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Informazione Corretta Rassegna Stampa
22.01.2009 Come si discute del conflitto israelo-palestinese negli Stati Uniti
una realtà ben diversa da quella italiana delle bandiere bruciate: una testimonianza

Testata: Informazione Corretta
Data: 22 gennaio 2009
Pagina: 1
Autore: Benedetta G.
Titolo: «Israel’s state of mind»

Di seguito, pubblichiamo una testimonianza sui dibattiti sul conflitto mediorentale all'Università di New York. Una realtà che contrasta enormente con quella intollerante dell'Italia, dove le discussioni sono sostituite dai roghi di bandiere e dagli slogan che incitano all'odio: 

Tra la 16° strada e Union Square, nel cuore di downtown Manhattan, c’è un dormitorio dell’università NYU. Al suo interno, sul settimo e l’ottavo piano, c’è un gruppo di studenti un po’ particolare. Fanno parte di quella che viene ironicamente chiamata la “Two Floor Solution”, ispirandosi alla “two state solution”, quella teoria che vuole, o almeno, spera che il conflitto in Medio Oriente si risolva con due stati per due popoli. Al settimo e all’ottavo piano, vivono mischiati ragazzi israeliani e palestinesi, ebrei e musulmani che affrontano ogni giorno l’esperienza del college, tra nottate spese a studiare per un esame, amori e piccole scaramucce quotidiane. Ogni tanto si ritrovano e discutono la questione medio-orientale, organizzano eventi, cene a tema, conferenze con importanti politici, feste con danzatrici del ventre…

Certo è facile parlare di convivenza nella sicurezza di essere vicino all’Hudson e non al Giordano; certo è facile essere buonisti e idealisti a vent’anni; certo è facile fingere che la soluzione sia solo nel dare a tutti una parte uguale, quando la realtà è ben più complessa, però questo non vuol dire che la convivenza in quel piccolo microcosmo sia una passeggiata, anzi la sfida è proprio non litigare in momenti come questi, in cui le famiglie chiamano da casa, in cui le notizie vengono filtrate dai TG, in cui le proprie certezze vengono messe in crisi dall’opinione pubblica internazionale, dal bisogno di trovare la propria identità.

Eppure, paradossalmente, una serata passata in compagnia di veri israeliani e veri palestinesi, mentre la situazione a Gaza è infiammata, è stata meno accesa e combattuta di una serata tra amici italiani, che con Israele e la Palestina hanno nulla (o poco) a che fare.

Non c’erano bandiere bruciate, urla, svastiche fuori contesto, kefiah indossate per moda; si stava benissimo all’interno di un salotto invece che in piazza a manifestare con adulti mai cresciuti e tredicenni confusi e nessuno si vantava di un pacifismo, che pacifismo ormai non è più; anzi, con quella rassegnazione di chi sa veramente cos’è la guerra e non l’ha vista solo nei film, si discuteva di cosa vuole dire diventare grandi, diventare uomini e donne, nell’esercito israeliano, di cosa significhi avere fratelli che hanno scelto tra Hamas e la libertà.

Certo le opinioni erano diverse, tra israeliani e palestinesi e tra i diversi gruppi all’interno di questi due popoli e anche tra americani, ma quello che li accomunava. era un senso di “edginess”, di vivere una vita in bilico, sempre sull’orlo del pericolo. Il regista israeliano Nir Bergman, parlando del suo film “Broken Wings” che tratta di una famiglia che perde il padre per una puntura di ape (simbolica per il terrorismo, perché è un evento totalmente casuale) ha detto, parlando del suo film che, nonostante tratti di una storia come tante, non sarebbe mai potuto succedere, se non in Israele. “Ti preoccupi costantemente per le persone in questa famiglia. Vedi una ragazza che va in bici su una collina, e ti chiedi: cosa succederà? E’ un senso di pericolo costante. E’ un pericolo che si sente dentro i personaggi ma nell’intera area, l’intero paese. E’ sempre lì”.

Questo senso del pericolo e questa concezione di “diversità”, di complessità prima di tutto, prima di ogni slogan, era esattamente quello stato d’animo che stavo cercando per rispondere a chi in Italia si era messo a urlare per le strade “W Hamas” o ad accusare gli ebrei di genocidio, di nazismo, o che, con la scusa di proteggere i deboli, chiama “senso critico”, una forma ipocrita di fanatismo.

Insomma, sull’isola di Manhattan ho trovato uno stato immaginario, un Israel’s state of mind (ispirandosi alla famosa canzone di Billy Joel), un filtro attraverso cui guardare il mondo e giudicarlo senza troppi preconcetti. Come sarebbe il mondo se tutti avessero un Israel’s state of mind? Ci sarebbe un pizzico di realismo in più e di autocritica, un sentimento che, ironicamente, è proprio alla base dell’ebraismo in sé, del nomadismo di alcuni popoli arabi, dell’America: il sentirsi stranieri nella propria terra, avere sempre un punto di vista “diverso” e quindi critico.

E in Italia è paradossale che proprio la sinistra questo sentimento l’abbia completamente perso ed è paradossale che sia impossibile discutere in modo civile e oggettivo della questione in Israele. Certo noi Italiani siamo più vicini al Medio-Oriente e da sempre più coinvolti nella politica, in modo quasi passionale, rispetto agli Americani, certo Israele è uno stato nato da poco e quindi monitorato più da vicino, certo Israele con la sua sicurezza blindata, la sua forza militare, la sua incapacità mediatica, il suo carattere diffidente, non aiuta la sua immagine…ma basta poco per immergersi in quell’Israel’s state of mind, per fare un respiro e guardare le cose per come sono.

Proprio il tipico filo-palestinese di Sinistra, pacifista, proprio chi preferisce un libro di Dario Fo all’XBOX, Godard a un film hollywoodiano, perché parla come se gli ebrei fossero arrivati in Israele come degli alieni tele-trasportati da un terribile “cattivo” e abbiano distrutto ogni cosa che c’era prima, con un clic, come se giocassero ai Sims? Perché non apre un libro di Storia per capire che prima di accusare quelle poche famiglie, quelle ondate di sionisti (tra l’altro originariamente di sinistra, essendo socialisti)che negli anni 50 costruivano delle casette nel deserto, c’erano interessi mondiali, c’erano gli Inglesi che hanno diviso il territorio a tavolino e c’erano i Paesi Arabi che tenevano in scacco il popolo palestinese più di ogni Israeliano.

Perché quando si parla di altri stati in guerra se ne parla dal punto di vista politico, economico, e quando si parla di Israele si salta subito alla religione, a confuse teorie? Perché chi appoggia la Palestina sembra sempre che debba ripulirsi la coscienza, che si batta per aiutare i popoli indifesi, ma poi non riesca a  salutare un compagno di classe ebreo? Perché a un giovane italiano/europeo sembra logico che per agire politicamente bisogna per forza manifestare (spesso violentemente ormai) e che protestare significhi esprimere civilmente la propria opinione?

Se uno s’immergesse in quell’Israel’s state of mind sentirebbe subito il peso della responsabilità delle proprie parole, smaschererebbe le semplificazioni di una doppia morale.

Alla fine della serata, una ragazza palestinese che vive nella “two floor solution”, ha fatto un bellissimo discorso, ricordando i morti provocati da Israele, ma anche una litigata avuta con dei cugini perchè avevano difeso in un blog quei palestinesi che si servivano dei bambini come scudi umani. Se un paese moderno come Israele, infatti, è ancora costretto a doversi difendere con l’esercito è per colpa del terrorismo, non dell’attivismo politico, come lo definiscono certi italiani.

I veri attivisti, infatti, sono quelle persone grandi, quelle che agiscono dall’interno del sistema, che promuovono la positività e cancellano le differenze politiche: non quelli che lanciano missili Kazam. E quelli che pensano in grande, non per slogan. Quelli che ricordano, come ha detto Obama, in un famoso discorso che la complessità è importante: “Issues are never simple. One thing I’m proud of is that very rarely will you hear me simplify the issues.”

Benedetta G.


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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