Sulla STAMPA di oggi, 10/01/2009, due servizi di Francesca Paci a pag. 6-7. Il primo sulla situazione di Abu Mazen dopo il rinvio elettorle. Il secondo riferisce correttamente la natura e l'uso dei tunnel, far entrare armi a Gaza. Eppure, Francesca Paci non rinuncia e presentarli come se fossero collegati all'emergenza umanitaria, come se attraverso i tunnel entrassero viveri e non invece armi e contrabbando di generi di consumo di certo non legati al fabbisogno di cibo della Striscia. Del tutto fuori posto il titolo, che dà a questi criminali un'aura da intemerati guerriglieri, < uomini topo >, figurarsi ! Ma per il titolo non è responsabile la corrispondente, ma il desk esteri della STAMPA, da noi criticato molte volte. A riconferma, riportiamo il sottotitolo " La ragnatela di cunicoli che porta armi e cibo è in cima agli obiettivi israeliani. Ma la Striscia è l'unica risorsa per poter sopravvivere all'accerchiamento ", cosa che non è nemmeno scritta nell'articolo !
" Abu Mazen, il giallo del mandfato scaduto "
Non sono una grande simpatizzante di Al Fatah, ma credo che oggi il popolo palestinese abbia un solo presidente, il dottor Abu Mazen», afferma Hanan abu Zneid, 23, studentessa di legge all'università di Bir Zeit, sorseggiando tè alla menta al banco dello Stars and Bucks Café, versione palestinese del celebre marchio di Seattle Starbucks nel cuore di Ramallah. A meno di centro chilometri di distanza, nella Gaza al quattordicesimo giorno di assedio, l'altra metà del popolo palestinese ha qualcosa da ridire: «Abu Mazen? Ci aspettiamo di vederlo arrivare da un momento all'altro sui carri armati israeliani» dice il fornaio Hatem B. mentre le bombe continuano a bersagliare la periferia di Rafah dove vive con la moglie e 11 figli.
La scadenza del mandato di Abu Mazen è da tempo motivo di polemiche tra Hamas e al Fatah. I primi rifiutano di riconoscersi nel responsabile dell'Autorità Nazionale il cui incarico, sostengono, si è concluso ieri, 9 gennaio 2009, ultimo giorno dei quattro anni previsti dalla Legge fondamentale palestinese. Gli altri obiettano che le elezioni politiche e presidenziali devono svolgersi nello stesso momento, vale a dire tra un anno. Disputa insolubile in assenza di un tribunale superiore che possa dirimere la questione.
Abu Mazen resterà al suo posto, assicurano alla Muqata, il quartier generale dell'Autorità Palestinese. Se non fosse per l'eco degli scontri tra i simpatizzanti di Hamas e al Fatah, venuti alle mani in piazza Al Manar, un paio d'isolati da qui, sarebbe un venerdì come gli altri, con una coppia di giannizzeri di guardia davanti alla tomba di Yasser Arafat e la bandiera nera, bianca, verde, rossa, issata sopra l'ufficio del presidente.
«La polizia di Abu Mazen ha picchiato i dimostranti, manifestavamo per i fratelli di Gaza e siamo stati attaccati dai fratelli di Fatah», dice Kaled, 20 anni, la koefia avvolta intorno alla testa come un turbante. Duro destino per Abu Mazen avere un destino. L'ex studente del Collegio Orientale di Mosca orgoglioso della propria tesi, «La connessione tra nazismo e sionismo, 1933-1945», bollato oggi come traditore per essere passato tra le fila del nemico israeliano dopo essere stato eletto successore di Yasser Arafat e aver ereditato i cocci del processo di pace.
«La sorte di Abu Mazen è nelle mani d'Israele», scrive l'editorialista di Haaretz Akiva Eldar. «La guerra di Gaza offre agli israeliani l'opportunità di decidere se Abu Mazen perderà o meno la sua legittimità sulla nazione palestinese». Il futuro del presidente palestinese, secondo Eldar, è legato a quello del confine egiziano, la rete sottorranea da cui Hamas ha contrabbandato per mesi armi e informazioni militari: «Coinvolgere l'Autorità Palestinese nel futuro controllo dei tunnel e della frontiera aiuterebbe a ripristinare la presenta di al Fatah a Gaza, componente inalienabile dell'identità palestinese». L'alternativa, per ora, è il caos in cui al momento naviga a naso anche l'intelligence israeliana.
Hamas prende tempo. E non solo in vista dello scontro finale con l'esercito israeliano. Invertendo la rotta rispetto ai proclami bellici dei mesi scorsi, il portavoce del governo di Hamas Taher Nunu fa sapere che il partito islamico al potere a Gaza rinuncia, in questa prima fase, a contestare la presidenza Abu Mazen e tende la mano alla hudna, che in arabo significa tregua. La priorità, tra le gallerie rinforzate in cui si nascondono i leader di Hamas, è l'offensiva israeliana. Costi quel che costi, compreso un accordo temporaneo con i fratelli coltelli di Fatah. Aziz A-Dweik, legittimo candidato alla presidenza secondo Hamas, nonostante sia chiuso in un carcere israliano fino ad agosto, può attendere. Chi preme invece, è la diaspora in esilio a Damasco. Moussa Abu Marzouk, numero due di Khaled Meshal, insiste: «Abu Mazen non rappresenterà il popolo palestinese negli eventuali negoziati». Quali? Certamente non quelli sponsorizzati da Ramallah. \
" I tunnel degli uomini topo "
Quattro mesi fa Abu Said era un uomo felice. Niente a che vedere con l'anno precedente, quando nel pieno della faida tra Hamas e Fatah riusciva a guadagnare anche 150 mila dollari al giorno contrabbandando Kalashnikov e lanciarazzi Rpg. Ma, seppur ridimensionato, il business del tunnel che s'era scavato sotto il confine egiziano continuava a rendere abbastanza da mantenere un'impresa di 12 persone tra operai, mediatori, trasportatori. E' tutto finito, dice al telefono da Khan Younis, al sud della Striscia di Gaza: «I bombardamenti hanno distrutto un terzo dei tunnel, nessuno scende più. La gallina dalle uova d'oro è morta».
Il primo obiettivo dell'operazione «Piombo Fuso» lanciata dall'esercito israeliano il 27 dicembre scorso è fermare il lancio dei razzi sulle città del Negev, ribadisce Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs. Il secondo, «il più importante», la fine del traffico di armi: «Tra il 2005 e il 2006, quando Hamas ha preso il potere, l'arsenale di Gaza è lievitato da 179 a 946 missili, una minaccia intollerabile per la sicurezza israeliana». Dall'inizio dell'offensiva il premier israeliano Olmert ripete il mantra nazionale: «Il nostro risultato dev'essere il blocco effettivo dell'Asse Filadelfi». La via della guerra.
Fucili, mine, proiettili che in gergo vengono chiamati in arabo «bizer», semi. Il corridoio che separa Gaza dall'Egitto è un andirivieni di munizioni inimmaginabile persino per la libanese valle della Beqaa negli anni '70. «Hamas ha impiegato gli ultimi sei mesi, quelli della cosidetta tregua, per importare 80 tonnellate di esplosivo» calcola Mattehw Levitt, direttore dello Stein Program on Counterterrorism del Washington Institute e autore del saggio «The money trail: finding, following and freezing terrorist finances».
À la guerre comme à la guerre. E però, nella Striscia assediata dal 2007, quando Israele e l'Egitto risposero al golpe di Hamas serrando tutti i valichi e costringendo alla chiusura la maggior parte delle 3900 aziende di Gaza, i tunnel sono diventati molto più d'un grande mercato bellico, il duty free della sopravvivenza per un milione e mezzo di persone dipendenti in buona parte dagli aiuti internazionali dove comprare capre, cioccolata, grano, l'ambitissimo viagra e le poderose motociclette cromate cinesi Antewes con cui decine di palestinesi non particolarmente avvezzi hanno sfidato gli sterrati locali uscendone spesso e volentieri ammaccati. Khaled Abu Saleh ha fatto passare da lì la sua futura sposa egiziana.
«Due terzi dei prodotti venduti a Gaza provengono dai tunnel in cui lavorano 12 mila persone» nota l'economista palestinese Omar Shaban. Un giro d'affari sotterraneo da 650 milioni di dollari l'anno che, secondo una ricerca del quotidiano israeliano Ynet ha letteralmente «mantenuto» i 18 mila abitanti di Rafah, la città sulla frontiera egiziana dove tra il 2007 e il 2008 la disoccupazione è scesa dal 50 al 20 per cento.
«A Rafah sono l'unico che non ha mai usato i tunnel e mi ritrovo ugualmente senza casa né negozio», racconta Assad Asana, 25 anni, macellaio da tre generazioni. Urla nel microfono del cellulare per coprire i bombardamenti che continuano a martellare i quartieri a ridosso del confine, Tel Zareb, Al Abur, Brazil dove con la famiglia di trenta persone divideva una palazzina a tre piani ridotta in macerie. Assad è convinto che i raid andranno avanti fino all'ultimo tunnel: «Ne ho contati diciannove in mezz'ora».
Oggi per Israele il nemico è questa rete sotterranea che si dipana nel raggio di 4 chilometri a ridosso del Sinai. Abu Said la conosce palmo a palmo: «Ho scavato il primo tunnel nell'84, avevo 15 anni. Al principio portavamo solo oro e medicine, nel 2000 sono arrivate le armi e il commercio è decollato, la guerra è un business meraviglioso». Sotto la gestione Hamas, rivela l'intelligence israeliana, la ragnatela si è estesa fino a comprendere 500 gallerie lunghe dai 400 ai 900 metri.
«Non esiste soluzione politica ai tunnel, dobbiamo tornare a controllare il terreno con sismografi e radar» sostiene Uzi Dayan, vicecapo di Stato Maggiore noto anche come «mister sicurezza». Nel 2005, prima del ritiro, Israele teneva d’occhio una striscia di 70 metri. Ora c'è Hamas, l'Egitto e, in mezzo, il far west.
La strada è lunga. «Se riusciremo a smantellare la rete del contrabbando a Rafah, la comunità internazionale farà forti pressioni per la riapertura dei valichi» osserva Martin Kramer, analista dell'Adelson Institute for Strategic Studies di Gerusalemme. Chiusa la via della guerra, chiuso il duty free della sopravvivenza. «Per la prima volta vediamo la fame a Gaza» fa sapere da New York Karen Abu Zayd, responsabile dell'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei palestinesi. Ieri Nima Burdeini, casalinga di Rafah, ha cucinato per gli 11 figli purè di pomodori: «Lo hanno mangiato con il cucchiaino».
Come uscire dal labirinto dei tunnel? I mediatori lavorano a un piano che tenga conto dell'indigenza degli uni e della richiesta di sicurezza degli altri. L'Autorità Palestinese, avversaria di Hamas, gradirebbe la presenza di osservatori internazionali a condizione che non s'impiccino troppo, un po' come gli inviati Unifil in Libano. Dal fronte israeliano rispondono con l'idea di un canale pieno d'acqua scavato sotto il confine per la modica cifra di 250 milioni di dollari. Ipotesi creative ma troppo costose avverte Efraim Inbar, direttore del Begin-Sadat Center for Strategic Studies all'università Bar-Ilan di Tel Aviv: «L'unica chance è convincere l'Egitto ad agire contro i propri contrabbandieri».
A Rafah, il vecchio Abu Sufian non si arrende, aspetta che i bombardamenti finiscano per recuperare i suoi quattro tunnel: «S'illudono. Ripartiremo da capo, dovessimo scavare sotto il mare».
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