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Il Foglio Rassegna Stampa
18.01.2009 L'Onu, il miglior alleato di Hamas- il defunto che imponeva il velo
di Amy Rosenthal, Giulio Meotti, Maurizio Stefanini

Testata: Il Foglio
Data: 18 gennaio 2009
Pagina: 12
Autore: Amy Rosenthal, Giulio Meotti, Maurizio Stefanini
Titolo: «l'Agenzia dell'Onu-Il maestro dell'Onu- Combattere con i civili»

Sul FOGLIO del 17/01/2009, a pag. XII, tre servizi sul conflitto. Quello di Amy Rosenthal ci fa capire come l'Onu sia di fatto il miglior alleato di Hamas. Quello di Giulio Meotti, un ritratto del defunto Said Siam, tanto rimpianto anche dalle donne in nero d casa nostra. Fu quello che impose il velo alle donne (di casa sua). Ma per le scatenate morgantine è solo un dettaglio da nulla. Maurizio Stefanini affronta il problema dell'uso (redditizio dal punto di vista mediatico) dei civili.

Amy Rosenthal - "L'Agenzia dell'Onu" Roma "

L’Onu ha creato un enclave di welfare per i terroristi di Gaza”, dice Claudia Rossett al Foglio. Giornalista e commentatrice americana, Rossett è famosa soprattutto per le sue inchieste all’interno del mondo onusiano. Oggi, senza troppi preamboli, spiega che l’Onu a Gaza, con la sua Agenzia per i rifugiati palestines÷i (Unrwa), “è la fonte di sostentamento della Striscia, e sono due le grandi industrie lì: gli aiuti e il terrorismo. L’Unrwa finanzia l’infrastruttura logistica che usano i terroristi, come le scuole, gli ospedali, le ambulanze. Hamas governa e l’Onu provvede di fatto a generare i redditi”. Certo, non c’è soltanto l’Onu a operare nella Striscia, ma l’Unrwa è la prima, perché si occupa del cosiddetto “popolo dei rifugiati”. Gli altri sette milioni di rifugiati del mondo sono gestiti dall’Alta commissione per i rifugiati: l’Unrwa è un’agenzia speciale con un budget di 400 milioni di dollari l’anno che si occupa soltanto dei palestinesi. “Non vuole farli diventare rifugiati ‘normali’ né farli tornare a una vita normale, semplicemente li tiene sotto il suo ombrello, con i suoi sussidi”. Quando nacque, nel 1949, l’Unwra aveva un mandato di tre anni e l’obiettivo di dare aiuti e lavoro ai palestinesi. Ma è sopravvissuta per 60 anni, espandendo mandato e finanziamenti e concedendo lo status di rifugiato a tutti i discendenti dei beneficiari originari. “Oggi l’Unrwa ha uno staff di 24 mila persone – dice Rossett – di cui il 99 per cento è costituito da locali che hanno interesse a portare avanti una politica in linea con i loro governanti, cioè con Hamas. Il punto d’influenza dei palestinesi dentro l’Onu è che l’organizzazione è molto antisemita, cioè odia gli ebrei”. Il tono di Rossett diventa estremamente critico: “L’Onu, che dovrebbe promuovere pace e prosperità, in realtà spende una quantità pazzesca di tempo nel condannare Israele. Non aiuta i palestinesi, il risultato dei suoi servizi è stato quello di renderlo il popolo più povero e sempre più fucina di terroristi del medio oriente”. Per di più questo sistema onusiano a Gaza non registra in che modo i sussidi sono spesi né da chi sono ricevuti. “Ho chiesto all’Unrwa la settimana scorsa come fa a verificare che non ci siano membri di Hamas tra i suoi dipendenti o tra coloro che beneficiano dei servizi dell’Onu – racconta Rossett – Un portavoce mi ha risposto: ‘Facciamo un controllo incrociato con la lista dei terroristi dell’Onu, la 1.267’. Caspita, pare bello, peccato che la lista 1.267 tenga traccia di al Qaida e dei talebani: non ha niente a che fare con Hamas”.

Giulio Meotti - " Il maestro dell'Onu "

Roma. Said Siam, il ministro dell’Interno di Hamas ucciso dall’aviazione israeliana due giorni fa, non aveva l’aspetto del tipico leader islamista. Portava una barba sportiva, vestiva all’occidentale anziché la tipica palandrana araba indossata da Nizar Rayan, l’altro leader di Hamas ucciso all’inizio della controffensiva israeliana nella Striscia di Gaza. Siam era un matematico per formazione, ma aveva studiato cultura islamica alla Open University di Gerusalemme. Soprattutto per molti anni, un dettaglio non di poco conto evirato dalla sua biografia pubblicata sui giornali, Siam aveva insegnato nelle scuole delle Nazioni Unite a Gaza. Una prova che questi istituti, nati secondo un intento positivo e umanitario, negli anni si sono trasformati nella cassa di risonanza, se non nel portabandiera, del messaggio antisemita e genocida dell’ala palestinese dei Fratelli musulmani. Nel luglio del 2006 gli aerei israeliani avevano già colpito l’ufficio di Siam, riducendolo in cenere. “Il suo sangue non sarà versato invano”, proclamano in un comunicato i terroristi delle Brigate Ezzedine al Qassam. Siam era un wahabita, aveva studiato alla al Qura University, l’ateneo più radicale del regno saudita, una fucina del pensiero islamico jihadista. E’ la stessa università diretta dallo sceicco jihadista Ahmad bin Abd al Latif, al quale recentemente era stato chiesto, in una trasmissione tv sulle regole religiose, se era permesso pregare per l’annientamento di ebrei e cristiani. “Maledire gli ebrei oppressori e i cristiani oppressori e depredatori e pregare che Allah li distrugga è permesso”. Siam è stato il regista del colpo di mano a Gaza contro le forze rivali di Fatah nel giugno del 2007. Era anche imam nelle moschee di Gaza. Un feroce guerrasantiero che nel 2006, dopo la vittoria di Hamas, aveva annunciato che non avrebbe fatto arrestare un solo terrorista responsabile di azioni contro Israele. Siam era il teorizzatore dei rapimenti dei soldati israeliani, come Gilad Shalit, ancora nelle mani di Hamas. Appena preso il potere a Gaza, Siam impose alle donne l’uso del velo islamico negli edifici governativi. Noto per la sua ferocia con i militanti di Fatah accusati di “collaborazionismo”, Siam era anche indicato dagli Stati Uniti come il responsabile, assieme al defunto Jamal Abu Samhadana, dell’attacco a funzionari americani nei Territori palestinesi. A Jabalya, una settimana fa, tre fratelli palestinesi sono stati arrestati, “processati” e uccisi con un colpo di pistola. Forse per ordine dello stesso “ministro dell’Interno” Siam.

Maurizio Stefanini - " Combattere con i civili "

 Roma. Per capire dove nasce quella retorica – un po’ ipocrita – intorno ai civili e ai bambini in guerra, quel tipo di percezione della realtà che a prescindere ti fa considerare ogni guerra un errore e che ti fa persino dimenticare come spesso la libertà di un paese purtroppo si ottiene anche con bombardamenti a tappeto nelle città europee, e anche con le vittime civili, bisogna partire da qui, e ascoltare quello che raccontano al Foglio alcuni importanti professori, psicologi, giornalisti e politologici. Claudio Risè, docente di Sociologia dei processi culturali e di comunicazione e psicologo e studioso del fenomeno bellico, fa questo ragionamento: “Sono nato alla fine del 1939 e la mia infanzia è trascorsa in mezzo alla guerra. Ricordo Milano bombardata e incendiata. Ma in tutto il resto della mia vita è stato per me chiaro che la libertà della mia esistenza era stata resa possibile grazie a azioni di guerra: comprese quelle da cui avevamo dovuto ripararci”. Vittorio Emanuele Parsi, docente di relazioni internazionali alla Cattolica di Milano, appartiene a una di quelle generazioni che hanno potuto usufruire del risultato della guerra senza averne dovuto pagare il costo. “Ma se non ci fosse stata la Seconda Guerra mondiale – spiega – oggi staremmo o sotto il nazifascismo o sotto il comunismo. Non c’è dubbio che la democrazia e la pace nell’Europa siano passate per la sconfitta militare del nazifascismo, e per i morti civili che questa sconfitta ha dovuto comportare. E’ vero che le guerre non risolvono i problemiMa nel senso che la guerra è uno strumento che chiude un problema per aprirne un altro. La guerra è tremenda, ma vivere da schiavi è peggio”. Ammesso però che certe guerre sono necessarie, sono inevitabili le vittime civili? Ed è vero che questi “danni collaterali” sono aumentati con la guerra moderna? La Guerra di Troia; quella Terza Guerra Punica al termine della quale il sale fu sparso sulle rovine bruciate di Cartagine; quella Guerra Gotica che ridusse gli abitanti dell’Italia da quattro milioni a un milione solo; i massacri seguiti alla presa cristiana di Gerusalemme nel 1099 o a quella musulmana di Costantinopoli nel 1453; i due terzi di tedeschi e il 90 per cento di cechi che morirono nella Guerra dei Trent’Anni: si può ricordare queste vicende e parlare ancora della “bontà dei cavalieri antiqui” che risparmiavano i non combattenti? “Ma certo che no”, risponde uno storico del pensiero politico come Alessandro Campi. “Questa è una visione stereotipata e semplicistica. Anche la guerra classica, pur riguardando ufficialmente solo eserciti professionali, nella realtà aveva ricadute pesanti sulle popolazioni civili. Pensiamo solo un momento al fenomeno del saccheggio”. Con un po’ più di articolazione, è sulla stessa linea anche uno storico delle istituzioni militari come Virgilio Ilari. “L’ingentilimento della guerra è sempre stato un mito. Certo, esiste un corpus giuridico di norme che hanno aumentato le restrizioni alla guerra. Ma è sempre stata nella tradizione europea l’ideologia secondo la quale i selvaggi devono essere combattuti in maniera selvaggia, fin dagli antichi greci. Anche se nella pratica gli stessi antichi greci facevano poi il contrario: guerra feroce tra spartani e ateniesi durante il conflitto del Peloponneso, e invece rispetto di certe regole coi persiani. Che erano di più, e incutevano dunque una certa soggezione”. Un po’ a sorpresa è invece Carlo Jean, esperto di strategie militari, ad accettare in parte questo tipo di stereotipo. “E’ vero. Come percentuale il numero delle vittime civili è aumentato negli ultimi decenni. Nella Prima guerra mondiale erano ancora il 10 per cento del totale, fatto salvo l’impatto dell’epidemia della spagnola. Adesso siamo arrivati al 90-95 per cento. Certo, è un discorso che è valido soprattutto in raffronto alle guerre combattute dopo la Pace di Westfalia. E’ meno valido prima, e anche dopo le guerre coloniali diventavano quasi sempre guerre di sterminio. In qualche modo, però, proprio il fatto che i vinti una volta venissero schiavizzati evitava che le vittime civili oltrepassassero una certa soglia”. “Indubbiamente – osserva Campi – l’uso massiccio della tecnologia ha disumanizzato il conflitto e ha tolto il collegamento tra chi colpisce e chi è colpito. Però è un dato ambiguo. Davvero è più barbaro infilare un coltello nel corpo del nemico che ti sta di fronte piuttosto che lanciargli da lontano un missile?”. “La questione non è semplice”, ammette Ilari. “A Gaza c’è la tecnica degli scudi umani, che è fatta da professionisti della guerriglia confusi con la popolazione. Quando si fa un’operazione di polizia i danni collaterali ci sono sempre: è un costo inevitabile. Oggi c’è una fiducia nelle armi intelligenti che è anche ben risposta, perché il grado di precisione massimizza l’effetto e limita i danni. Ma ciò non significa che non possano esserci vittime civili”. In questo senso, per Ilari nelle guerre più recenti ci sarebbe uno sforzo di limitare il danno collaterale che nella Seconda guerra mondiale non c’era. “Gli inglesi a Dresda fecero un bombardamento terroristico, per vendicarsi dei bombardamenti tedeschi in Inghilterra”. Che non erano stati anch’essi terroristici? “Quelli sull’Inghilterra no. Semplicemente, non avevano la tecnologia per centrare bene i bersagli, e colpivano i civili invece delle infrastrutture. Però dopo la distruzione di Coventry se ne vantarono, assumendosi in qualche modo la responsabilità dell’accaduto”. “Non c’è dubbio poi – dice Parsi – che è l’asprezza dello scontro ideologico a far alzare l’asticella del terrore: lo vediamo anche adesso a Gaza. Se almeno dalla Seconda Guerra Mondiale in poi il numero delle vittime civili tende a superare quello delle vittime militari, però, mi sembra che il problema sia un altro. Con la modernità il diritto bellico ha teso a limitare le ecatombi, ma gli assedi hanno sempre fatto soffrire la popolazione civile, e negli ultimi decenni sempre più le guerre hanno assunto la modalità dell’assedio. Anche a Gaza è una guerra d’assedio. Ma chi decidedi far partire uno scontro del genere sa che moriranno molti civili. Le vittime civili palestinesi sono uccise dagli israeliani, però Hamas ha scelto di avere tante vittime civili proprio per fare pressione. Sa che può mettere in difficoltà Israele solo attraverso una forte pressione internazionale provocata da un elevato numero di morti civili. L’immagine dei morti suscita ovviamente pietà, ma non può distrarre dal comprendere il contesto”. La questione dell’occultamento di Hamas tra i civili provoca d’altronde anche altre osservazioni. “Israele indica i luoghi che verranno colpiti, Hamas ci manda la popolazione civile”, dice Risè. “Sono fatti che dovrebbero permetterci di differenziare le responsabilità della guerra dalla propaganda politica”. “A Gaza si sta combattendo corpo a corpo”, nota Campi. “Eppure non ho ancora visto un combattente di Hamas ripreso dalla telecamera”. Problema tecnico per un generale: dal momento che Hamas cerca apposta di far ammazzare più civili possibili, come fare a non assecondarla? Risponde Jean: “Bisogna impiegare soldati abbastanza anziani da non avere il grilletto facile. Dalle immagini vedo che gli israeliani usano riservisti di 30-35 anni, che mi sembra l’età giusta. Anche a Jenin usarono riservisti è andò bene: la propaganda parlò di massacri, ma in realtà le perdite israeliane e palestinesi furono equilibrate. Anche adesso c’è chi parla di 300 bambini tra i 1.000 morti palestinesi, ma se così fosse dovrebbe esserci una percentuale analoga anche tra i feriti. E perché in tv si vedono solo feriti adulti? Certo, i carri armati sembrano meno affidabili: sono loro che hanno tirato sull’Onu. Non so però se è perché hanno equipaggi più giovani, o perché hanno l’ordine di sparare subito per evitare di essere colpiti come avvenne in Libano”. Su tutto, un problema dei conflitti moderni è che dopo quella dell’Urss al Giappone nel 1945 non c’è più stata nessuna dichiarazione di guerra, perché si combattono tra avversari che non si riconoscono: come appunto Hamas e Israele. “Il carattere non dichiarato delle guerre moderne contribuisce a far crescere il numero delle vittime civili. Paradossalmente, il tentativo di mettere la guerra fuori legge ha avuto l’effetto opposto di renderla meno controllabile. La massima formalizzazione e chiarezza nel dichiarare la guerra e nel condurla fanno meno vittime rispetto alle guerre stagnanti e non dichiarate”, sostiene Risè. “Essendo il mondo di oggi strutturato in forma imperiale, è venuto meno il diritto di autotutela degli stati: una controversia giudiziaria che presupponeva una dichiarazione nella quale si elencavano le malefatte dell’avversario, si sostenevano i propri meriti e si esponeva lo scopo della guerra”, spiega Ilari. “Se non avviene più in termini formali, però, non vuol dire che non accada in termini sostanziali. Israele lo ha detto: cesseremo le operazioni quando i palestinesi cesseranno il lancio dei missili”.

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