Da LIBERO del 9 gennaio 2009:
È la prova regina della malafede di Hamas. La dimostrazione che il suo vero obiettivo - al di là della retorica vittimista - non è la nascita di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, bensì la guerra infinita contro Israele.
Tutto parte da una semplice domanda: che ci fanno dei campi profughi palestinesi nella Striscia di Gaza, a inizio 2009? Gli israeliani hanno smantellato i propri insediamenti da più di tre anni e mezzo. Hamas governa su Gaza con pieni poteri da un anno e sette mesi. Eppure un milione di palestinesi della Striscia (due terzi della popolazione) sono ancora relegati in squallide condizioni nei campi per rifugiati. Emarginati in una riserva malsana da quegli stessi connazionali che accusano Olmert d’aver reso Gaza un carcere a cielo aperto.
Malgrado la celebrata «cacciata degli occupanti sionisti», i vertici del movimento fondamentalista non hanno infatti ritenuto di integrare gli eterni esuli nella società del nuovo territorio “liberato”. Con uno scopo evidente: continuare a sfruttarne la presenza come pretesto per la jihad antisemita. Utilizzando per giunta le loro fatiscenti enclavi quale terreno di coltura dell’estremismo e nascondiglio di armi. O da zona franca internazionale, dove infiltrarsi in caso di attacchi israeliani, trasformando schiere di profughi in involontari scudi umani. Ostaggi di un conflitto che li strumentalizza da 60 anni. Tanto, se non li ammazza la guerra, a mantenerli in vita ci pensa l’Onu. O meglio, il “Satana” occidentale, che da solo copre il 99,5% del budget dell’Agenzia per i rifugiati palestinesi delle Nazioni Unite (Unrwa). Mentre i Paesi islamici non versano praticamente nulla, e Hamas dilapida in missili e mortai i 300 milioni annuali di sovvenzioni iraniane.
il paradosso
Negli ultimi bombardamenti su Gaza sono state colpite anche alcune strutture gestite dall’Unrwa. Ma pochi in Occidente avranno colto il paradosso insito nella notizia: il campo di Jabaliya, teatro della strage alla scuola Onu e del raid contro il colonnello di Hamas Nizar Rayyan, è ancora in funzione. Il più grande campo di profughi palestinesi del Medioriente non ha mai chiuso i battenti. Sembra ieri che i suoi miseri inquilini sognavano l’assegnazione di un pezzo di terra, all’indomani del ritiro di Israele dalle colonie.
Anni di guerriglia, giustificata con la necessità di dare una patria ai disperati. E quando Israele si decide a mollare la Striscia, per loro resta tutto come prima, anzi peggio. E dire che il premier in pectore di Hamas, Ismail Haniyeh, sarebbe un ex profugo. Secondo la definizione classica, i rifugiati sono coloro che risiedevano in Palestina tra 1 maggio e 15 giugno 1948. In realtà si tratta quasi solo dei loro discendenti. Gente nata già nelle baracche Onu, che non ha abbandonato la propria casa o terra perché non le ha mai avute. A Gaza nel 1950 ce n’erano 198mila, il baby boom ha fatto il resto. Altri giunsero dopo che il Kuwait espulse 400mila palestinesi. Ma la situazione cominciò a deteriorarsi quando Arafat deliberò di non modificarne lo status sino al termine dei negoziati con gli ebrei. Le risoluzioni che chiedevano lo smantellamento dei campi-lager, caldeggiate da Israele, sono abortite per il veto dei Paesi arabi.
Oggi a Gaza ci sono 8 campi profughi: Nuseirat, Bureji, Maghazi, Rafah, Gaza Beach, Deir el Balah, Khan Younis e Jabaliya, che da solo conta 106.846 originari del sud della Palestina. In totale gli “sfollati”, tra registrati e non, sono 1.059.584. Cioè tutti gli abitanti di Gaza che non gravitano intorno al clan di Hamas. Chi vive nelle aree assistite dall’Unrwa non può possedere la terra o il tugurio in cui risiede. Queste lerce bidonville sono “prestate” in usufrutto all’Onu dal governo ospitante. In Cisgiordania, dove in ossequio alla sovranità mista 8 campi su 19 vengono operati dalle autorità israeliane, ogni insediamento ha un suo comitato ufficiale che ne rappresenta la popolazione. E l’Anp di Abu Mazen vi eroga servizi diretti. Invece a Gaza, completamente autogestita da agosto 2005 (e ancor più dopo il golpe di Hamas del 14 giugno 2007) non esiste niente del genere: l’interlocutore unico per le comunità è lo staff dell’Onu.
spazi angusti
La prima cosa che manca nei campi di Gaza è lo spazio. Il Beach camp si estende su 747 dunums (meno di 1 km quadrato) e ospita 80mila persone, Il Bureji su 528, quello di Khan Younis 549. Jabalia è un po’ più “ampio”: 1.4 km. Nella selva di fatiscenti rifugi ”temporanei”, ammassati uno all’altro, liquidi di scolo scorrono indisturbati. I tetti son fatti d’asbesto cancerogeno. La media è di 18 persone ogni due stanze. Diarrea, malnutrizione e incendi costituiscono presenze fisse, specie per anziani, bimbi e disabili. I più fortunati fanno gli ambulanti nel campo, le donne cuciono.
Non ci fosse l’Unrwa, questo esercito di reietti sarebbe defunto da tempo. Gli 11.470 uomini dell’Agenzia di base nella Striscia distribuiscono cibo a 220mila famiglie di profughi, consegnando ogni 3 mesi 50 chili di farina, 5 di riso, 5 di zucchero, 3 di olio, 1 di latte in polvere e 5 di lenticchie. A 86.971 derelitti senza entrate si dà ove possibile denaro cash (da 50 a 1.000 dollari). Ad altri 81mila dei microprestiti. Gli ambulatori Unrwa sono 18, e le elementari servono 200mila bimbi. In un biennio sono state riparate 3.373 baracche, e 764 case edificate. Ma è una goccia nel mare: progetti edilizi da 93 milioni di dollari per 128mila persone, sono fermi per mancanza di materiali.
allarme fame
Inoltre le razioni Onu assicurano solo il 60% del fabbisogno calorico. In 30 anni la spesa media per rifugiato si è ridotta da 200 a 70 dollari. Il budget Unrwa per il 2008 ammonta a 541 milioni di dollari, di cui circa il 40% lo assorbe Gaza, con 77 milioni soltanto per cibo e medicine. America ed Europa fanno più del loro dovere. Nel 2008 il contributo Usa per i rifugiati palestinesi è stato di 184 milioni di dollari. Quello Ue di 177 (oltre i 500 già versati all’Anp). Nella classifica per Paesi, gli altri grossi donatori sono Regno Unito (30 milioni), Svezia e Norvegia (34 e 25). L’Italia ha donato in due anni 11.8 milioni, e il vice capo dell’Unrwa è l’italiano Filippo Grandi. Il problema sono i Paesi arabi, che tutti insieme contribuiscono per lo 0.5% del budget: meno dei 2.5 milioni di dollari del minuscolo Lussemburgo. L’Arabia Saudita ne versa 600mila, il Kuwait 1.5 milioni, il resto del Medioriente 860mila. I due superstati islamici, Indonesia e Pakistan, hanno versato 9.000 dollari. Eppure nell’Advisory commission che governa l’Unrwa siedono Lega Araba, Egitto, Siria, Libano, Giordania. Deliberando sull’impiego dei fondi altrui. Anche negli appelli d’emergenza (raccolte speciali in seguito a guerre) l’obolo della ummah non supera il 3%, contro o il 40 di Usa e Commissione Ue tra 2000 e 2007. Perfino Israele sino al ‘94 sborsava più del totale arabo.
Quanto ad Hamas, della mitica rete di welfare su cui si basa il suo consenso, nei compound dei profughi non si scorge traccia. L’unico contributo Onu a nome Palestina (103mila dollari) lo fece Arafat. Chi obietta che chiudere i campi creerebbe un aggravio insostenibile per le casse di Gaza, ignora lo statuto dell’Unrwa. La quale continuerebbe a sostenere gli ex rifugiati registrati come tali, a prescindere dall’indirizzo. Ma così verrebbe a galla la grande bugia della Nakba palestinese: ossia che l’80% dei profughi risiede già da 15 anni entro i confini la Palestina storica, e quasi sempre sotto un’amministrazione autonoma.
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