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La Stampa Rassegna Stampa
22.01.2009 La vicenda di Izzeldin Abuelaish
La cronaca di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 22 gennaio 2009
Pagina: 14
Autore: Francesca Paci
Titolo: «La mia vita distrutta»

Da La STAMPA , pagina 14, "La mia vita distrutta dagli amici israeliani", di Francesca Paci.
Sulla vicenda di
Izzeldin Abuelaish si deve registrare l'esistenza di un'ipotesi diversa sia da quella dell'errore israeliano che da quella della provocazione da parte di un cecchino di Hamas. Quella della "vendetta" da parte di Hamas. Ne ha scritto Francesco Battistini sul CORRIERE della SERA.

Izzeldin Abuelaish passeggia davanti alla camera dove è ricoverata la figlia diciassettenne Shada, al primo piano del Chaim Sheba Medical Center di Tel Hashomer, a sud di Tel Aviv. La testa china, le spalle basse, la tuta da ginnastica grigia che indossa da sei giorni. «L'operazione è andata bene, Shada sta meglio, forse non perderà l'occhio destro» dice, e lo sguardo spento s'illumina per un istante. Nel padiglione di fronte la nipote Daida, 12 anni, è appesa a un tubo e a un filo di speranza. In poche ore, questo ginecologo di Gaza popolarissimo in Israele, è diventato il simbolo di un conflitto che ha fatto centinaia di vittime civili mancando, drammaticamente, i leader di Hamas: il David Grossman palestinese, capace, come l'altro alla fine della guerra del Libano, di pronunciare parole di riconciliazione davanti ai corpi delle tre figlie e d'una nipote uccise venerdì da una granata israeliana mentre chiacchieravano nella loro stanza, a Jabalya.
«Ammiro Grossman e chiunque si batte per il dialogo, questa tragedia rafforza la mia convinzione che la pace sia l'unica chance». Il dottor Abuelaish parla e singhiozza, l'adrenalina dell'inizio è andata, la tensione si è sciolta, l'uomo è in pezzi: «La violenza non paga è il principio con cui ho cresciuto i miei ragazzi, spero che il loro sangue non sia sprecato, che sia l'ultimo».
Izzeldin Abuelaish è un'eccezione da queste parti, un medico di Jabalya, nel cuore profondo dell'Hamastan, che si sente a casa in mezzo agli israeliani. «Collaboriamo da sempre, sono i miei amici, devono spiegarmi come hanno potuto farmi questo», continua, in trance. Cinquantatré anni, specializzato in trattamento dell'infertilità ad Harvard, il dottor Abuelaish si divide tra i piccoli pazienti della clinica pediatrica di Gaza e il Gertner Institute, il centro ostetrico dell'ospedale Sheba di Tel Hashomer, dove cura le donne che non riescono a restare incinte. Quando i connazionali lo attaccano perchè aiuta i «nemici» a riprodursi, spiega che esiste un Israele senza divisa: «La metà dei bambini ricoverati allo Sheba sono palestinesi ma a Gaza chi lo sa? Gli unici israeliani che si vedono laggiù sono militari».
Per lui, ammesso ai valichi negati a un milione e mezzo di persone, è diverso: «Ho lavorato molti anni al Soroka Medical Center di Beersheva, sono stato anche immortalato con Ehud Barak». La foto con Barak è un trofeo appeso nel salone dell'appartamento di Jabalya da cui, in perfetto ebraico, il dottor Abuelaish ha raccontato l'altra faccia dell'operazione Piombo Fuso agli amici giornalisti israeliani. Ogni giorno, per tre settimane. Fino a venerdì sera, ventiquattr'ore prima del cessate il fuoco, quando la sua voce si è rotta in diretta e ha invaso lo studio televisivo di Channel 10: «Hanno ucciso le mie figlie, le hanno uccise».
Un'infermiera porta le medicine per Shada. Izzeldin Abuelaish si lascia cadere su una sedia: «Eravamo tutti in casa, 25 persone: i miei 8 figli, i miei fratelli, le loro famiglie. Dove potevamo andare se neppure ospedali e moschee venivano risparmiati dai bombardamenti? Ma io mi sentivo al sicuro, i miei amici israeliani sapevano dove abitavo, una palazzina bianca con le finestre rosse, inconfondibile». L'orologio è fermo, il ricordo cristallizzato: «Bisan aveva preparato fagioli e zatar, come una mamma. Tre mesi fa mia moglie è morta di leucemia, Bisan aveva preso il suo posto. Avevamo parlato del Canada, a giugno si sarebbe laureata in business e pensavamo di trasferirci a Toronto». Si ferma, prende fiato. Il tempo che l'amico Tammie Ronen, docente di scienze sociali all’università di Tel Aviv, gli cinga le spalle e riparte: «Giocavo con Abdallah quando ho sentito l'esplosione nella stanza delle ragazze. Bisan si è spenta tra le mie braccia, gli altri corpi erano irriconoscibili. Shada e mia nipote Daida sanguinavano come fontane, le ho prese e sono uscito sventolando una maglietta bianca». Bisan aveva 20 anni, le sorelle Mayar e Aya, 15 e 13. La cugina Nur sarebbe diventata maggiorenne tra pochi mesi.
L'esercito israeliano sostiene che ci fosse un cecchino di Hamas nel palazzo, ma il dottor Abuelaish non ci sta: «Gli uomini di Hamas mi conoscono e stanno alla larga, li ho sfidati, da indipendente, alle elezioni del 2006». Un anno e mezzo fa, durante la guerra civile contro Fatah, le milizie islamiche magnetizzarono suo nipote. Gli amici israeliani, insiste, gli devono la verità: «C'eravamo solo noi lì dentro, io e le mie figlie armate di pace. So che i soldati non hanno colpito apposta, ma ammettano che hanno sbagliato. La storia del cecchino non regge, è stato un tragico errore. Mi basta la verità». Shada lo chiama, si è svegliata, vuol sapere quanto ci metterà a guarire. E' lei ora la donna di casa.

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