Il voto all'Onu, bandiere bruciate, l'inviato in Israele di Fiamma Nirenstein, Alberto Giannoni, Luciano Gulli
Testata: Il Giornale Data: 11 gennaio 2009 Pagina: 7 Autore: Fiamma Nirenstein, Alberto Giannoni, Luciano Gulli Titolo: «All' Onu la sorpresa americana-Milano, la capitale di Gaza-Pioggia di volantini dell'esercito israeliano. Ora l'attacco più duro»
Dal GIORNALE di oggi, 11/01/2009, riprendiamo l'analisi di Fiamma Nirenstein sulla risoluzione Onu, nella quale per la prima volta gli Usa non hanno posto il veto. Alberto Giannoni sulle manifestazioni islamiche a Milano e la corrispondenza dell'inviato in Israele Luciano Gulli.
Fiamma Nirenstein - " All' Onu la sorpresa americana "
Documenti, risoluzioni, progetti, incontri: la diplomazia internazionale sbatte la testa contro una realtà micidiale, quella della volontà di Hamas di proseguire nella sua guerra, nella sua ragione di vita «anche in condizioni di tregua». Israele, peraltro, non intende continuare come negli ultimi otto anni, e senza garanzie non accetterà chiacchiere. «Tzi Filadelfi», il corridoio di Filadelfia, da cui le armi iraniane arrivano dall’Egitto, è il nome del gioco, e intanto l’Onu fa il suo mestiere, ovvero: nulla. Condi Rice venerdì notte stava per votare la risoluzione dell’Onu palesemente sgradita a Israele insieme agli altri membri del Consiglio di Sicurezza. Da tempo il Segretario di Stato americano aveva il desiderio di mostrarsi dalla parte degli «underdog», di cancellare il gelo con gli amici europei. Poi Bush con una telefonata, si dice, l’ha fermata: al massimo ci possiamo astenere, ha detto, e così è avvenuto. È stato triste per Israele. Gli Usa, per la prima volta da molti anni, non hanno posto il veto a una di quelle tipiche risoluzioni sostenute da un lavoro di lobby gigantesco degli Stati Arabi e islamici in genere e da vari Paesi europei, attualmente dalla Francia e dall’Inghilterra. La risoluzione non menziona il diritto all’autodifesa di Israele, chiede alle parti di fermarsi, mettendo sullo stesso piano la difesa di un Paese democratico e l’attacco quasi decennale di un’organizzazione terrorista. L’Onu ha scelto la strada più facile per affrontare una crisi difficile: non chiama Hamas per nome, crea confusione sulle responsabilità del conflitto, non affronta il problema che un cessate il fuoco senza condizioni rinnoverebbe la forza di fuoco di Hamas e la sua struttura di comando, che negli ultimi giorni si sono indebolite, tanto che di nuovo tre membri di Hamas sono al Cairo per decidere che fare. La risoluzione neppure chiama la comunità internazionale, specie l’Egitto, a fermare il flusso di armi per Hamas. Il nome di Gilad Shalit, il soldato rapito da quasi tre anni, non è neppure menzionato, non si parla degli scudi umani usati da Hamas. Insomma, l’Onu non si occupa di diritti umani, ma della propria immagine e dei propri equilibri interni, e lo fa promuovendo una realtà virtuale di cui Hamas non accoglie la proposta. Uccidere ebrei è la sua missione sociale: può decidere di fermarsi solo se obbligato. E Israele non può tornare allo status quo ante per motivi di sopravvivenza e perché deve rispondere agli 800mila cittadini ancora nei bunker di Sderot e Ashkelon. Israele è in un fase difficile della battaglia, con l’esercito turbato da una guerra dolorosa, e fermo nel profondo di Gaza. Ma la prospettiva appare più incerta da quando la proposta Mubarak-Sarkozy ha mostrato la sua falla centrale: l’Egitto non vuole lesioni della sua sovranità sullo Tzir Filadelfi, accetterà a Rafah solo ospiti tecnici e non una presenza militare intrusiva. Ora il mondo intero cerca di promuovere una soluzione che darebbe nuova legittimità a Abu Mazen facendo dell’Autonomia Palestinese il partner per il controllo dei passaggi. L’Egitto lo accetterebbe, perché eviterebbe di assumersi la responsabilità di Gaza; nello stesso tempo accettando un partner minore, ma coadiuvato dagli Usa con tutto il quartetto, salverebbe il suo potere sul confine e riaprirebbe la strada a Fatah a Gaza. Ma è tutto da vedere se Hamas accetterebbe l’odiato Fatah dalle sue parti. Dunque, tutte le soluzioni per ora sono virtuali, e tutti guardano a un miracolo egiziano, che l’Iran certo non desidera.
Alberto Giannoni - " Milano, la capitale di Gaza"
Milano Un’altra processione d’odio sulle strade di Milano. Il quarto corteo in una settimana in un centro cittadino ormai stordito dalla sistematica invasione di musulmani e militanti filo-palestinesi. Ieri 5mila persone sono tornate a sfilare, da piazzale Loreto alla Stazione Centrale. Un chilometro e mezzo di invocazioni ad Allah e di slogan furenti contro Israele e gli Usa. Un percorso di bandiere bruciate, insulti e preghiere, in una miscela inquietante di fanatismo e politica. Sette giorni prima un altro fiume di islamici aveva sfondato i cordoni della polizia fino a tracimare in piazza Duomo, trasformata in moschea a cielo aperto. Rivolti alla Mecca avevano pregato davanti alla Cattedrale, guidati da Abu Imad, l’imam di viale Jenner che solo due mesi fa è stato condannato in appello per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo. Un’offesa per molti, una ferita rimarginata a stento, e controvoglia, con la visita degli organizzatori del corteo agli stretti collaboratori dell’arcivescovo Dionigi Tettamanzi. Solo un robusto servizio d’ordine ha evitato che la marcia di ieri degenerasse in una nuova occupazione del Duomo. Ma non ha potuto evitare che fossero dati alle fiamme dei vessilli con la stella di David. «Bush, Barack assassini» lo slogan ripetuto fino a uno stato di trance collettivo al limite del malore fisico. Alcuni ragazzi erano portati a spalle, mimando i funerali dei «martiri». «Darò la mia vita e il mio sangue per la terra di Palestina», il coro-preghiera gridato al tramonto. In testa al corteo donne e bambini. Due piccoli reggevano un telo raffigurante le bandiere Usa di teschi e strisce, e un altro simbolo di morte nella stella a sei punte. Un altro piccolino alzava un cartello che stabiliva l’equazione fra svastica e stella di David. Le invocazioni all’antiamericano Chavez seconde solo a quelle rivolte ad Allah. Gli appelli al boicottaggio di Israele. Una bambina di due anni per ripararsi dal freddo abbracciava la madre mentre questa rabbiosamente urlava il suo «assassino» a Bush. Poco lontano qualche reduce del Sessantotto osservava compiaciuto i giovani con le bandiere di Hamas e degli Hezbollah libanesi. In coda al corteo le frange della sinistra estrema. Una bandiera nera dell’anarchia sovrastata da una kefiah. Si è rifatto vivo l’ex parlamentare di Rifondazione Fernando Rossi, per teorizzare che le elezioni vinte da Hamas sono state più democratiche di quelle americane o italiane. All’arrivo alla stazione la preghiera collettiva guidata dall’imam. Dall’altro lato della piazza, a buio, il comizio dei Palestinesi d’Italia: «A Gaza è in corso l’Olocausto del Secolo», ha detto il presidente. «Se la nostra preghiera al Duomo ha offeso qualcuno ci scusiamo». Due o tre applausi, sopraffatti dal grido «Allah hu akbar». Troppo per Milano, anche secondo il vicesindaco Riccardo De Corato: «Ora basta cortei pro Hamas, quattro in sette giorni sono già troppi. Milano non è una provincia della Palestina e tanto meno ha voglia di istituire forzatamente questa sorta di “sabato di Gaza”». «Milano - ha aggiunto il vicesindaco - non può essere ostaggio di queste continue manifestazioni come se fosse un’appendice dei territori palestinesi».
Luciano Gulli - " Pioggia di volantini dell'esercito israeliano. Ora l'attacco più duro "
nostro inviato a Gerusalemme Da terra, dal mare, dal cielo. Senza un attimo di respiro. Ci sono momenti della giornata, quando il fuoco si fa più rabbioso, in cui il cielo sopra Gaza somiglia alla volta di un'officina da cui si levano fumi di pece. I cingoli dei carri armati di Tsahal passano ormai anche sullo shabat, il sacro giorno del riposo per gli ebrei, mentre gli artificieri di Hamas continuano a sparare i loro razzi e i loro missili su Ashkelon e le altre cittadine costiere. Lo shabat, come ha denunciato il portavoce dell'Agenzia dell'Onu per i rifugiati, Chris Gunner, vale solo per i convogli che recano aiuti umanitari, nessuno dei quali è stato autorizzato oggi a entrare nel teatro dei combattimenti. Si è sparato anche durante le tre ore di tregua in vigore da giovedì, concesse agli assediati per tirare il fiato e correre a rifornirsi di acqua potabile, di generi alimentari, di combustibile e di pile per riscaldare le loro abitazioni e avere un po' di luce in queste notti lunghissime, angosciose, squassate da bombardamenti continui. Adnan Abu Hasna, portavoce dell'Unrwa a Gaza, indica in 27.500 i profughi che si sono rifugiati nelle scuole e negli edifici dell'Onu. Da critica che era, la situazione si va facendo insostenibile, denuncia l'Onu. Mancano cibo, vestiti, coperte, ma soprattutto acqua, e i convogli che affluiscono dal valico di Kerem Shalom sono la classica goccia nel mare. Per i «cacciatori di teste» israeliani la giornata è stata particolarmente propizia. Nella loro rete sono caduti altri due colonnelli di Hamas: Shams Omar, uno dei capi delle brigate Al Quds, ed Emir Mansi, che secondo la radio militare sovrintendeva ai lanci di razzi Grad da 122 millimetri verso Israele. Si spara e si muore. Ma da domani andrà peggio, assicura la propaganda israeliana. Questo c'è scritto sui volantini fatti cadere ieri a pioggia su Gaza. «Abbandonate gli edifici in cui sapete che ci sono concentrazioni di armi o di miliziani. La guerra sta per entrare in una nuova fase», c'è scritto. E non c'è bisogno di sofisticati analisti per capire che quei volantini annunciano combattimenti casa per casa, rastrellamenti condotti a raffiche di mitra. La battaglia sul terreno, per Hamas, non è tuttavia meno disperata di quella che si combatte sui tavoli della diplomazia. Consigliati dai loro suggeritori libanesi di Hezbollah, i dirigenti di Hamas puntano disperatamente i piedi contro ogni ipotesi di tregua. Pochissimo piace soprattutto quell'ipotesi di cessate il fuoco alla quale sta lavorando il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen al Cairo. Ipotesi che prevede l'impiego di un contingente di osservatori internazionali il cui compito sarebbe quello di impedire il traffico di armi lungo la frontiera con l'Egitto. Nessuna tregua, ribatte ovviamente Hamas, che al Cairo ha inviato due delegazioni (anche per ricordare al presidente dell'Autorità che Hamas non si sente rappresentata da lui: un po' perché non è stata preventivamente consultata, e un po' perché lo considera decaduto dall'incarico). Chi tiene il conto delle vittime dell'operazione Piombo fuso dovrà aggiungere al bilancio i 15 miliziani e gli otto civili, tutti appartenenti alla stessa famiglia, stando a testimoni oculari, uccisi nel campo profughi di Jabalija. Otto morti di cui Israele, nel quotidiano gioco a scaricabarile, nega ogni responsabilità.
Ci sono invece voci, non confermate, secondo cui la massiccia operazione militare israeliana avrebbe raffreddato gli entusiasmi di parecchi miliziani, che starebbero gettando la mimetica e il mitra alle ortiche. Ma ogni guerra ha i suoi disertori. Stando al volume di fuoco e alla capacità missilistica dispiegata da Hamas viene piuttosto voglia di dar retta al quotidiano di Beirut Al Akhbar, secondo cui Hamas possiede riserve di armi per tre mesi. Il che giustifica la riluttanza di Israele, decisa a scassare la macchina militare degli avversari, ad ogni ipotesi di tregua.
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