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La Repubblica Rassegna Stampa
23.01.2009 Israele di fronte alla novità Obama
l'analisi di Bernardo Valli

Testata: La Repubblica
Data: 23 gennaio 2009
Pagina: 1
Autore: Bernardo Valli
Titolo: «La diffidenza di Israele»
Da La REPUBBLICA del 23 gennaio 2009, "La diffidenza di Israele", analisi insolitamente equilibrata di Bernardo Valli:

C´è poco da cantare vittoria. Nessuno ne ha obiettivamente il diritto. Hamas si muove tra le rovine di Gaza e le tombe di più di mille morti. E non si può certo dire che Israele abbia raggiunto i suoi obiettivi.
Doveva mettere fine al lancio dei missili Kassam sui territori del Sud, ma Hamas ne avrebbe ancora a disposizione un migliaio, ed entro due mesi il contrabbando lungo il confine egiziano potrebbe ricominciare con il ritmo di un tempo. Anzi, pare che non sia mai stato interrotto del tutto. Ancor più importante è il fatto che Hamas continui ad avere il controllo della Striscia di Gaza, e che la sua popolarità sia aumentata nella Cisgiordania occupata dall´esercito israeliano e amministrata dall´Autorità palestinese, installata a Ramallah e presieduta da Mahmud Abbas (alias Abu Mazen). Il prestigio di quest´ultimo, tra i palestinesi, sarebbe stato ulteriormente intaccato. Ormai da decenni gli arabi, frustrati dalle umiliazioni militari, dedicano la loro ammirazione ai rais che osano sfidare o affrontare nemici più forti di loro e che riescono a sopravvivere alle sconfitte.
Esempi ormai affidati alla storia sono quelli di Nasser nel ´67, di Arafat nell´82 e più tardi nella seconda Intifada, e quello dell´iracheno Saddam nel ´91. Il laico e ragionevole Abbas non usufruisce di questa tradizione, anche perché non può controbilanciarla con successi concreti sul piano politico e diplomatico. I suoi interlocutori israeliani non l´hanno aiutato.
Questa sommaria introduzione, sintesi della dura realtà che salta agli occhi di chi si affaccia con idee più lineari che semplici su una situazione intricata (e con radici profonde), conduce inevitabilmente al dilemma dominante in questi giorni di tregua. Una tregua più imposta dal remoto insediamento del nuovo presidente alla Casa Bianca, che dalla spontanea volontà degli avversari sul campo. I quali hanno deciso per conto proprio, senza la minima comune intesa, quello che resta un fragile cessate il fuoco. Il dilemma è questo. Continuare nell´isolamento di Hamas e puntare come finora su un consolidamento della Cisgiordania, in quanto alternativa all´Islam radicale di Gaza? Oppure considerare la proposta di formare un governo palestinese di unità nazionale, quindi con Hamas, avanzata da Mahmud Abbas, sostenuta dall´Egitto, e senz´altro appoggiata anche dalla Giordania? La difficoltà di realizzare quest´ultima opzione è evidente e insormontabile se si guardano le posizioni israeliane e di Hamas. Quest´ultimo rifiuta un´intesa con Mahmud Abbas, presidente scaduto (il 9 gennaio) dell´Autorità palestinese, mantenuto in carica dall´emergenza, e con il suo primo ministro, Salam Fayyad, considerato illegittimo perché non eletto nel 2006, quando Hamas prevalse, ma governò per alcuni mesi fino alla rottura sanguinosa dell´anno successivo. Hamas rifiuta un voto anticipato, e le nuove regole elettorali suggerite da Abbas, vuole che la legislatura di quattro anni iniziata nel 2006 e poi interrotta arrivi alla fine. Il rischio per Abbas è che Hamas vinca ancora, se non viene adottato un sistema favorevole al laico Al Fatah, al più basso della popolarità.
Per il governo israeliano di centro sinistra, che tra neppure tre settimane (il 10 febbraio) deve affrontare un voto nazionale, una legittimazione di Hamas equivarrebbe a un suicidio politico. Benjamin Netanyahu, capo del maggiore partito di destra (il Likud), è dato vincente in tutti i sondaggi, e a favorirlo è anche la sua rigorosa posizione nei confronti di Hamas, giudicato un eterno nemico da distruggere. Per Netanyahu l´operazione militare di Gaza doveva proseguire fino all´annientamento del potere di Hamas, il cui dogma è la creazione di uno Stato islamico, sia pure in tempi lunghi. E quindi l´obiettivo ultimo implica la fine dello Stato ebraico. In un paese che ha appoggiato al novanta per cento l´operazione di Gaza, i principali avversari di Netanyahu non possono discostarsi troppo dalla sua intransigenza. Sono del resto loro che hanno promosso l´azione militare: Tzipi Livni, ministro degli esteri, è candidata di Kadima, e Ehud Barak, ministro della difesa è il candidato del partito laburista. Sul dilemma (accettare Hamas in un governo di unità nazionale o continuare ad isolarlo) pesa tuttavia la bruciante attualità: vale a dire la ricostruzione di Gaza. Accordare crediti, o aiuti di vario genere, al fine di migliorare la vita del milione e mezzo di abitanti, equivale a legittimare Hamas che governa il territorio. Sarebbe infatti il movimento islamico (ispirato e alleato dai Fratelli musulmani, ma con in più una forte componente nazionalista) a gestire la ricostruzione e a vantarne i meriti, come è accaduto agli Hezbollah, dopo l´ultima guerra in Libano. Il problema si pone quindi con un´urgenza che scavalca i rifiuti appena elencati. L´urgenza investe il nuovo presidente degli Stati Uniti. La sua elezione non è stata accolta con particolare entusiasmo in Israele. Molti israeliani di origine americana hanno festeggiato, come vuole la tradizione, la sua vittoria in novembre e poi il suo insediamento alla Casa Bianca. E i dirigenti politici hanno accolto con soddisfazione la nomina a segretario generale della Presidenza di Ramh Emanuel, che ha il doppio passaporto (israeliano e statunitense) e ha fatto il servizio militare in Israele. Così come è stato gradito il ritorno di esperti americani del Medio Oriente conosciuti all´epoca di Clinton e giudicati amici. Tale è considerata anche Hillary Clinton, scelta da Barack Obama come Segretario di Stato. Ma un presidente americano che ha come secondo nome Hussein solleva qualche apprensione, o fastidio, qualche preoccupazione più o meno espressa, se non proprio qualche sospetto. Egli sarà comunque un alleato sincero, si pensa. I rapporti tra lo Stato ebraico e gli Stati Uniti resteranno solidi. Non può essere altrimenti. Né per Washington, né per Gerusalemme. Obama non sarà tuttavia un alleato incondizionato come George W. Bush. Non è certo passato inosservato il fatto che egli abbia riservato la sua prima telefonata ad Abu Mazen, un palestinese ragionevole, laico, pronto al dialogo, ma non per questo destinato, secondo la prassi, ad avere la precedenza sul presidente o il primo ministro israeliano, stretti alleati degli Stati Uniti. I telegiornali della sera hanno sottolineato l´insolita preferenza, senza commentarla. Per Israele il rapporto con la superpotenza è vitale. Esige tatto. Prudenza.
La questione palestinese, resa di nuovo rovente dall´operazione di Gaza, si impone a Barack Obama. Lui non può aspettare sette anni, come Bush, prima di affrontarla. Essa è la chiave per imboccare con il mondo musulmano, come ha detto nel suo discorso di insediamento, «una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto». Il conflitto israelo – palestinese non è di per sé la principale crisi mediorientale, ma è essenziale. Altro passaggio significativo di quel discorso di Obama, sempre riferito al mondo musulmano, è quello in cui ha ricordato ai leader fomentatori di conflitti e pronti a scaricare sull´Occidente i mali delle loro società che sono dalla parte sbagliata della storia. Ma ha aggiunto: «Noi vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno».
Poche ore dopo ha invitato, in sostanza, l´Iran a creare le condizioni perché questo avvenga. La disponibilità verso il paese che Bush relegava nell´ "asse del male" ha un inevitabile impatto anche in Israele. Essa frena infatti la tentazione israeliana di risolvere militarmente la minaccia del programma nucleare iraniano. Barack Obama è come un vento nuovo, insolito, che investe il Medio Oriente? Per ora è un soffio. Ma che già suscita apprensione o speranza.

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