Da L'OPINIONE del 16 gennaio 2009, l'analisi di Stefano Magni "Non è impossibile vincere sui terroristi":
“Nessuna espressione rappresenta un miglior trionfo della speranza al di sopra della realtà quanto ‘il processo di pace mediorientale’. Che è seguita subito dopo dalla nozione, a suo tempo famosa, secondo cui Israele dovrebbe ‘scambiare terra contro pace”. Thomas Sowell, economista americano, liberale, sempre critico nei confronti del linguaggio politically correct, smonta i miti della pace mediorientale. E i termini usati dalla quasi unanimità della diplomazia internazionale da quando è scoppiata la crisi a Gaza. Basti vedere il dibattito politico italiano, con il neo-novantenne senatore Giulio Andreotti, che ieri ha apprezzato le dichiarazioni di Massimo D’Alema (il quale invita ad aprire il dialogo con Hamas). Da destra a sinistra prevale la logica del: “fermare la guerra subito”, esattamente come la risoluzione del Parlamento Europeo, che chiedeva ieri un’immediata “tregua negoziale” e come la dichiarazione del Coordinamento per la Terra Santa (che riunisce vescovi cattolici americani ed europei) che contemporaneamente invitava a “lavorare con israeliani e palestinesi per fermare subito la violenza a Gaza”. Gli unici che si staccano dal coro unanime di pace, lo fanno contro Israele. In Italia ci pensa il leader del Partito Comunista dei Lavoratori a parlar fuori dai denti: “Solo il rovesciamento del sionismo e il diritto al ritorno dei palestinesi nella propria terra, potranno liberare la pace in Palestina”. Hamas afferma cose molto simili. Naomi Klein, l’autrice di “No logo”, il manifesto no-global, invitava ieri a passare all’azione promuovendo un boicottaggio di Israele.
Di fatto, nessuna forza politica (nemmeno negli Stati Uniti) chiede la vittoria militare di Israele su Hamas, prima di parlare di pace. “Coloro che pensano che i negoziati siano una risposta magica” - ribatte Thomas Sowell - “sembrano non capire che quando A (Hamas, ndr) vuole annientare B (Israele, ndr), questa non è più una questione che possa essere risolta amichevolmente attorno a un tavolo”. Se non si parla mai di “vittoria” è perché è lo stesso diretto interessato (Israele) che non ne parla. Nei termini del ministro degli Esteri Tzipi Livni e del ministro della Difesa Ehud Barak, l’obiettivo è fermare i lanci di Qassam su Israele, non distruggere Hamas. Il fatto che in Iraq e in Afghanistan (rispettivamente dopo cinque e sette anni di guerriglia) si continui a combattere e che in Libano non si sia riusciti a debellare Hezbollah, sta consolidando questa convinzione: che la vittoria militare contro il terrorismo sia impossibile. E dunque ci si debba necessariamente sedere attorno a un tavolo, magari anche con i leader di Hamas e con Bin Laden prima o poi. Anche David Miliband, ministro degli Esteri britannico, ha affermato ieri che “La nozione stessa di guerra al terrorismo è sbagliata, ci verrà rimproverata dalla storia”, prima di passare all’ennesima critica contro Guantanamo e la “subordinazione” dello Stato di diritto a quello di emergenza, ecc... Daniel Doron, editorialista del Jerusalem Post, è convinto che il principio della “vittoria militare impossibile” contro il terrorismo sia infondata: “Quasi tutti i movimenti terroristi della storia sono stati sconfitti con la forza, dagli Assassini dell’XI secolo alla rivolta araba del 1936”. Se ora il governo Olmert ha deciso di non intraprendere una campagna militare decisiva a Gaza, ma si limita a colpirne le periferie, è solo perché “(il piano) si basa sulla fiducia risposta negli egiziani, perché siano loro a fermare l’enorme volume di contrabbando dal Sinai sin dentro Gaza”. Quanto sia affidabile l’Egitto, poi, sarà tutto da vedere e l’autore dell’editoriale ne dubita. “Se non cerchi la vittoria, sarai tu lo sconfitto” - conclude Doron - “anche se il tuo spin doctor ti convincerà, come è avvenuto con la guerra in Libano, che una sconfitta è in realtà una vittoria”.
L'analisi di Michael Sfaradi "Perché le bombe israeliane colpiscono l’Onu":
La giornata di ieri era stata relativamente calma, la calma prima della tempesta. Le notizie di estenuanti trattative per arrivare ad un immediato cessate il fuoco avevano ammortizzato la sensazione che si stesse passando alla fase numero tre del conflitto fra l’esercito israeliano e i terroristi di Hamas. Per fase tre si intende l’entrata della fanteria e dei gruppi di assalto all’interno dei centri abitati alla ricerca dei terroristi, delle armi e di tutti tipi di esplosivi a loro disposizione. Stamani, invece, la furia della battaglia ha ripreso vita e l’aeronautica israeliana che ieri era stata quasi completamente assente sui cieli di Gaza, stamattina si è ripresentata con tutta la sua potenza di fuoco. Uno degli obiettivi che sono stati colpiti è la sede dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi dei rifugiati palestinesi che come tutte le agenzie delle Nazioni Unite gode di extraterritorialità. Il ministro della Difesa Ehud Barak, si è scusato con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, affermando che si è trattato di un errore: “Il ministro della Difesa mi ha detto che si è trattato di un grave errore che sta considerando molto seriamente” - dichiarava ieri il segretario generale Onu - “Mi ha assicurato un’attenzione ulteriore verso i siti e il personale delle Nazioni Unite e che un episodio simile non si ripeterà”. Ma secondo informazioni in possesso del Ministero della Difesa israeliano sembra che diversi combattenti di Hamas avessero trovato rifugio nella sede Unrwa.
Non è chiaro se i terroristi siano entrati all’interno dell’edificio con il consenso degli ispettori internazionali, ma questo stato di cose avrebbe trasformato quello che doveva essere un luogo assolutamente inviolabile in un obiettivo militare. Anche il magazzino di un ospedale è stato colpito e l’alta colonna di fumo che si alza in cielo è ben visibile dal punto di osservazione in cui mi trovo. Il fatto che l’esercito israeliano stia colpendo obiettivi di questo tipo oltre ad essere, se tutto fosse poi confermato, la giusta reazione a un comportamento criminale da parte di Hamas è anche e soprattutto un messaggio chiaro che le regole del gioco sono cambiate: non ci si può più impunemente nascondere all’interno di mezzi o di fabbricati che godono dell’immunità come quelli della Croce Rossa o dell’Onu. Quello che sta accadendo in queste ore, cioè che l’unità corazzata 404 con decine di carri e le unità Givati (commandos specializzati nella guerra nei centri abitati), potrebbe anche essere il segno che la terza fase è iniziata e che un accordo per il cessate il fuoco è ancora lontano dall’essere raggiunto. Secondo l’opinione di alcuni osservatori politici la ripresa dei combattimenti con l’intensità che abbiamo avuto modo di vedere oltre ad essere un duro colpo nelle file militari di Hamas, fa capire ad Ismail Haniyeh e ai suoi “ministri” che la pazienza israeliana è finita e che è giunta per loro l’ora di arrendersi ed alzare la bandiera bianca e che ogni minuto in più e un minuto sprecato.
Sempre di Safardi, da Sderot: "Gaza, gli scudi umani contro l’esercito":
Sono stati 13 gli allarmi che ieri hanno risuonato a Sderot e 15 sono stati i razzi arrivati: 13 erano Qassam e due Grad. Per due volte l’allarme non ha suonato. Guardando Gaza da alcuni punti di osservazione ai quali i giornalisti sono ammessi, non si vedono più le colonne di fumo che caratterizzavano il panorama di guerra dei giorni scorsi, questo significa che i bombardamenti aerei hanno avuto un grosso rallentamento se non uno stop totale. Solo a tratti, e guardando in lontananza con il cannocchiale, si alzava dal suolo del fumo, si trattava sicuramente di scontri a fuoco fra truppe di terra. Mi siedo su una pietra e guardo i lontananza, cerco di capire o immaginare quello che sta accadendo, ma so che ciò a cui sto pensando potrebbe essere molto lontano dalla realtà, so anche che le guerre anche se in apparenza sembrano tutte uguali, nella realtà sono tutte diverse fra loro. Intorno a me ci sono i camion ed i furgoni di diverse televisioni europee e statunitensi, cameraman, produttori e giornalisti di fama mondiale. Seduti chiacchierano fra loro o al telefonino in attesa di qualcosa da raccontare, la giornata, almeno fino a quel momento, non sembra promettere storie per le edizioni delle 20. Monto in macchina e viaggio a ritroso verso Sderot, 4 km prima della città c’è una pompa di benzina con annesso bar e decido di prendere un caffè. Nel parcheggio trovo la mia prima sorpresa, una colonna militare ha preso possesso della zona riservata ai camion, riesco a contare almeno tre autotreni che trasportano degli enormi tank, e tutta una serie di jeep corazzate. All’entrata del bar c’è un gruppo di soldati, hanno la faccia da liceali durante campeggio estivo, però con l’M16 a tracolla. Uno di loro mi avvicina e per prima cosa mi chiede se parlo ebraico, alla mia risposta affermativa la sua seconda domanda è cosa ci faccio io in una zona come quella. Glielo spiego e capisco che ha voglia di parlare con me.
Lui e il suo gruppo sono appena usciti da Gaza, mi racconta quello che può di ciò che ha visto: bombe a forma di sasso lasciate sui sentieri, trappole esplosive e tunnel sotterranei, tanti tunnel sotterranei. Nella zona dove lui ha operato fino a poche ore prima sono stati trovati 22 tunnel che i terroristi di Hamas hanno usato per trasportare, negli ultimi anni, i razzi Qassam che hanno martoriato Sderot. Una vera ragnatela sotterranea che passava di casa in casa, di palazzo in palazzo. Le botole di entrata e di uscita sono state trovate nei bagni, nei sottolavelli e i nei camini delle abitazioni private. In diversi casi sono stati proprio gli abitanti delle abitazioni a far vedere ai militari israeliani i punti di entrata e di uscita con la speranza che questa collaborazione spontanea potesse in qualche modo salvare le loro case ma gli ordini sono chiari: ogni tunnel trovato deve assolutamente essere distrutto. Alcuni palestinesi si lamentavano del fatto che erano stati costretti con la forza a far passare i tunnel, i missili e quant’altro da e per le loro abitazioni, ed ora, per punizione, dopo essere stati costretti ad una cooperazione forzata con il terrorismo per “premio” si ritrovano anche la casa se non distrutta gravemente danneggiata. Gli chiedo se lui crede che fossero stati realmente costretti, ci pensa su un attimo e poi mi risponde convinto: “un padre di famiglia con quattro o cinque figli non si mette a sparare missili”. Gli chiedo se ha altro da raccontarmi, vedo che è indeciso: “Abbiamo trovato delle rampe di lancio di missili Qassam e Grad poggiate a ridosso di muri o sui tetti di case private, rampe particolari dalle quali si potevano lanciare i razzi a distanza. Quando noi rispondevamo al fuoco i terroristi non erano più lì e in compenso c’era una grande probabilità di colpire qualcuno che non c’entrava nulla”. Gli chiedo se tutto questo è stato filmato o fotografato e mi risponde di si, ma è convinto, ed ha ragione, che queste immagini non saranno mai trasmesse fuori da Israele. Mi chiede perché accade questo, perché le immagini che spiegano se proprio non giustificano le reazioni di Israele non vengono mai trasmesse dalle televisioni internazionali, ma non ho per lui una risposta.
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