Sul FOGLIO di oggi, 12/01/2009, servizi da Gerusalemme con una analisi su Abu Mazen, dall'inviato Toni Capuozzo che segue il conflitto, da New York Christian Rocca commenta le risoluzioni del Senato e dell'Onu.
" Le processioni di Allah "
Mentre ancora ci s’interroga con qualche reticenza o maldicenza di troppo sulla visibilità del cristianesimo nella società, nella cultura e nella temperie di guerra che oppone la democrazia israeliana all’islamismo terroristico asserragliato a Gaza, una stupefacente coda di cometa fondamentalista ha cominciato a occupare lo spazio pubblico delle nostre città. Piazza Duomo a Milano e San Petronio a Bologna, otto giorni fa, e ieri di nuovo le arterie milanesi fino all’atrio della stazione centrale, sono diventate l’oggetto di guerriglia santa praticata dall’islam che brucia le bandiere ebraiche, inneggia ai tagliagole e all’Intifada palestinese, e correda l’esibizione muscolare con una preghiera di massa che pare una solenne rassegna marziale. Perché di questo, ormai, si tratta: i filari di corpi musulmani dislocati nei luoghi simbolo della vita civile e religiosa occidentale, ordinati con potente perizia paramilitare, ci segnalano un salto di livello nella strumentalizzazione fisica della libertà di preghiera e di espressione. Le moltitudini dei maomettani islamisti inginocchiati di fronte al simulacro invisibile della loro divinità, troppo spesso assunta come fonte di legittimazione per azioni intolleranti e omicide, sono il segno di una volontà precisa. La volontà di utilizzare il linguaggio della preghiera collettiva per perimetrare luoghi e tempi e riconsacrarli politicamente con il fuoco delle bandiere arse, con il ritmo delle litanie di guerra cadenzate come fossero il richiamo di un muezzin, e con l’effetto di trasformare un gesto cultuale nella promessa della sua imposizione.
" Più è agli sgoccioli, più Abu Mazen il Grigio diventa necessario "
Gerusalemme. E’ diventato presidente dopo cinque anni di Intifada e la morte dello storico leader palestinese, Yasser Arafat. Arriva al potere in un momento in cui i suoi concittadini sono completamente disorientati e stanchi delle lunghe violenze. Il suo mandato scade in tempi non meno turbolenti, nel mezzo di un’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza che non sembra vicina al termine. Mahmoud Abbas è il presidente palestinese dal 2005, il capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e il leader di Fatah. Abu Mazen, il padre di Mazen, il figlio ingegnere morto a 42 anni in Qatar, è il suo nome di battaglia. Il signore dall’aria grigia e noiosa non è la prima scelta di nessun elettore palestinese, ma è per tutti il successore naturale del rais: per una popolazione stanca e logorata dall’Intifada; per i miliziani che cercavano un uomo capace di negoziare un cessate il fuoco; per la borghesia commerciale che sperava di vedere ripartire gli affari; per i rifugiati e la diaspora, che guardavano all’uomo di Safed, città a Nord d’Israele, nella speranza che sapesse difendere il diritto di ritorno; per Israele e gli Stati Uniti, che hanno visto nella sua elezione l’avvento di una leadership moderata, capace di impegnarsi per la realizzazione della cosiddetta road map, dopo il fallimento di Camp David. “E’ un politico senza una base genuina, diventato un politico senza un’effettiva opposizione”, ha scritto di lui Le Monde Diplomatique. La sua debolezza è diventata la sua forza. E’ l’uomo giusto, o l’unico su piazza, per la poltrona che Arafat lascia vacante. Debole, è l’aggettivo che negli anni è stato associato il maggior numero di volte al nome del rais Abu Mazen. La presenza fisica e la retorica del suo predecessore sono state sostituite dopo la sua elezione da toni pacati, parole rarefatte, linguaggio di tutti i giorni. Abu Mazen è un musulmano devoto, prega cinque volte al giorno e digiuna a Ramadan. Per questo, i vertici di Hamas e quelli del jihad islamico lo rispettano. Ma la politica e la religione per il presidente restano due mondi separati. Il suo asset principale è la credibilità internazionale, che gli ha dato forza anche in casa: tutti i palestinesi sanno che senza l’appoggio degli Stati Uniti non ci sarà soluzione al conflitto. Oggi, i leader di Hamas che lo hanno inizialmente tollerato per aver ottenuto una tregua tra il loro movimento, il jihad islamico e Israele nei primi giorni della sua presidenza, hanno fatto sapere che non considerano più valida la sua autorità dal 9 gennaio. L’operazione a Gaza ha cambiato le carte in tavola: anche Hamas sa che ora non può fare a meno del rivale. Il rais senza base e senza opposizione è anche il leader dei conflitti. Prima di sedere sulla poltrona presidenziale, Abu Mazen è stato primo ministro. Dal marzo a ottobre 2003, quando dà le dimissioni: ufficialmente per mancanza di sostegno da parte di Israele e Stati Uniti; in realtà per gli scontri con Arafat, che fatica a la sciargli libertà di movimento. Mahmoud, figlio di Mohammed Abbas nasce nel 1935 nella Palestina del mandato britannico, in Galilea, a Safed, una della quattro città sante del giudaismo assieme a Gerusalemme, Hebron e Tiberiade. Suo padre aveva una piccola bottega polverosa nel mercato centrale. Vendeva sottoaceti, semi di girasole e conserve. Ma i soldi arrivavano dal gregge di pecore che la famiglia possedeva nel vicino villaggio di Zangariya, oggi il moshav Elifelet. Vendevano formaggio ai vicini ebrei. A Safed ancora oggi la leggenda popolare vuole che l’antica casa in pietra bianca del rais Abu Mazen sia diventata la filiale del partito di destra israeliano, Likud; per altri è una yeshiva, una scuola religiosa ebraica; per altri ancora è stata distrutta nel 1948. Quell’anno, la famiglia si rifugia in Siria. Abu Mazen studia Legge a Damasco, al Cairo e ottiene un dottorato a Mosca dove scrive una controversa tesi “La connessione segreta tra nazismo e i leader del movimento sionista” per la quale è ancora accusato di aver voluto negare l’Olocausto. Inizia a lavorare in Qatar, negli anni Cinquanta. E’ qui che comincia il suo attivismo nella politica palestinese. Tra i fondatori di Fatah con Arafat, accompagnerà il leader in esilio: Giordania, Libano, Tunisia. Il legame tra i due, nonostante gli anni di vita politica comune, deteriora fino allo scontro. Nel 2003 israeliani e americani non vogliono più negoziare con il vecchio leader. E’ allora che emerge Abu Mazen come figura di moderato e possibile interlocutore. Le pressioni internazionali lo fanno primo ministro. La mossa non è facile: Arafat non molla il potere creando importanti difficoltà al “collega”. Morto il rais simbolo della causa palestinese, nel 2004, non si chiude l’era degli scontri interni. Abu Mazen è ripetutamente accusato di non dare spazio alla nuova guardia di Fatah: uomini vicini al leader dei Tanzim, Marwan Barghouti, in carcere a scontare cinque ergastoli, e fedeli a Mohammed Dahlan, controverso capo della Sicurezza ed ex uomo forte della Striscia di Gaza. Ma non soltanto: Hamas e il jihad islamico sono compiaciuti dalla tregua ottenuta con Israele dal nuovo presidente eletto nel frattempo, con il 62 per cento delle preferenze e il boicottaggio elettorale del movimento islamista. Ma pochi giorni prima, Abu Mazen dichiara al giornale panarabo Sharq al Awsat che “l’uso delle armi è dannoso e deve finire”. Arriva al potere chiedendo la fine delle violenze, in completa contraddizione con i piani di altri gruppi palestinesi, gli stessi con cui i suoi uomini combatteranno in armi soltanto due anni dopo. Pragmatismo contro la linea estremista. Nonostante la tregua, non cessano gli attacchi contro Israele, soprattutto da parte del jihad islamico. Ma il rais continua a non far nulla per il disarmo dei gruppi armati, tra cui il braccio del suo Fatah, le Brigate dei martiri al Aqsa. Israele e la comunità internazionale accusano il presidente di opporre resistenza allo smantellamento delle infrastrutture terroristiche. Lo scontro con gli estremisti Nell’estate dello stesso anno, Israele si ritira da Gaza unilateralmente. Il leader non può far altro che annunciare un attento coordinamento con la controparte. L’opportunità è grande e le aspettative anche: una territorio amministrato dall’Autorità nazionale che attiri turisti e investimenti arabi e stranieri. L’euforia generale dura poco. La nuova sfida per il rais arriva dalle urne. Hamas vince le elezioni, nel gennaio del 2006. La comunità internazionale chiude ai palestinesi i rubinetti degli aiuti: il gruppo è nella lista dei movimenti terroristici dell’Unione europea e degli Stati Uniti. Abu Mazen ha le mani legate. Il presidente dà dieci giorni al movimento islamista per accettare i previ accordi siglati dall’Anp con Israele. Niente da fare. L’ultimatum è posticipato diverse volte, assieme alla minaccia di indire prima un referendum, poi elezioni anticipate. A dicembre iniziano gli scontri armati: a Gaza si combatte nelle strade, palestinesi contro palestinesi, Hamas contro Fatah. Nel maggio 2007 in venti giorni muoiono cinquanta persone nella Striscia. Non serve a nulla l’interven-to della comunità internazionale, dei paesi arabi, dell’Arabia Saudita che prova a mediare alla Mecca. Né funziona la creazione di un governo d’unità nazionale guidato da un uomo di Hamas: Ismail Haniyeh. A giugno, in meno di una settimana, il gruppo islamista con un coup militare, conquista metro per metro la Striscia di Gaza. Abu Mazen dissolve l’esecutivo e dichiara lo stato d’emergenza. Nomina un suo uomo, un tecnocrate vicino all’America, Salam Fayyad, a guida di quel governo. La mossa, secondo la carta palestinese, è illegale. La frattura tra i palestinesi rimane. Sotto i bombardamenti israeliani, il movimento islamista ha accusato Abu Mazen, in controllo ormai soltanto della Cisgiordania, di essere mandante dell’operazione Piombo Fuso. Il rais ha sottolineato le responsabilità dei rivali che non hanno voluto rinnovare la tregua e hanno imposto ai civili una guerra. Ci lasciano la Striscia, e voi cosa fate? Abu Mazen il debole, il presidente dalla retorica smussata, nei mesi dopo la presa di potere di Hamas a Gaza, con le spalle ben coperte dalla comunità internazionale, ha saputo alzare i toni contro il gruppo al potere nella Striscia: ha condannato la repressione di Hamas sull’opposizione di Fatah per le strade di Gaza (arresti arbitrari, manifestazioni proibite, secondo le organizzazioni per i diritti umani, torture contro i rivali politici). In passato aveva già alzato la voce contro i rivali: “Ci hanno lasciato la Striscia, voi avete iniziato a tirare razzi”, aveva detto con rabbia in un discorso. In Cisgiordania, Hamas entra in clandestinità. Le forze di sicurezza chiudono le associazioni di beneficenza legate al gruppo, imprigionano i suoi membri. Intanto il presidente guadagna credito internazionale. Israele mostra progressivamente la volontà di dare maggiore credibilità alla controparte “dialogante” e rafforza il potere zoppo di Abu Mazen con una serie di concessioni: consegna per esempio alcune città della Cisgiordania alla polizia palestinese addestrata da giordani e dall’Unione europea. Il presidente ha però moneta di scambio: molti uomini armati delle milizie di Al Fatah depongono le armi in cambio di immunità. Ma il rais fallisce in casa ogni tentativo di riunificazione e non riesce a imporre il proprio controllo sul movimento: i palestinesi restano divisi geograficamente e politicamente. Fino a pochi giorni fa, Hamas voleva il presidente fuori dai giochi, per eliminare l’unico interlocutore credibile a disposizione d’Israele; oggi potrebbe forse averne bisogno. “La soluzione è nelle mani di Abu Mazen”, ha scritto Sharq al Awsat. Come fu il governo libanese di Fouad Siniora a scendere in campo negoziando un cessate il fuoco nel 2006 mentre Hezbollah lanciava razzi su Israele, così, sostiene il giornale, è soltanto il presidente ad avere la possibilità di sedere al tavolo delle trattative e mettere fine ai combattimenti.
Toni Capuozzo - "Il silenzio di chi fa la guerra "
CAPUOZZO Ashkelon. Dopo il quarto o quinto posto di blocco abbiamo trovato una strada che piegava a destra, e dunque verso Gaza, libera. E l’abbiamo presa, come fossimo due turisti attirati dal cartello giallo che prometteva qualche curiosità archeologica o naturalistica, questo non era chiaro. Dopo duecento metri ci hanno fermato, e siamo tornati indietro, con la consolazione che a farci fare dietrofront era stato un giovane soldato che, quando ha visto il tesserino stampa, ha sorriso chiedendo se fossimo di Canale 5. Famiglia di Ferrara, ma ormai pochissime parole di italiano. Gli ho citato il “Giardino dei Finzi Contini”, ma non sono sicuro abbia capito. Siamo tornati indietro e mentre pensavo che mancano meno di tre settimane alla Giornata della memoria, e mi chiedevo che giornata sarà, ho visto un gruppo di soldati che faceva capannello intorno a un tavolino, all’aperto. Siamo scesi dall’auto, con la telecamera, e nessuno ha chiesto di non essere ripreso. Dietro al tavolino c’era un civile con un po’ di arnesi sparsi in mezzo a un mucchio di scatole di cartone. Era il tecnico di una compagnia di telefonini israeliana, che ha mandato un piccolo laboratorio ambulante lungo la frontiera a riparare i telefonini guasti e a regalarne di nuovi, quando non si possono aggiustare. Il risultato era che nel prato lì attorno gironzolavano una decina di soldati che finalmente chiamavano casa, genitori o figli, ragazze o amici, in un brusio incomprensibile e felice. Approfittando dell’occasione, mi sono messo accanto al tecnico, dalla sua parte del tavolino, e ho chiesto se qualcuno potesse spiegare in due parole, a un’opinione pubblica internazionale confusa e divisa, perché erano lì. Mi hanno guardato tutti, ma soltanto uno ha detto, scusandosi, che non avevano voglia di rispondere. Non è diffidenza, e neanche indifferenza. E’ soltanto che sono convinti di non essere capiti. So già quello che mi avrebbero detto: che faresti se una parte del tuo paese finisse sotto i missili un giorno sì e l’altro pure? So già che se gli avessi chiesto del cessate il fuoco rigettato mi avrebbero risposto che non vogliono tornare al punto di partenza. So anche quello che mi avrebbero risposto seHamas che se ne fa scudo. Ma non mi hanno detto nulla, e sono rimasto lì a guardare loro e i telefonini, mentre dalla skyline di Gaza City si alzava una nuvola densa di fumo nero. Non sono un fanatico dell’equidistanza – non metterei mai sullo stesso piano Israele, che vuole la cessazione del lancio dei Qassam, e Hamas, che vuole la cancellazione di Israele – ma la distanza mi piace. So come funzionano le agenzie delle Nazioni Unite, da queste parti, e come facciano ormai parte della società civile palestinese, con le loro migliaia di impiegati locali e i funzionari che si sono umanamente assimilati. So come funziona il giornalismo palestinese – non hanno un’Amira Hass, la sua indipendenza è un lusso ebraico – e so come funziona la propaganda dell’orrore, ho visto troppi corpi trascinati nei funerali come un trofeo impudico. Ma tutte le barriere che Israele ha posto al nostro lavoro di cronisti, con la ferma gentilezza di chi ti tiene distante, mi sembrano il monumento di una incomunicabilità, eretto da chi sa che non sarà protetto e salvato da noi – né dall’assedio che lo cinge, né dai suoi stessi errori, dalle sue stesse cadute – che dovrà fare da solo, nel proteggere i suoi cittadini. Nel farlo, Israele ha sicuramente messo nel conto l’ondata di proteste internazionali, il prezzo d’immagine da pagare. Probabilmente ha pensato che era il prezzo minore, altrimenti sarebbe continuato tutto come prima. Mi fa male, questa specie di autismo di Israele, perché rivela che ci dà per persi, e dunque si sente perduto, e deve fare da solo. Ma lo capisco, quando penso a come ce la caveremo, fra tre settimane, con la giornata della memoria, e le sue ipocrisie. Mi fa peggio pensare che il prezzo pagato sia anche, per Israele, accettare una proporzione inaccettabile fra vittime civili e vittime combattenti. Perché questo, ancora prima che la sua notizia, rivela una disperazione solitaria. Ed è la distanza peggiore, fra noi accampati sulla collina, su cui adesso sono spuntate le tende ed è stato adottato un cucciolone nero che dorme nelle lunghe borse imbottite dove prima o poi verranno ripiegati i treppiedi, e loro, che non hanno voglia di parlare.
Christian Rocca - " Leggete questi due testi, si capisce tutto "
I due documenti pubblicati in questa pagina non possono essere più diversi. Il primo, è il testo di sostegno pieno, vigoroso e bipartisan a Israele nella sua lotta contro il terrorismo di Hamas, approvato all’unanimità dal Senato americano e con soli cinque voti contrari dalla Camera dei rappresentanti di Washington. Il secondo, qui sotto, è la risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu 1.860 che chiede a Israele di ritirare le truppe da Gaza, senza fare alcun riferimento ai missili lanciati sulle città israeliane e nemmeno all’organizzazione islamica Hamas che ha condotto un colpo di stato in Palestina, violato la tregua e lanciato per mesi migliaia e migliaia di missili contro i civili israeliani. Il testo dell’Onu è stato approvato con l’astensione degli Stati Uniti, pare indecisi fino all’ultimo se approvare il testo (posizione di Condoleezza Rice) o rifiutarlo con il veto (posizione di Dick Cheney). George W. Bush, infine, ha deciso per l’astensione in modo da lasciare spazio all’iniziativa di pace egiziana e perlomeno soddisfatto dall’aggettivo “duraturo” posto accanto al “cessate il fuoco” unilaterale richiesto dall’Onu. Da una parte c’è un testo politico approvato alla quasi unanimità dalla più grande democrazia del mondo, in questo momento guidata dal Partito democratico. Dall’altra c’è l’ennesima dimostrazione del pregiudizio anti israeliano di un’organizzazione internazionale che non è più soltanto inutile quando c’è da difendere i diritti umani e la convivenza pacifica dei popoli, ma addirittura dannosa ogni volta che di mezzo c’è Israele. Il pregiudizio anti israeliano e il razzismo antiebraico dell’Onu, malgrado Israele sia stato fondato da una risoluzione delle Nazioni Unite del 1947, è ormai leggendario e un’altra prova si avrà tra qualche giorno a Ginevra, quando le peggiori dittature e teocrazie del mondo proveranno a trasformare un documento Onu contro il razzismo ancora una volta in un atto d’accusa contro Israele, esattamente come è successo a Durban, in Sudafrica, nel 2001. Non è una novità. Israele è l’unico paese dell’Assemblea Generale a cui non è consentito entrare nel Consiglio di Sicurezza e le Nazioni Unite hanno un’organizzazione apposita, Unrwa, che gestisce il problema dei rifugiati palestinesi con regole diverse da quelle seguite dall’Unhcr che si occupa dei rifugiati del resto del mondo. L’Unhcr riesce a diminuire il numero dei rifugiati, l’Unrwa fa di tutto per moltiplicarli e per perpetuare la loro miseria in modo da usarla come arma politica contro Israele. La scelta bushiana di astenersi dalla risoluzione 1.860 è stata giudicata un tradimento dai sostenitori del diritto alla difesa di Israele. A confortarli ci sono la decisione del Congresso e le parole di Barack Obama ribadite venerdì pomeriggio dalla sua portavoce, ma ignorate dalla stampa internazionale: “Il presidente eletto ha ripetutamente detto che crede che Hamas sia un’organizzazione terroristica concepita per distruggere Israele e che non dobbiamo trattare con loro fintanto che non riconoscano Israele, rinuncino alla violenza e rispettino gli accordi del passato”.
" Ecco che cosa dice il Congresso di Washington "
Il testo della mozione approvata a Capitol Hill. Riconoscendo il diritto di Israele a difendersi contro gli attacchi provenienti da Gaza, riaffermando il forte sostegno degli Stati Uniti a Israele nella sua battaglia contro Hamas e sostenendo il processo di pace israelopalestinese. Considerato che Hamas è stata fondata con l’obiettivo dichiarato di distruggere lo stato di Israele; Considerato che Hamas è stato indicato dalla segreteria di stato come un’organizzazione terroristica straniera; Considerato che Hamas ha rifiutato di conformarsi alle richieste del Quartetto (Stati Uniti, Unione europea, Russia e Nazioni Unite) che chiedevano ad Hamas di riconoscre il diritto di Isralele a esistere, di rinunciare alla violenza e acconsentire ad accettare i precedenti accordi fra Israele e i palestinesi; Considerato che, nel giugno 2006, Hamas ha sconfinato nei territori di Israele, ha attaccato le forze israeliane e ha rapito il caporale Gilad Shalit, che ancora oggi continua a trattenere; Considerato che Hamas ha lanciato migliaia di razzi e colpi di mortaio da quando Israele ha smantellato gli insediamenti e si è ritirato da Gaza nel 2005; Considerato che Hamas ha aumentato la portata dei suoi razzi, secondo i resoconti con il sostegno dell’Iran e di altri, aumentando ulteriormente il grande numero di israeliani messi in pericolo dagli attacchi missilistici provenienti da Gaza; Considerato che Hamas colloca elementi della sua infrastruttura terroristica nei centri della popolazione civile, usando così civili innocenti come s c u d i umani; Considerato che il segretario di stato Condoleezza Rice ha detto in una dichiarazione il 27 dicembre 2008 che “condanniamo con forza i ripetuti attacchi missilistici e di colpi di mortaio contro Israele e riteniamo Hamas responsabile di aver rotto il cessate il fuoco e di aver ripreso le violenze nell’area”; Considerato che il 27 dicembre 2008 il primo ministro di Israele Ehud Olmert ha detto: “Per circa sette anni, centinaia di migliaia di cittadini israeliani nel sud hanno sofferto a causa dei missili che gli venivano lanciati contro … In tale situazione non avevamo nessuna alternativa se non quella di rispondere. Non siamo felici di combattere, ma non saremo nemmeno dissuasi dal farlo… L’operazione nella Striscia di Gaza è progettata, in primo luogo, per apportare un miglioramento alla sicurezza dei residenti del sud del paese”; Considerato che il 2 gennaio del 2009 il segretario di stato Rice ha dichiarato che “Hamas ha tenuto in ostaggio la popolazione di Gaza a partire dal colpo di stato contro le forze del presidente Abu Mazen, il presidente legittimato del popolo palestinese. Hamas ha usato Gaza come piattaforma di lancio per i razzi diretti contro le città israeliane e ha contribuito profondamente a dare alla popolazione palestinese a Gaza una vita quotidiana molto brutta, e a una situazione umanitaria per la quale tutti noi abbiamo cercato di impegnarci”; Considerato che la situazione umanitaria a Gaza, comprese la carenza di cibo, quella di acqua, di elettricità e di adeguata assistenza medica si sta aggravando; Considerato che Israele ha reso possibili gli aiuti umanitari a Gaza con oltre 500 autocarri e numerose ambulanze che sono entrate nella Striscia di Gaza dal 26 dicembre 2008; Considerato che il 2 gennaio 2009 il segretario di stato Rice ha dichiarato che è stato “Hamas che ha rifiutato le richieste egiziane e arabe di estendere la ‘tahadiya’ (tregua) che l’Egitto ha negoziato” e che gli Stati Uniti stavano “lavorando in direzione di un cessate il fuoco che non avrebbe permesso un ripristino dello status quo precedente nel quale Hamas potesse continuare a lanciare razzi da Gaza. E’ ovvio che il cessate il fuoco debba avvenire il prima possibile, ma abbiamo bisogno di un cessate il fuoco che sia duraturo e sostenibile”; Considerato che lo scopo finale degli Stati Uniti è una risoluzione sostenibile del conflitto israelo-palestinese che permetterà che uno stato palestinese realizzabile e indipendente viva fianco a fianco in pace e sicurezza con lo stato di Israele, cosa che non potrà essere possibile fino a quando i civili israeliani restano sotto le minacce provenienti dall’interno di Gaza: Ora, quindi, si stabilisce che il Senato – 1) esprime un sostegno forte e un impegno risoluto nei confronti del benessere, della sicurezza e della sopravvivenza dello stato di Israele come uno stato ebraico e democratico con confini sicuri e riconosce i suoi diritti ad agire come auto difesa per proteggere i suoi cittadini contro le azioni terroristiche; 2) ribadisce che Hamas deve terminare gli attacchi missilistici e il lancio di colpi di mortaio contro Israele, riconoscere il diritto di Israele a esistere, rinunciare alla violenza e acconsentire ad accettare i precedenti accordi fra Israele e i palestinesi; 3) incoraggia il presidente a lavorare attivamente per sostenere un cessate il fuoco duraturo, realizzabile e sostenibile a Gaza, appena possibile, che impedisca a Hamas di conservare o recuperare la capacità di lanciare razzi e colpi di mortaio contro Israele e permetta i miglioramenti a lungo termine delle condizioni di vita quotidiane della gente comune di Gaza; 4) crede fermamente che le vite di civili innocenti debbano essere protette, che debbano essere prese tutte le misure appropriate per diminuire le vittime civili e che tutti i soggetti coinvolti debbano continuare a lavorare per gestire le necessità umanitarie a Gaza; 5) sostiene e incoraggia i tentativi di diminuire l’attrattiva e l’influenza degli estremisti nei territori palestinesi e di rafforzare i palestinesi moderati che sono impegnati per una pace sicura e duratura con Israele; 6) ribadisce il suo forte sostegno ai tentativi del governo degli Stati Uniti di promuovere una giusta risoluzione del conflitto israelo-palestinese attraverso un processo di pace serio e prolungato che porti alla creazione di uno stato palestinese realizzabile e indipendente che viva in pace di fianco a uno stato di Israele in condizioni di sicurezza.
" Ecco la risoluzione 1.860 delle Nazioni Unite "
Il Consiglio di sicurezza, richiamando tutte le sue risoluzioni attinenti, incluse le risoluzioni 242 (1967), 338 (1973), 1.397 (2002), 1.515 (2003) e 1.850 (2008); Sottolineando che la Striscia di Gaza costituisce parte integrante dei territori occupati nel 1967 e sarà parte dello stato palestinese; Enfatizzando l’importanza della sicurezza e del benessere di tutti i civili; Esprimendo forte preoccupazione per l’aumento della violenza e il deterioramento della situazione, in particolare per le gravi perdite fra i civili seguite al rifiuto di estendere il periodo di tregua, ed enfatizzando che la popolazione civile palestinese e quella israeliana devono essere protette; Esprimendo forte preoccupazione di fronte al peggioramento della crisi umanitaria a Gaza; Enfatizzando la necessità di garantire un flusso prolungato e regolare di beni e persone attraverso i valichi di Gaza; Riconoscendo il ruolo vitale esercitato dall’Unrwa nel fornire assistenza umanitaria ed economica all’interno di Gaza; Ricordando che una soluzione duratura per il conflitto israelo-palestinese può essere raggiunta unicamente attraverso mezzi pacifici;Riaffermando il diritto di tutti gli stati nella regione di vivere in pace, all’interno di confini sicuri e riconosciuti internazionalmente, 1) Chiede, e ne sottolinea l’urgenza, di un cessate il fuoco immediato, duraturo e pienamente rispettato, che conduca al completo ritiro delle forze israeliane da Gaza; 2) Richiede il libero approvvigionamento e la distribuzione di assistenza umanitaria in ogni parte di Gaza, inclusi cibo, combustibili e cure mediche; 3) Accoglie con favore le iniziative atte a creare e aprire corridoi umanitari e altri meccanismi per la consegna costante di aiuti umanitari; 4) Chiede agli stati membri di sostenere gli sforzi internazionali per alleviare la situazione umanitaria ed economica a Gaza, incluso attraverso contributi aggiuntivi estremamente necessari all’Unrwa e attraverso il Comitato ad hoc di collegamento; 5) Condanna tutti gli atti di violenza e ostilità diretti contro la popolazione civile e tutti gli atti di terrorismo; 6) Chiede agli stati membri di intensificare gli sforzi per raggiungere accordi e fornire garanzie a Gaza al fine di sostenere un cessate il fuoco duraturo, che permetta anche di prevenire il traffico illecito di armi e munizioni e assicurare la riapertura dei varchi sulla base dell’Accordo su movimento e accesso stipulato nel 2005 dall’Autorità palestinese e da Israele; e, a questo proposito, accoglie favorevolmente l’iniziativa egiziana e gli altri tentativi in corso, a livello regionale ed internazionale; 7) Incoraggia il compimento di passi tangibili nella direzione di una riconciliazione fra palestinesi, compresi i tentativi di mediazione dell’Egitto e della Lega araba, come espresso nella risoluzione del 26 novembre 2008 e coerentemente con la risoluzione 1.850 (2008) del Consiglio di sicurezza e altre risoluzioni pertinenti; 8) Chiede nuovi e urgenti sforzi delle parti coinvolte e della comunità internazionale per raggiungere un accordo di pace esaustivo basato sulla visione di una regione in cui due stati democratici, Israele e Palestina, vivano fianco a fianco in pace con confini sicuri e riconosciuti, come previsto dalla risoluzione 1.850 (2008) del Consiglio di sicurezza, e richiama anche l’importanza dell’Iniziativa araba di pace; 9) Accoglie favorevolmente la proposta del Quartetto, in consultazione con le parti, di un incontro internazionale a Mosca nel 2009; 10) Decide di mantenere il tema nella propria agenda.
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