Hamas perde il "ministro degli Interni" Said Siam e negozia cercando di mantenere la propria libertà di movimento ( e di riarmo) attraverso i valichi
Testata: Il Foglio Data: 16 gennaio 2009 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Hamas negozia e si gioca la sopravvivenza sui varchi con l'Egitto»
Dalla prima pagina del FOGLIO del 16 gennaio 2009 , "Hamas negozia e si gioca la sopravvivenza sui varchi con l'Egitto" :
Gerusalemme. La questione più importante sul tavolo dei negoziati al Cairo è il controllo dei valichi sud, tra Gaza e l’Egitto. E’ da lì che passa tutto: il denaro in grossi borsoni che arriva dall’estero, le armi, gli uomini. Hamas ha ripreso a lanciare razzi contro Israele in novembre e ha scatenato il conflitto – rifiutando di rinnovare il cessate il fuoco di sei mesi del giugno 2008 – proprio perché voleva ottenere la riapertura della frontiera, sigillata dopo la presa di potere cruenta ai danni dei rivali di Fatah nel giugno 2006. Noi facciamo pressione e spariamo razzi Qassam contro le vostre cittadine del sud, voi ci concedete la riapertura dei valichi, poi noi smetteremo: ma il calcolo di Hamas si è rivelato errato in misura catastrofica. Il Cairo non ha riaperto nulla e Gerusalemme ha cominciato un’offensiva militare durissima. Il gruppo punta ancora allo stesso obbiettivo: ottenere libertà di movimento attraverso i punti di passaggio verso l’Egitto. Anzi, ora ne ha più bisogno di prima, perché in ventuno giorni di guerra ha subito colpi durissimi, le sue risorse materiali sono state devastate, i suoi capi sono braccati: ieri l’aviazione israeliana ha ucciso il leader e ministro dell’Interno di Hamas, Said Siam, e ha colpito alcune guardie del corpo di un altro uomo al vertice, Mohammed Zahar. Il viavai al Cairo dei negoziatori – i due emissari di Hamas-in-Damasco, i due emissari di Hamas-a-Gaza (questi ultimi due sono gli unici che parlano poi in conferenza stampa, legittimati agli occhi dei palestinesi dal sangue e dalle bombe che hanno visto da vicino; i colleghi che tornano a riferire in Siria non si fanno vedere) e ieri il caponegoziatore di Israele, Amos Gilad – gira tutto attorno a questo punto dell’imminente cessate il fuoco. Le soluzioni possibili sono almeno tre, ma ancora sfocate. Una è la riapertura dei valichi sotto la responsabilità egiziana, che poi consegnerebbe la sorveglianza sul versante palestinese agli uomini di Fatah. Secondo il giornale libanese Assufir, quattrocento uomini di Abu Mazen sono già sul confine, versante egiziano, per prenderne il controllo quando i combattimenti si fermeranno e per ritornare a Gaza, da dove furono cacciati con la forza due anni fa. Un’altra è l’arrivo di un contingente di peacekeeper sul modello di Unifil a sud del fiume Litani, in Libano: soluzione che l’Egitto teme, perché non vuole un contingente militare straniero al confine e perché il modello libanese non brilla per efficacia. Su a nord Hezbollah oggi è tre volte più forte di quanto lo era due anni fa, e se oggi si trattiene è soltanto per calcolo politico: non è ancora il momento di combattere lo scontro definitivo con Israele, mancano soltanto quattro mesi alle elezioni di Beirut. Il Cairo – che intanto chiede un cessate il fuoco di 10 giorni per limitare le perdite tra i civili – teme di trasformarsi nel cortile impunito degli uomini di Hamas, in transito da e per una Gaza pattugliata distrattamente da soldati stranieri che non capiscono l’arabo Hamas fa invece pressione – molto poca in verità, le opzioni possibili si stanno assottigliando – perché vorrebbe per la crisi una soluzione turca: noi smettiamo di lanciare i razzi per un periodo di tempo non inferiore a un anno, in cambio Gaza e i valichi siano consegnati a un contingente di peacekeeper di Ankara. “I leader di Hamas si fidano della Turchia”, dice il premier turco Tayyip Erdogan, che si è affermato da tempo come mediatore credibile anche a Gerusalemme. Eppure, nel febbraio 2006 il governo turco è stato il primo tra quelli non arabi a ricevere i capi di Hamas, dando loro un’insperata legittimità internazionale. Secondo alcuni analisti, Erdogan per qualche tempo ha sperato che la vittoria alle elezioni di Hamas diventasse una specie di secondo modello Akp, una via islamica e democratica al potere. E in Turchia esiste una base – chiassosa ma minoritaria – di simpatizzanti per il gruppo. Ieri il governo israeliano si è scusato con il segretario dell’Onu, Ban Ki Moon, in visita a Tel Aviv, per cinque colpi di artiglieria che hanno colpito senza fare vittime la sede Onu a Gaza. “Hanno sparato razzi anticarro contro le nostre truppe dal tetto dell’edificio”, ha detto al segretario il premier Ehud Olmert. Il presidente eletto, Barack Obama, ha detto alla Cbs che sarà necessario coinvolgere anche la Siria, e parlare con l’Iran, fin dal primo giorno della sua presidenza, il 20 gennaio. Dall’Iran non sono così concilianti. “Tutte le 32 basi americane in Iraq – dice un vice della guida suprema, Ali Khamenei – sono a portata dei nostri missili”.
Per inviare la propria opinione al Foglio cliccare sulla e-mail sottostante lettere@ilfoglio.it