanto qui Obama potrà – se lo saprà – impostare una svolta. Omar Suleiman e l’Egitto non sono parte della soluzione del problema di Gaza, ma ne sono una delle cause. Basta guardare all’inconsistenza dell’accordo “storico” per il governo palestinese di unità nazionale di Riad del 2007, da lui mediato tra Abu Mazen e Hamas (usato da quest’ultima come trampolino per la cacciata sanguinosa di al Fatah da Gaza nel giro di poche settimane). Basta guardare ai tunnel di Rafah e al ruolo determinante che ha avuto il contrabbando di armi e la fornitura di razzi per questa via, per accorgersi che l’Egitto e Omar Suleiman ne sono pienamente corresponsabili. Il confine tra Egitto e Gaza è lungo poche decine di migliaia di metri, eppure le imponenti forze di sicurezza (un uomo ogni dieci metri!) di Omar Suleiman non sono mai riuscite a controllarlo. Centinaia di tunnel sono stati scavati e hanno funzionato a pieno ritmo sotto il naso di diecimila militari egiziani armati di tutto punto. Non c’è bisogno di essere un esperto militare per prendere atto che Suleiman è stato complice – quantomeno per ommissione – del libero uso del confine egiziano per il rafforzamento di Hamas a Gaza. Questo è successo per un problema di fondo. L’Egitto di Mubarak ha applicato alla Gaza di Hamas la stessa ricetta perdente che applica al suo interno nei confronti dei Fratelli musulmani (di cui Hamas è articolazione): un mix di repressione e di tolleranza. Là dove la repressione è sempre e soltanto “di contenimento” e la tolleranza è dettata – oltre che dalla corruzione – dalla constatazione opportunistica del largo consenso popolare riscosso dai Fratelli musulmani, così come da Hamas. Questa politica di navigazione a vista ha un’origine precisa: Mubarak vuole sfuggire materialmente e politicamente alla fine di Sadat, assassinato dai predecessori di al Qaida, per essersi opposto frontalmente all’estremismo terrorista di Arafat e si è quindi votato a un “immobilismo fluido”. L’esito disastroso degli interventi di Suleiman a Gaza (va ricordato come il suo uomo di fiducia a Gaza, Mohammed Dahlan, sia stato spazzato via con ignominia e sanguinose perdite di Fatah da Hamas nella guerra civile interpalestinese del 2007), hanno infine obbligato Mubarak a “tollerare” nei fatti la decisione di Israele di farsi carico della soluzione del problema. Ma, dopo avere di fatto favorito l’azione militare israeliana a Gaza (pur condannandola con parole di fuoco), ora Mubarak recalcitra di fronte alla necessità di controllare effettivamente il confine con Gaza. Non accetta un corpo di spedizione internazionale a garanzia della chiusura effettiva del confine e dei tunnel, rifiuta la presenza di militari turchi, nega collaborazione all’accordo di pattugliamento navale concordato da Livni e l’ex segretario di stato, Condoleezza Rice. La forza futura di Hamas dipende ancora una volta dalla “permeabilità” politica e materiale del confine egiziano. Se Mubarak continuerà a permettere – con piena coscienza e complicità – che sia un colabrodo, Hamas avrà la forza politica e militare per ricostituire le sue forze e contrastare un Abu Mazen che su tutto può contare, tranne che su un consenso plebiscitario dei palestinesi. Se invece Mubarak sarà costretto a chiudere la giugulare di Rafah, Hamas – in asfissia politica e materiale – dovrà capitolare, dovrà scendere a patti con Abu Mazen e questi potrà stipulare accordi dignitosi con Israele. L’errore di Rice e dell’Europa è stato sinora quello di non cogliere l’ambiguità – motivata dalla debolezza intrinseca del regime – di un Egitto considerato alleato affidabile là dove era ed è un cinico giocatore, teso alla propria sopravvivenza, day by day. E’ l’ennesima testimonianza dell’incapacità strutturale dell’islam “moderato” di contrastare il fondamentalismo. Obama, ha – come ce l’aveva Bush, ma non l’ha saputa usare – un’enorme arma di pressione. Il regime di Mubarak si regge materialmente sui 2-3 miliardi di dollari che Washington continua a versare, che garantiscono il pagamento degli stipendi dello stato e dell’esercito, e in Egitto questo è quasi tutto. Se Obama si distinguerà da Bush e cesserà di considerare Mubarak un alleato affidabile e gli imporrà scelte coraggiose – alla Sadat – la svolta si potrà concretizzare. In caso contrario, se gli permetterà di continuare nella sua politica traccheggiante di sempre, condannerà Israele a essere il solo garante non soltanto della propria sicurezza, ma anche del contrasto effettivo al dilagare del fondamentalismo sulla sponda sud del Mediterraneo.
Sempre da pagina 3 del FOGLIO "Mitchell e Holbrooke sono l’usato (non proprio) sicuro di Obama":
New York. Sono due vecchie conoscenze della politica internazionale gli uomini che Barack Obama ha scelto di affiancare a Hillary Clinton per provare ancora una volta a risolvere la questione mediorientale e il nuovo complicato scacchiere afghano-pachistano. Obama aveva promesso un nuovo approccio alle questioni geopolitiche, ma George Mitchell e Richard Holbrooke sono scelte ben radicate nella cultura politico-diplomatica di Washington pre Bush e segnalano una precisa volontà del presidente di seguire direttamente le due aree di crisi, senza necessariamente delegare il compito alla burocrazia del dipartimento di stato. Mitchell e Holbrooke sono due pezzi grossi, a conferma che Obama ama circondarsi di gente di grande personalità, ma nei salotti di Washington c’è già chi comincia a immaginare le inevitabili e fisiologiche tensioni tra i nuovi inviati, Joe Biden, il consigliere per la sicurezza nazionale Jim Jones e il segretario di stato Hillary Clinton. Mitchell e Holbrooke hanno un background diverso. Il primo è stato tra gli anni Ottanta e Novanta senatore e leader del Partito democratico al Congresso, il secondo è un ex diplomatico di carriera. Entrambi, però, sono diventati noti e devono la nomina di Obama alle loro attività di mediatori di pace per conto di Clinton. Mitchell ha guidato per conto del marito di Hillary il processo di pace in Irlanda del nord, Holbrooke ha condotto le trattative sulla Bosnia durante l’accordo di Dayton e ha rappresentato Washington alle Nazioni Unite. L’accordo irlandese è stato un grande successo della presidenza Clinton e ha fatto dire a Mitchell che la sua esperienza dimostra che non esistono conflitti senza speranza, anche se in quel caso la condizione è stata la sconfitta militare dell’Ira e la rinuncia alla violenza di una delle due parti. In ogni caso, la successiva attività di Mitchell in medio oriente non è stata altrettanto brillante. Alla fine del mandato di Bill Clinton, Mitchell è stato incaricato di guidare una commissione internazionale e di stilare un rapporto sulle cause della seconda Intifada palestinese, dopo il fallimento degli accordi di pace di Camp David del 2000. Mitchell ha consegnato il suo rapporto all’allora neoeletto presidente George W. Bush e le conclusioni sono servite da base per la costruzione della road map diplomatica che negli ultimi anni ha tenuto impegnate, senza successo, la comunità internazionale, le cancellerie europee e americana. La road map s’è fermata, Ariel Sharon è stato costretto a costruire il muro per difendere Israele dagli attentati terroristici e ha proceduto al ritiro unilaterale da Gaza e di gran parte della Cisgiordania. Quell’approccio clintoniano, ripreso da Mitchell e dalla road map, è tornato di moda nell’ultimo periodo di Bush, su impulso di Condi Rice, ma con i risultati non incoraggianti che conosciamo. Obama e Mitchell dovranno studiare un approccio diverso, i cui dettagli si conosceranno nelle prossime settimane. Settantacinque anni, arabo cristiano, figlio di una libanese e di un irlandese, durante i suoi anni al Senato Mitchell era considerato un amico di Israele, ma con il rapporto della sua commissione s’è costruito una fama di equidistanza con cui ha conquistato contemporaneamente favore e prese distanza sia dagli israeliani sia dai palestinesi. Il rapporto Mitchell sosteneva che non è stata la famosa passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee a scatenare la seconda Intifada, al contrario di quanto dicevano i palestinesi. Ma non aveva nemmeno trovato prove che la rivolta sanguinaria fosse stata preparata da tempo, come sostenevano gli israeliani. Mitchell chiedeva ai palestinesi di impegnarsi a prevenire le operazione terroristiche e di evitare che il loro territorio fosse utilizzato per lanciare missili su Israele. La richiesta per gli israeliani era di fermare la costruzione di nuove comunità in Cisgiordania e di non sparare sui manifestanti non armati. Sulla rivista liberal obamiana ma filo israeliana New Republic è stato pubblicato un articolo che spiega come Mitchell sia la “persona perfetta per non risolvere il conflitto arabo israeliano” e non solo perché in Israele è probabile che vinca le elezioni il leader falco del Likud Bibi Netanyahu. Mitchell, si legge su New Republic, è convinto che si debba trovare una soluzione equilibrata, una via di mezzo che possa essere accettata anche se non entusiasticamente da tutte e due le parti. Questo tipo di approccio trova grandi estimatori, ma nel recente passato non ha portato a grandi risultati e comunque deve fare i conti con la posizione ufficiale di Obama, di Hillary e del suo consigliere Dennis Ross secondo cui con Hamas non si tratta, se non rinuncia alla violenza, non riconosce Israele e non si adegua agli accordi del passato. Abe Foxman, il direttore dell’Anti-Defamation League, è arrivato a dire che è “preoccupato” proprio perché Mitchell è “meticolosamente imparziale”, una parola in “codice”, secondo Foxman, per favorire i palestinesi e fare una falsa equazione tra l’intransigenza israeliana sugli insediamenti e il terrore palestinese: “Non sono sicuro che la neutralità sia un grande valore. Gli svizzeri erano neutrali”. La sfida di Holbrooke non sarà più facile di quella di Mitchell. La differenza tra i due è che Holbrooke, 67 anni, non è il tipo di diplomatico che cerca di restare neutrale e i suoi modi sono spesso ruvidi e divisivi. Il successo degli accordi di Dayton con cui nel 1995 si è conclusa la guerra etnico-religiosa bosniaca si deve, per esempio, al fatto che in quell’occasione gli americani guidati da Holbrooke si sono schierati decisamente a favore della Bosnia. Quell’accordo di pace è stato recentemente macchiato dall’accusa di aver siglato, nel 1996, un accordo segreto con Radovan Karadzic, il leader dei serbi bosniaci accusato di genocidio, con cui gli avrebbe garantito di non finire davanti al tribunale sui crimini di guerra dell’Aia in cambio del ritiro a vita privata. Holbrooke ha negato l’accusa, peraltro formulata dallo stesso Karadzic quando è stato catturato l’estate scorsa. Holbrooke, inoltre, è stato inviato da Clinton a Belgrado per consegnare l’ultimatum a Slobodan Milosevic, poco prima del bombardamento Nato. Ora dovrà convincere i governi afghano e pachistano, che si guardano in cagnesco, a combattere insieme contro al Qaida e i talebani. Mitchell e Holbrooke, malgrado gli approcci diversi, incontreranno le stesse difficoltà nell’affrontare questioni così delicate, ma alla fine a determinare l’esito, più che il loro passato, sarà l’indicazione politica che riceveranno dalla Casa Bianca.
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