Il Giorno della Memoria è celebrato per ricordare l’Olocausto e i suoi orrori: il 27 gennaio del 1945 si aprivano le porte di Auschwitz e il mondo conosceva il Male assoluto perpetrato dai nazisti. Un Male che in un’epoca di negazionismo può ancora emergere da qualunque parte e in qualunque momento, “perché nessuno ne è immune”. Dopo più di sessant’anni è la voce dei sopravvissuti a tenere ancor vivo il filo della memoria e a restituirci il senso di quell’orrore, che non può essere dimenticato, attraverso una narrazione intrisa di sofferenza, oltre ai diari, perle preziose e insostituibili, di chi non ce l’ha fatta, coloro che la furia nazista ha stroncato nel fiore degli anni. Quelle testimonianze ci sono pervenute in modo casuale, quasi miracoloso,e raccontano dei loro ultimi mesi di vita prima di essere portati alle camere a gas.
Non si può capire la Shoah senza questi racconti che ci restituiscono il vissuto di persone semplici, studenti nel fiore degli anni, padri di famigliache la vita ha reso protagonisti della più grande tragedia del ventesimo secolo.
In queste pagine vi proponiamo un saggio di quanto gli editori hanno pubblicato per ricordare il Giorno della Memoria.
Non dimenticarmiHelga Deen
RizzoliEuro 17,00
Pubblicato postumo nel 2005 con il titolo di Kamp Vught, il diario di Helga Deen racconta la sua prigionia in un campo di concentramento nazista prima di essere trasferita con la famiglia nel campo di sterminio di Sobibor dove morirà nel luglio del 1943.
Come Anna Frank, Helga è una giovane ebrea olandese che frequental’ultimo anno di liceo di Tilburg, nel sud dei Paesi Bassi. Il 10 aprile 1943 tutti gli ebrei di Tilburg vengono portati al campo di raccolta di Vught e dopo pochi mesi dall’arrivo Helga comincia ad annotare sul quaderno di chimica la sua cronaca dell’inferno rivolgendosi a Kees il ragazzo con cui aveva avuta una storia d’amore. “…. Forse sarai felice di trovare me tra queste righe: i conflitti, i dubbi, la disperazione, la timidezza”.
Le pagine vergate da Helga sono rimaste segrete per più di mezzo secolo ed è stato il figlio di Kees a donare il quaderno all’archivio di Tilburg che ha immediatamente percepito il valore di quella testimonianza, conservata insieme ad una penna stilografica e a una ciocca di capelli in una borsa di cuoio.
Nel giugno 1943, prima di essere trasferita a Sobibor, Helga era riuscita in circostanze misteriose a far pervenire al suo fidanzato, il fotografo Kees van den Berg, il diario e le sue piccole cose che sono state conservate come una reliquia fino alla sua morte, avvenuta nel 2004.
Il diario è scritto con una prosa semplice e immediata nella quale tuttavia emerge la disperazione di una giovane che si trova dinanzi ad un’esperienza drammatica e dalla quale capisce che non farà più ritorno. (“….Mi sento così sola. Ogni giorno vediamo la libertà attraverso il filo spinato. Ma se la mia forza di volontà muore, allora muoio anch’io. Questa è una cosa che non va più dimenticata”).
Emergono anche dettagli di una vita quotidiana all’interno del campo che rimandano la sofferenza e il disagio di una vita priva di sbocchi e frammenti di ricordi di una vita felice ormai lontana. (“Oggi siamo stati spidocchiati e non possiamo uscire dalla baracca. …..Ho pensato a quando eravamo felici, distesi l’uno vicino all’altra, e guardavamo il cielo…”).
L’ultimo ricordo, datato 2 luglio 1943, quando Helga sta per essere portata a Westerbork, ultima tappa prima della destinazione finale, è dedicato alla persona amata e a due amici: “ Siamo dei vagabondi, degli emigranti e dobbiamo quindi sottometterci al loro modo di vivere. Quello che abbiamo passato in questi mesi è indescrivibile e per chi non l’ha passato di persona, inconcepibile…….Il diario riuscirai ad averlo, non ho più paura, non ci sono più sorprese spaventose, l’impossibile è diventato possibile”.
Il 13 luglio 1943 da Westerbork sarà trasferita con i genitori e il fratello Klaus Gottfried al campo di sterminio di Sobibor in Polonia dove tutta la famiglia sarà sterminata il 16 luglio 1943.
Marcello Pezzetti, storico del CDEC e direttore del Museo della Shoah di Roma oltre ad essere il curatore del volume di Shlomo Venezia, Sonderkommando, è l’autore di questo importante saggio che Einaudi pubblica in occasione del Giorno della Memoria.
Ancora una volta si da voce ai sopravvissuti che testimoniano in modo semplice e accorato la loro storia restituendoci un racconto corale dell’ebraismo italiano.
Più di cento sopravvissuti narrano della loro infanzia, della scuola delle leggi antiebraiche, dei soprusi e delle umiliazioni subite ma anche dell’occupazione tedesca, degli arresti, delle deportazioni e poi degli anni nel dopoguerra.
Questo volume, frutto di una accurata ricerca, è una sorta di memoria dell’ebraismo italiano se si pensa che dei 45.000 ebrei degli anni Trenta oltre 9.000 vennero deportati, vale a dire un quinto degli ebrei residenti in Italia.
Dopo la guerra gli ebrei sopravvissuti che scelsero di andarsene dall’Italia furono pochi in quanto, a differenza di quanto accaduto in altri paesi, gli ebrei italiani si sono sempre sentiti ben radicati nel tessuto sociale italiano.
E’ una carrellata di testimonianze variegata e multiforme quella che ci presenta Pezzetti, un intreccio di ricordi, sogni, speranze e traumi che testimoniano, in un quadro sociale e geografico definito, uno dei periodo più bui della storia italiana.
“No, non mi sono mai chiesto perché salvarono proprio me”. Nella casa di North Altona, Melbourne, Alex Kurzem, 73 anni, sussurra al telefono: “Non sarei sopravvissuto al peso di una domanda del genere”. La storia raccontata da Mark Kurzem in “Il bambino senza nome” arriva dalla lontana Australia, l’ex colonia penale inglese che nel dopoguerra diede asilo a molti criminali nazisti. Ed è la straordinaria epopea di un bambino che voleva vivere: Alex, appunto. Che prima di rivelare la sua storia al figlio Mark, professore di antropologia a Oxford, e al resto della famiglia, l’ha custodita per oltre mezzo secolo. Consapevole, forse, che una volta venuta alla luce avrebbe diviso tutti, vittime e carnefici. “E’ stato doloroso” dice “ma ne è valsa la pena. Finalmente so chi sono, da dove vengo, ho visto il volto di mia madre in foto”.
E’ il 20 ottobre 1941 quando un battaglione paramilitare massacra i 1600 ebrei del villaggio russo Koidanov, oggi Dzerinskij, in Bielorussia. All’eccidio sfugge un bimbo di cinque o sei anni (ancora oggi Alex Kurzem ignora la data esatta della sua nascita), che da una collina assiste all’assassinio di sua madre e dei fratelli. Si rintana nella foresta, dove per un tempo indefinito settimane? Mesi?) si ciba di prugne, dorme legato ai rami degli alberi e si scalda col cappotto sottratto a un soldato morto. Fino a quando lo trova uno spietato contadino, che lo consegna ai soldati del 18° battaglione lettone. Sta per essere fucilato insieme ad altri ebrei quando in lui scatta qualcosa e urla in direzione del comandante: “Pane, prima di morire datemi pane”. Il soldato è sconcertato, attratto dai suoi capelli biondi, gli occhi celesti. Lo porta in caserma, lo fa mangiare, poi lo spoglia. “Non va, non va” dice. Ma ha già deciso.”Non farti mai vedere nudo, nessuno deve sapere che sei circonciso”.
Il bambino diventa così la mascotte del battaglione: per lui vengono confezionate apposite divise, i soldati lo usano per adescare ragazze da violentare, i superiori si fanno accompagnare a cerimonie e ospedali, ha il compito di tenere alto il morale della truppa. Prima di essere affidato alla famiglia dell’industriale collaborazionista Dzenis, che vive a Riga ( e lo porterà con sé in Australia), assiste ad atrocità d’ogni sorta. Ma questa è solo una pagina della tragica vicenda di Alex (Kurzem è il suo nome “australiano”: i nazisti lo avevano battezzato Uldis Kurzemnieks). “Avevo dimenticato il mio vero nome, però sapevo di essere ebreo” racconta “e che quelli che mi allevavano non erano la mia gente. Ma volevo vivere. Cos’altro potevo fare?”.
Solo nel 1997 decide di parlare con il figlio professore. Della sua infanzia ricorda due parole: “Panok” e “Koidanov”. La ricerca comincia da lì. Padre e figlio scopriranno foto agghiaccianti, ma anche il suo vero nome, Ilya Galperin, e che suo padre Salomon era sopravvissuto al massacro e si era rifatto una famiglia. Troveranno perfino un fratellastro, Erik. “Sono appena tornato da lì” racconta Kurzem, “vado a trovarlo tutti gli anni. Ci capiamo poco, ma stiamo imparando a volerci bene”. La sua storia ha scatenato aspre polemiche, i lettoni lo hanno accusato di essere un traditore, gli ebrei un collaborazionista. E Steven Spielberg vuol trasformare la sua storia in film. “Sono quello di sempre” afferma lui. “Se mi sento ebreo? Sto approfondendo la cultura da cui provengo. E, se mi invitassero in Israele, sarei felice di andare”.
Sfiancata dal tifo e dai maltrattamenti, Hélène Berr morì a Bergen-Belsen nell’aprile 1945, qualche giorno prima che gli inglesi arrivassero nel lager. Aveva 24 anni. Era un’ebrea parigina. Benestante. Impegnatissima in attività assistenziali. Studiosa di letteratura inglese e violinista dilettante. Se la parola evento non fosse stata mercificata sino all’osso, la pubblicazione del suo Diario se la meriterebbe tutta. Il Journal si apre il 7 aprile ’42: Hélène bussa palpitante alla portineria di Paul Valéry, poeta di cui è grande ammiratrice. Ha lasciato un libro al suo indirizzo con la speranza di riaverlo autografato. Sul frontespizio troverà scritto: “Copia per la signorina Hélène Berr”. E sotto: “Al risveglio, così dolce la luce e così bello quest’azzurro vivo. Paul Valéry”. Hélène annota: “Mi sono sentita inondare di gioia, una gioia che confermava la mia fiducia, che si armonizzava con l’allegro sole e il cielo azzurro terso sopra le nuvole”.
Complice il cinema, di solito associamo i racconti sulle persecuzioni a un clima livido. Per buona parte del Diario, invece, l’incalzare del terrore nella Parigi occupata ha come sfondo un’eclatante primavera; densa di giardini, studenti, luminosi caffè all’aperto. Tanto che a un certo punto Hélène sbotta: “Faceva un tempo bellissimo. Non capivo più tutta quella bellezza di Parigi in una mattina radiosa di giugno. Fa sempre bel tempo nelle catastrofi”.
Come ricorda nella prefazione lo scrittore Patrick Modiano, la signorina Berr ha un’inestirpabile “propensione alla felicità”. E’ lettrice indiavolata e finissima. Però non s’aggroviglia in astrazioni. Per lei la cultura è un che di fisico. Sa che non la salverà ma non può farne a meno. Anche quando il cerchio delle retate naziste si stringe intorno alla sua famiglia, Hélène Berr è incapace di distogliere lo sguardo dalla bellezza, sia essa racchiusa in un pomeriggio, un quartetto di Beethoven, un verso di Keats o nel gesto gentile del ragazzo di cui è innamorata: “E’ meraviglioso che qualcuno si prenda cura di te. Per esempio quando mi ha aiutato a infilarmi la giacca, non ci sono abituata. Mi dà l’impressione di raffinatezza, quasi di lusso”. Scandito da tetri presagi, il Diario si chiude con le parole del Cuore di tenebra di Conrad (e di Brando/Kurtz in Alocalypse Now):”L’orrore, l’orrore, l’orrore”. Ma, che parli di nazismo, ebraismo, cristianesimo, responsabilità, rivolta, la sua scrittura resta lineare e profonda come un haiku. In un crescendo di involontaria suspense. Fino al giorno dell’arresto in casa. La signorina Berr scriverà alla sorella: “Stamane alle 7.30, driin! Credevo fosse un espresso! (…) Dicono che ho ancora il mio sense of humour. Va tutto bene. A presto. Diecimila baci”.
Il diario era stato affidato a un aiutante di famiglia affinché lo consegnasse al fidanzato di Hélène, riparato in Nordafrica. Di antica discendenza francese, i genitori Berr vennero uccisi ad Auschwitz nel ’44. Lei avrebbe potuto salvarsi dai rastrellamenti, fuggire. Ma decise di rimanere per aiutare le famiglie smembrate dalle deportazioni. Scrive Modiano: “Il suo coraggio, la sua rettitudine, la limpidità del suo cuore, mi ricordano il verso di Rimbaud: “Per delicatezza/Ho perduto la mia vita”.