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La Repubblica Rassegna Stampa
23.01.2009 Guido Rampoldi megafono di Hamas
arriva a dare la colpa a Israele se i palestinesi credono ai "Protocolli dei Savi anziani di Sion"

Testata: La Repubblica
Data: 23 gennaio 2009
Pagina: 37
Autore: Guido Rampoldi
Titolo: «Hamas A Gaza, tra i guerriglieri che cantano vittoria»
Persino la convinzione della veridicità del falso antisemita "I Protocolli dei Savi anziani di Sion" , espressa candidamente dai suoi interlocutori palestinesi, per Guido Rampoldi sarebbe in primo luogo colpa di Israele. Corresponsabile sarebbe " il fallimento del gruppo dirigente palestinese". Fallimento ? Piuttosto succeso si anni di propaganda, dei quali Rampoldi non vuole evidentemente informare i suoi lettori.

Il suo reportage "Hamas A Gaza, tra i guerriglieri che cantano vittoria" pubblicato a pagina 37 da La REPUBBLICA del 23 gennaio 2009, è una raccolta di disinformazione sulla "prigione" di Gaza e riporta senza alcun filtro critico i messaggi propagandistici e di odio dei "guerriglieri di Hamas".

Ecco il testo:


Parlare con Hamas? Riproposto a Gaza, il dubbio che divide la diplomazia occidentale può essere riformulato così: come uscire altrimenti dal vecchio statu quo, una formula che, fosse tra un mese o tra un anno, certamente condurrà ad una nuova guerra? Quella che si è conclusa (temporaneamente) non ha neppure scalfito il controllo di Gaza da parte di Hamas. Che anzi oggi pare vicina ad ottenere, sia pure per mezzo di qualche formula ambigua, quanto più anela, la legittimazione internazionale finora negata dall´Occidente. L´organizzazione fondamentalista sprecherà anche questa occasione? Ad esplorare la nebulosa Hamas qui nella Striscia, si ha l´impressione che il gruppo dirigente sia più duttile di quel che appare all´estero. Ma è condizionato dalla propria retorica, e se non da una residua dipendenza da Teheran, certamente della fazione armata, una gioventù che Israele ha cresciuto a bastonate dentro la grande gabbia di Gaza. Col risultato che quella - isolata, esasperata istupidita dalla propaganda - ha elaborato l´immagine del nemico attraverso una vecchia fabbricazione della polizia zarista, l´intramontabile "I Procolli dei Savi di Sion".
I leader e la gioventù guerriera dovevano incontrarsi tre giorni fa davanti alle rovine del Parlamento, dove la festa della vittoria avevano riunito una selva di bandiere verdi (Hamas), nere (Jihad islamica) e bianche (altri gruppi della cosiddetta "resistenza"). Ma i boati in arrivo dal mare, lì dove le navi israeliane cannoneggiavano la costa per mantenere i palestinesi sotto pressione, hanno sconsigliato al premier e ai ministri di farsi vedere. In loro vece parla, anzi urla nel microfono, Ismail Radwan, il portavoce di Hamas. Spiega l´offensiva israeliana come uno scontro «tra il Bene e il Male», quest´ultimo aiutato da imprecisati complici. Poi la sua voce si fa roca, i toni ruggenti.
«Avevano detto che ci avrebbero deposto, liquidato Hamas: ci sono riusciti?». No!, risponde la folla. «Sono riusciti a fermare i missili?». No! «Volevano distruggerci e noi gli ridiamo in faccia». «Diciamo agli israeliani: voi non sarete al sicuro nelle vostre case finché noi non saremo al sicuro nelle nostre». E promette: «Hamas proteggerà Gaza». Ma sceso del palco, Radwan parla al giornalista italiano con toni diversi. D´un tratto i complici del Male diventano possibili interlocutori. Innanzitutto Abu Mazen, il presidente dell´Autorità palestinese. Hamas lo detesta ma Radwan lo invita a negoziare: «Dovrebbe avviare un dialogo con noi e troncare il dialogo con Israele».
Il portavoce del ministero degli Interni, il trentunenne Ehab Elgusein, spiega esattamente cosa si prefigga Hamas dai negoziati: uscire dalla condizione di paria internazionale. «Prima della guerra c´erano canali separati con singoli Stati europei, che però non osavano ammetterlo per timore degli Stati Uniti. Durante l´offensiva israeliana è stato tecnicamente impossibile utilizzarli. Ma adesso siamo stufi di questo dialogo sotto il tavolo. Lo vogliamo alla luce del sole». Altro auspicio: Abu Mazen torni a Gaza. «Può venire. L´avevamo invitato quando era presidente, ora lo consideriamo decaduto dal suo incarico, ma l´invito rimane».
«Non siamo Taliban, siamo Erdogan», ripeteva l´anno scorso un influente consigliere del primo ministro Hanye, Ahmed Youssef, agli "esploratori" europei che tentavano di decifrare Hamas. Di sicuro Hamas ha represso con il carcere e la tortura le manovre di Al Qaeda per impiantarsi a Gaza. Ma reprime allo stesso modo ogni di forma di opposizione organizzata. Inoltre «gli aiuti di Teheran non sono gratuiti», come avrebbe confidato Youssef durante una riunione dell´associazione ingegneri di Rafah. In altre parole, l´Iran esercita la sua influenza sulle decisioni del suo protetto.
Però quest´ultimo ha retto da solo l´urto israeliano, avendo ricevuto da Teheran incitamenti ma nessun concreto aiuto; in futuro potrebbe trovare conveniente smarcarsi dall´Iran. «Per quanto non sia corrotta, la nomenklatura di Hamas somiglia a quella di Fatah», mi dice un liberale palestinese. «Al fondo, bada soprattutto al potere. Ed è pronta a compromessi, se intuisce un tornaconto».
Però la base è diversa. Disciplinata ma diversa. E non vuole sentir parlare di dialogo con Fatah. «Abu Mazen pensava di tornare a Gaza a bordo di un tank israeliano, ma finché noi saremo qui, lui nella Striscia non metterà piede», mi dice l´ufficiale di polizia che controlla l´accesso alla manifestazione per la vittoria, nella sua uniforme blu appena uscita dal magazzino. La polizia di Hamas è particolarmente ostile ai fratelli-coltelli palestinesi, con i quali ingaggia da due anni uno scontro ferocissimo, riacutizzato dalla guerra. Però a Gaza molti giovani di Fatah sono confluiti nel cosidetto "Coordinamento della resistenza", formato da Hamas e dai gruppi minori, e questo pare aver stemperato l´inimicizia. O almeno così vogliono far intendere i sei giovani guerrieri delle Brigate Qassam, la milizia di Hamas, che accettano di incontrarmi. Chi miliziano e chi comandante. Uno è ferito ad un fianco, un altro ha una gamba rotta; un terzo, il più loquace, è il marito di una ragazza che ha perso la vista in seguito al bombardamento israeliano. Hanno vestiti poveri, due una casacca militare da milizia contadina, e vengono tutti da Jabaliya, il sobborgo proletario di Gaza. Guardinghi, aggressivi. Ma sinceramente ansiosi di trovare qualcuno che all´estero li ascolti. Dunque ascoltiamoli - senza presumere che dicano la verità.
Raccontano una guerra opposta alla guerra trionfale narrata dai portavoce dell´esercito israeliano. Ammettono che il loro armamento si è rivelato del tutto inadeguato a fronteggiare tank e navi; però affermano di aver sopperito con «nuove tecniche» e un «Coordinamento della resistenza», ovvero delle fazioni armate, altrimenti destinate a disperdersi. Temevano soprattutto le infiltrazioni delle Special Forces israeliane, ma sarebbero riusciti a sventarle con vari sistemi: parole d´ordine, per smascherare i nemici che entravano a Gaza nelle uniformi delle Brigate Qassam; sentinelle sui tetti, per sparare ai commandos paracadutati nella Striscia. I loro successi militari? Tre, dicono, tutti intorno a Gaza. Motivo? Gli israeliani non sarebbero entrati davvero nelle città, lì dove le Brigate Qassam li attendevano (in realtà sono state soprattutto le Brigate Qassam ad evitare lo scontro diretto). In uno di questi episodi, sette soldati sarebbero morti in una casa minata. Altri ad Hai el-Zeitun, i più uccisi dal razzo anticarro sparato da un palestinese in missione suicida. Per rappresaglia, gli israeliani avrebbero massacrato, in quella zona, 29 membri della famiglia Samuni (alcune testimonianze che ho raccolto tra i sopravvissuti portano a non escludere affatto questa ipotesi: in ogni caso, i motivi della strage, di cui questo giornale ha già parlato, restano tutti da chiarire).
Considerano l´offensiva una mossa elettorale del governo Olmert («Ogni volta che ci sono elezioni in Israele noi dobbiamo pagare») ma anche un mezzo tentativo di scaraventarli in Egitto («Altrimenti Mubarak non avrebbe schierato tremila riservisti sul confine»). Ritengono di obbedire a codici molto più etici dei codici israeliani: «Noi non uccidiamo per il piacere di uccidere o per terrorizzare, ma perché loro uccidono i nostri figli, cercano di espellerci dalla nostra terra, ci colpiscono con armi chimiche come il fosforo bianco che sciolgono letteralmente i corpi, tanto che di tre cadaveri abbiamo trovato soltanto lo scheletro». Però i loro codici morali non vietano di minacciare le città israeliane con i razzi. Hamas ha promesso missili a più lunga gittata: «E Hamas fa sempre quel che promette». La distruzione dei tunnel sulla frontiera con l´Egitto non li preoccupa: «Siamo ingegnosi, troveremo altri sistemi».
Garantiscono che il caporale Shalit, rapito da Hamas due anni fa, è in ottime condizioni. «E´ un prigioniero di guerra e noi rispettiamo le leggi di guerra. Lo confermerà lui stesso, se e quando sarà liberato e racconterà come è stato trattato». Perché allora non permettete alla Croce Rossa di fargli visita? «Per ragioni di sicurezza». E perché non accettate uno scambio di prigionieri? «Dipende dai leader». Quando insisto si arrabbiano: «Perché tanta apprensione per Shalit e nessuna per gli 11mila prigionieri palestinesi, inclusi donne e bambini, detenuti nelle carceri israeliane?». Si accalorano una seconda volta quando gli domando come immaginano la loro terra tra vent´anni: «Ma se neppure sappiamo cosa ne sarà di noi tra un´ora!», quando torneranno alle loro postazioni, sulle quali ogni tanto la Marina israeliana spara. Però uno di loro dice: «Noi cambieremo almeno il futuro dei nostri figli. Dovessimo attendere tre anni oppure trenta, avremo uno Stato palestinese. E io potrò andare all´estero senza dover mendicare permessi (dalle autorità israeliane)».
Privi di uno Stato, e dunque dei diritti minimi che ne derivano ai cittadini, sembrano percepire Gaza come una grande gabbia delimitata da frontiere quasi invalicabili. Non si sorprendono se gli spettatori che vedono aggirarsi intorno alle sbarre, gli israeliani, al 94% approvano l´offensiva di Gaza. Dice il ragazzo la cui moglie ha perso la vista a causa della scheggia di una bomba: «Come spiegano i Protocolli dei Savi di Sion, la mentalità degli ebrei è di dominare il mondo e rendere schiavo ogni uomo»: I Protocolli dei Savi? Nessuno dei sei ha una reazione. «Li ho letti anch´io», conviene l´interprete, una palestinese che ha studiato in Gran Bretagna. E in questa unanimità forse non si mostrano soltanto gli effetti dell´isolamento e dell´esasperazione per i metodi israeliani, ma anche il fallimento del gruppo dirigente palestinese.

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