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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Giovanni Rota Intellettuali, dittatura, razzismo di Stato” 19/01/2009
Intellettuali, dittatura, razzismo di Stato” Giovanni Rota

Franco Angeli Euro 18,00


Si sa che, quando i coccodrilli piangono, pochi sono disposti a commuoversi. Ma cosa succede se a versare calde lacrime è un coccodrillo buono e generoso, pur sotto le sue scaglie coriacee? “Un coccodrillo al quale veramente dispiace che l’inesorabile processo dialettico della storia lo costringa a mangiare le sue vittime, e ora piange su di loro in assoluta sincerità di cuore”. L’alligatore in questione è nientemeno che il filosofo Giovanni Gentile, all’apogeo del suo potere. Lo descrive così una delle vittime, il grande semitista Giorgio Levi Della Vida, e la scena si svolge durante un consiglio di facoltà, alla Sapienza di Roma.

Siamo all’inizio del 1932, e Gentile ha chiesto la parola per esprimere la propria stima a Levi Della Vida, Gaetano De Sanctis ed Ernesto Bonaiuti, che sono appena stati espulsi dall’Università per non aver voluto giurare fedeltà al fascismo. Peccato che quel giuramento sia stato voluto da Gentile stesso.

Levi Della Vida e Gentile sono i principali protagonisti di un bel volume che Giovanni Rota ha dedicato al rapporto tra intellettuali, potere e razzismo nell’Italia fascista. Due amici-nemici d’eccezione, agli antipodi per convinzioni e carattere, e pure legati da una stima reciproca, che in qualche modo riuscì a superare persino le miserie della storia.

E’ vero che, a ripensarlo oggi, il confronto tra i due si rivela totalmente asimmetrico. Da una parte la linearità di Levi Della Vida che, per rimanere fedele a un proprio dignitoso laicismo, accettò di pagare un prezzo personale altissimo, dall’altra le contraddizioni di Gentile. Quando Levi Della Vida gli scrisse che non avrebbe giurato per non “venir meno agli ideali di libertà interna”, Gentile rispose che non poteva non approvare tale “atto di fedeltà alla propria coscienza e di lealtà verso il Regime”. E proprio questo è il problema fondamentale che emerge da quella stagione così tormentata: la parola “lealtà”, che in un simile contesto fa sobbalzare, dimostra come, quando gl’intellettuali abdicano al loro ruolo di critici, anche i vocaboli si offuscano e, con loro le coscienze. E’ ancora Della Vida a raccontarci come Gentile sostenesse che il giuramento avrebbe addirittura avvantaggiato i professori antifascisti, perché “quando fosse stato dato da tutti, ogni distinzione tra fascisti e antifascisti sarebbe scomparsa”. “Bastava un’oncia di buon senso”, continua Della Vida, per capire che sarebbe “accaduto proprio l’opposto”. Non a caso, Levi Della Vida era orgoglioso di aver pagato nel 1931 per le proprie idee, prefigurando di alcuni anni il dramma dei suoi colleghi che nel 1938 dovettero scontare la loro appartenenza all’ebraismo.

Il fascismo è come la religione” aveva scritto Gentile già nel 1929, e per non aderire a una simile religione che Levi Della Vida rifiutò di piegarsi: “Giurando la formula proposta, io compirei un atto di fede”. Di fatto, fu proprio la religione dell’ambiguità, che, in un micidiale crescendo, portò dalla mezza farsa del giuramento alla tragedia delle leggi razziali e della guerra.

Giulio Busi

Il Sole 24 Ore


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