Il Vaticano, Hamas e il diritto all'esistenza di Israele le analisi di Sandro Magister, Bat Ye'Or, Giorgio Israel, Giuliano Ferrara
Testata: Il Foglio Data: 07 gennaio 2009 Pagina: 0 Autore: Sandro Magister - Bat Ye'or - AA. VV. - Giorgio Israel - Giuliano Ferrara Titolo: «La vita di Israele è disponibile - Un grazie al Magister veritatis - C'è un appello dei cattolici sul Papa che parla di Gaza - Cosa deve fare la Chiesa per combattere davvero Hamas»
Da pagina 1 dell'inserto del FOGLIO di mercoledì 7 gennaio 2009, riportiamo l'articolo di Sandro Magister "La vita di Israele è disponibile":
ROMA, 4 gennaio 2009 – Nei giorni delle festività natalizie Benedetto XVI è intervenuto più volte contro la guerra che ha per epicentro Gaza.
Ma le sue parole sono cadute nel vuoto. Insuccesso non nuovo per le autorità della Santa Sede, ogni volta che si confrontano con la questione di Israele.
In più di tre anni di pontificato, Benedetto XVI ha innovato in ciò che riguarda i rapporti tra le due fedi, la cristiana e l'ebraica. Ha innovato anche a rischio di incomprensioni e contrarietà, sia tra i cattolici sia tra gli ebrei.
Ma nel frattempo poco o nulla sembra essere cambiato nella politica vaticana nei confronti di Israele.
La sola variante, marginale, è negli accenti. Fino a un paio d'anni fa, con il cardinale Angelo Sodano segretario di stato e con Mario Agnes direttore dell'"Osservatore Romano", le critiche a Israele erano incessanti, pesanti, a tratti sfrontate. Oggi non più. Col cardinale Tarcisio Bertone la segreteria di stato ha ammorbidito i toni e sotto la direzione di Giovanni Maria Vian "L'Osservatore Romano" ha cessato di lanciare invettive e ha allargato gli spazi del dibattito religioso e culturale.
Ma la politica generale è rimasta la stessa. Di certo le autorità della Chiesa cattolica non difendono l’esistenza di Israele – che i suoi nemici vogliono annientare ed è la vera, ultima posta in gioco del conflitto – con la stessa esplicita, fortissima determinazione con cui alzano la voce in difesa dei principi “innegoziabili” riguardanti la vita umana.
Lo si è visto nei giorni scorsi. Le autorità della Chiesa e lo stesso Benedetto XVI hanno levato la loro voce di condanna contro "la massiccia violenza scoppiata nella striscia di Gaza in risposta ad altra violenza" solo dopo che Israele ha iniziato a bombardare in quel territorio le postazioni del movimento terroristico Hamas. Non prima. Non quando Hamas consolidava il suo dominio feroce su Gaza, massacrava i musulmani fedeli al presidente Abu Mazen, umiliava le minuscole comunità cristiane, lanciava ogni giorno missili contro le popolazioni israeliane dell'area circostante.
Nei confronti di Hamas e della sua ostentata "missione" di cancellare lo stato ebraico dalla faccia della terra, di Hamas come avamposto delle mire egemoniche dell'Iran nel Vicino Oriente, di Hamas come alleato di Hezbollah e della Siria, le autorità vaticane non hanno mai acceso l'allarme rosso. Non hanno mai mostrato di giudicare Hamas un rischio mortale per Israele, un ostacolo alla nascita di uno stato palestinese, oltre che un incubo per i regimi arabi dell'area, dall'Egitto alla Giordania all'Arabia Saudita.
Su "L'Osservatore Romano" del 29-30 dicembre, in un commento di prima pagina firmato da Luca M. Possati e controllato parola per parola dalla segreteria di stato vaticana, si è sostenuto che "per lo stato ebraico la sola idea di sicurezza possibile deve passare attraverso il dialogo con tutti, persino per chi non lo riconosce". Leggi: Hamas.
E sullo stesso numero del giornale vaticano – in una dichiarazione anch'essa concordata con la segreteria di stato – il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, dopo aver deplorato la "sproporzionata" reazione militare di Israele, ribadiva lo stesso concetto: "Dobbiamo avere l'umiltà di sederci attorno a un tavolo e di ascoltarci l'uno con l'altro". Non una parola su Hamas e sul suo pregiudiziale rifiuto di accettare la stessa esistenza di Israele.
Nessun rilievo, invece, ha dato "L'Osservatore Romano" alle contemporanee dichiarazioni del capo del governo della Germania, Angela Merkel, secondo cui "è un diritto legittimo di Israele proteggere la propria popolazione civile ed il proprio territorio" e la responsabilità dell’attacco israeliano a Gaza è "chiaramente ed esclusivamente" di Hamas.
Affermando ciò, il cancelliere tedesco ha rotto il coro di deplorazione che si è levato puntualmente anche questa volta da molte cancellerie – e dal Vaticano – dopo che Israele aveva esercitato con le armi il suo diritto all'autodifesa. In Italia, l'esperto di geopolitica che più ha dato risalto alla presa di posizione di Angela Merkel, sul quotidiano "La Stampa", è stato Vittorio E. Parsi, professore di politica internazionale all'Università Cattolica di Milano e fino a pochi mesi fa commentatore di punta di "Avvenire", il giornale della conferenza episcopale italiana. Su "Avvenire", Parsi aveva scritto due anni fa, all'epoca della guerra in Libano, un editoriale dal titolo "Le ragioni di Israele", nel quale diceva:
"L'amara realtà è che, nella regione mediorientale, la presenza di Israele è ritenuta 'provvisoria', e la garanzia della sopravvivenza dello stato ebraico è riposta – per quanto sia amaro dirlo – nella sua superiorità militare".
Il problema è che la "provvisorietà" dello stato di Israele è pensiero condiviso da una parte significativa della Chiesa cattolica. Ed è questo pensiero a influire sulla politica vaticana nel Vicino Oriente, a bloccarla su vecchie opzioni prive di efficacia e a impedirle di afferrare le novità che pur sono divenute evidenti in questi giorni, tra le quali la crescente, fortissima avversione ad Hamas dei principali regimi arabi e degli stessi palestinesi dei Territori, oggettivamente più vicini oggi alle ragioni di Israele di quanto non lo sia il Vaticano.
* * *
Sul concetto della "provvisorietà" di Israele e sul suo influsso nella Chiesa cattolica è illuminante un libro-intervista uscito in questi giorni in Italia con il Custode della Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa.
Padre Pizzaballa, in carica dal 2004, è assieme al nunzio e al patriarca latino di Gerusalemme uno dei più autorevoli rappresentanti della Chiesa cattolica in Israele. Ed è anche quello che si esprime con più libertà.
Ebbene, premesso che i cristiani in Terra Santa sono oggi solo l'1 per cento della popolazione e sono quasi tutti palestinesi, padre Pizzaballa ricorda che "i cristiani sono stati protagonisti fino a pochi decenni fa delle cosiddette lotte risorgimentali arabe" in Palestina, in Libano, nella Siria. Oggi essi "non contano più nulla, politicamente, nel conflitto israelo-palestinese", dove hanno molto più peso le componenti islamiste. I cristiani hanno però conservato quel "rifiuto ad accettare Israele" che persiste in una larga parte del mondo arabo.
Una prova di questo rifiuto, aggiunge Pizzaballa, è stata l'opposizione agli accordi fondamentali e allo scambio di rappresentanze diplomatiche stabiliti nel 1993 tra la Santa Sede e lo stato d'Israele:
"Non è stato facile per la Chiesa locale accettare la svolta. Il mondo cristiano di Terra Santa è prevalentemente arabo-palestinese, quindi non era così scontato il consenso. E questo rende il gesto della Santa Sede ancor più coraggioso. Ricordo molto bene i problemi che ci furono, le paure, i commenti che non erano affatto entusiastici. Sembrava quasi un tradimento delle ragioni dei palestinesi, perché da parte palestinese si è sempre vista la storia di Israele come la negazione delle proprie ragioni".
E ancora:
"Nel febbraio 2000 c'è stato l'accordo della Santa Sede anche con l'Autorità Palestinese, che ha un po' calmato quella paura".
Ma un'idea di fondo è rimasta:
"Quando si dice che se Israele non ci fosse non ci sarebbero tutti questi problemi, sembra quasi che Israele sia la fonte di tutti i mali del Medio Oriente. Non credo che sia così. È un dato di fatto, comunque, che Israele non è ancora stato accettato dalla stragrande maggioranza dei paesi arabi".
* * *
Se Israele non ci fosse, o se comunque non agisse come agisce... Va tenuto conto che simili pensieri corrono non soltanto tra i cristiani arabi, ma anche tra esponenti di rilievo della Chiesa cattolica che vivono fuori della Terra Santa e a Roma.
Uno di questi, ad esempio, è il gesuita Samir Khalil Samir, egiziano di nascita, islamologo tra i più ascoltati in Vaticano, che in un suo "decalogo" di due anni fa per la pace in Medio Oriente ha scritto:
"La radice del problema israelo-palestinese non è religiosa né etnica; è puramente politica. Il problema risale alla creazione dello stato d’Israele e alla spartizione della Palestina nel 1948 – a seguito della persecuzione organizzata sistematicamente contro gli ebrei – decisa dalle grandi potenze senza tener conto delle popolazioni presenti in Terra Santa. È questa la causa reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio a una grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione ebrea mondiale, la stessa Europa, appoggiata dalle altre nazioni più potenti, ha deciso e ha commesso una nuova ingiustizia contro la popolazione palestinese, innocente rispetto al martirio degli ebrei".
Detto questo, padre Samir sostiene comunque che l'esistenza di Israele è oggi un dato di fatto che non può essere rifiutato, indipendentemente dal suo peccato d'origine. Ed è questa anche la posizione ufficiale della Santa Sede, da tempo favorevole ai due stati israeliano e palestinese.
In subordine all'accettazione di Israele, permane tuttavia, in Vaticano, una ulteriore riserva. Non sull'esistenza dello stato, ma sui suoi atti. Tale riserva è espressa nelle forme e nelle occasioni più varie e consiste nel ripetere, ogni volta che scoppia un conflitto, il giudizio che gli arabi sono vittime e gli israeliani oppressori. Anche il terrorismo islamista è ricondotto a questa causa di fondo:
"Molti problemi attribuiti oggi quasi esclusivamente alle differenze culturali e religiose trovano la loro origine in innumerevoli ingiustizie economiche e sociali. Ciò è vero anche nella complessa vicenda del popolo palestinese. Nella Striscia di Gaza da decenni la dignità dell'uomo viene calpestata; l'odio e il fondamentalismo omicida trovano alimento".
Ad esprimersi così – ultimo tra le autorità vaticane – è stato il cardinale Renato Martino, presidente del pontificio consiglio della giustizia e della pace, in un'intervista a "L'Osservatore Romano" del 1 gennaio 2009.
Non una parola sul fatto che Israele si è ritirato da Gaza nell'estate del 2005 e che Hamas vi ha preso il potere con la forza nel giugno del 2007.
La lettera di Bat Ye'or a Sandro Magister:
Le scrivo per ringraziarla e per felicitarmi per come ha analizzato in modo pertinente la politica del Vaticano e degli arabi cristiani nei confronti di Israele. Lei ha rilevato a ragione come gli arabi cristiani siano stati i promotori del nazionalismo arabo e io posso aggiungere all’avanguardia della guerra arabo-islamica contro Israele. Questa tendenza, sostenuta dagli stati europei e dal Vaticano all’inizio del Ventesimo secolo, si è rafforzata dopo la Prima guerra mondiale e ha motivato l’alleanza del mondo arabo con i poteri nazisti e fascisti. E’ scoraggiante constatare come questa mentalità persista e impedisca di vedere le cause reali della distruzione del cristianesimo, non soltanto in oriente ma nella stessa europa. Finché non ci saranno analisi corrette di questi problemi, sarà impossibile trovare soluzioni. Sottolineo in particolare la sua frase: “Tale riserva è espressa nelle forme e nelle occasioni più varie e consiste nel ripetere, ogni volta che scoppia un conflitto, il giudizio che gli arabi sono vittime e gli israeliani oppressori. Anche il terrorismo islamista è ricondotto a questa causa di fondo”. L’atteggiamento che consiste nel giustificare gli arabi per farne sempre le vittime degli israeliani o degli europei risponde a un’esigenza dell’Oci, l’Organizzazione della conferenza islamica, e si conforma alla mentalità jihadista secondo la quale soltanto l’infedele porta la responsabilità del male. Rendere gli arabi responsabili dei loro atti e delle loro politiche è già il primo passo sulla buona strada. Bat Ye’or
(dalla lettera di commento inviata a Sandro Magister da Bat Ye’or, grande studiosa dell’islam e della dhimmitudine antica e moderna, inventrice della formula “Eurabia”)
Un appello di cattolici sulla crisi di Gaza:
Bisogna ascoltare sul serio il Papa. Invece si ha l’impressione che il suo Angelus di domenica sia già stato archiviato tra le dichiarazioni di routine. Errore tragico. Il pronunciamento morale di Benedetto XVI ha anche valenza di saggezza politica. Ci permettiamo di ripetere le parole di Ratzinger: “Le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra. La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente”. Il riferimento alla “storia più recente” è una chiara citazione del mancato ascolto di Giovanni Paolo II quando invano implorò l’Iraq e la coalizione guidata dagli Stati Uniti di rinunciare alla guerra. Occorre – a nostro giudizio – che i gravissimi torti di Hamas, che tiene in ostaggio i palestinesi e rende impossibile la vita agli israeliani, non finiscano per convincere Israele che la forza delle armi risolva la questione della sicurezza e della giusta convivenza. In questo senso apprezziamo l’intervento del presidente Napolitano e diamo il massimo sostegno al ministro Frattini, che hanno fatto proprio l’invito diPapa Ratzinger al dialogo e al ripudio dell’odio. Nessun cedimento laico alle pressioni vaticane: la saggezza della chiesa è costitutiva della nostra civiltà occidentale. Roberto Formigoni (presidente regione Lombardia), Mario Mauro (vicepresidente Parlamento europeo), Maurizio Lupi (vicepresidente Camera dei deputati). I parlamentari Renato Farina, Giampiero Cantoni, Elena Centemero, Gabriele Toccafondi, Antonio Palmieri, Isidoro Gottardo, Manuela Di Centa, Santo Versace, Raffaello Vignali, Gioacchino Alfano, Valentina Aprea, Giancarlo Mazzuca, Nunzia De Girolamo, Giuseppe Romele, Laura Bianconi, Mariella Bocciardo, Maurizio Paniz, Adriano Paroli, Fabio Garagnani, Alessandro Pagano
L'analisi di Giorgio Israel:
Nessuna persona sensata può immaginare che risuoni in Piazza San Pietro un invito a imbracciare le armi. Ciò non vuol dire che l’invito del Papa a deporre le armi e al dialogo sia rituale. In sintonia con quanto ha scritto Giuliano Ferrara il 5 gennaio, condividiamo il senso morale di quell’invito. Tuttavia, tra il magistero spirituale e la realtà politica vi sono passaggi intermedi complessi che Roberto Formigoni, Mario Mauro e Maurizio Lupi hanno scavalcato affrettatamente sostenendo, nell’appello “Politici con il Papa per la Terrasanta”, che possa darsi un’applicazione politica immediata di quel pronunciamento morale. Da giorni Mario Mauro ammoniva che “se Israele non compie un ‘sussulto di saggezza’ le conseguenze potrebbero essere nefaste”, intendendo per sussulto di saggezza l’interruzione immediata dell’intervento militare, un cessate il fuoco permanente e la del processo di pace. Ci scusiamo di sottoporre con qualche puntiglio all’esame della logica questi interventi e l’appello: alla fin fine si sta parlando di qualcosa che deve avere uno sbocco concreto, ovvero la fine di morti e violenze. Fuori dalla concretezza saremmo a una forma di elusione che starebbe al senso morale come il diavolo all’acquasanta. Troviamo apprezzabile in questi interventi la denuncia chiara delle responsabilità di Hamas nell’aver causato questa crisi, della sua natura di movimento che ha come scopo primario la distruzione dello stato di Israele e che tiene in ostaggio la popolazione palestinese rendendo la vita impossibile a quella israeliana. Bene. E allora che fare? Si esclude che abbia senso e utilità qualsiasi tentativo di indurre Hamas alla responsabilità e al dialogo. Viceversa si ammonisce Israele a evitare l’errore di concludere dalla efferatezza di Hamas che l’unico modo di ottenere sicurezza e convivenza pacifica sia il ricorso alla forza. Tocca a Israele cessare il fuoco allo scopo di riattivare il processo di pace. Con chi? Su questo l’appello non dice nulla, mentre Mauro parla dell’Anp e di Abu Mazen, e si riferisce alle risoluzioni Onu e alle vie indicate dalla presidenza francese dell’Unione europea. A parte il fatto che le risoluzioni Onu e le indicazioni europee equivalgono al vuoto pneumatico, non sarebbe male ricordare che proprio il ritiro da Gaza fu pensato come il primo passo di un processo che doveva condurre alla concreta fondazione di uno stato palestinese. Solo che in questo processo si inserì Hamas, che prese il potere con la forza a Gaza e sostituì a quell’obiettivo il proprio: la guerra santa per la liberazione dell’intera Palestina dall’“entità sionista”. Fu la lungimirante comunità internazionale a consentire a Hamas di partecipare alle elezioni. Il suo successo elettorale viene ancora addotto da certi analfabeti della democrazia per dire che il potere di Hamas è legittimo, non rendendosi conto che l’ammettere al voto chi ha un programma eversivo rappresenta già di per sé la morte della democrazia. Insomma, o perché Hamas è legittimato o perché è troppo malvagio, di lui non ci si occupa, ma si invita Israele a ripercorrere “responsabilmente” e con le mani legate dietro la schiena uno scenario già avvenuto, per finire col farsi di nuovo trafiggere di missili nel silenzio dei tanti che oggi invece trovano il fiato per ammonire col dito alzato. Ci permettiamo di consigliare rispettosamente agli estensori dell’appello di riscriverlo, lasciando da parte le prediche a Israele, e fissando come unico obiettivo quello che non si è mai perseguito davvero (e che lo stesso presidente Sarkozy ha ammesso ieri essere l’unico nodo da affrontare): esercitare ogni pressione su Hamas affinché accetti le regole della convivenza internazionale. Se ciò avesse successo, allora sì che la politica si sarebbe mostrata capace di tradurre il magistero spirituale in un argomento moralmente valido e concretamente capace di indurre Israele a cessare il suo intervento.
E quella di Giuliano Ferrara:
Con prudenza, ma senza pensare di avere tutto il tempo del mondo a sua disposizione (quell’altro tempo, l’eternità pellegrinante, è fuori da questo discorso), la chiesa cattolica dovrà mettere a fuoco una sua posizione politica di validità generale, se non universale, sui grandi conflitti che animano il mondo. Sui conflitti di civiltà a sfondo religioso che dilaniano il mondo, per essere più precisi. Sul conflitto tra la tradizione occidentale, razionale e universalista, e le culture fondate, secondo la lettera e lo spirito del discorso di Ratisbona, sulla rescissione del nesso tra libertà, ragione e fede. Il Papa avrà modo di riflettere sulle folle islamiche allineate, prosternate e oranti davanti alle cattedrali cristiane di Milano e di Bologna, a testimoniare una coscienza religiosa che è anche immediatamente politica, e che non esclude dal proprio orizzonte la guerra santa contro gli infedeli. Se ama la società aperta e la caratura spirituale delle grandi democrazie moderne, ciò che è sembrato chiaro da molti segni culturali e dal viaggio papale negli Stati Uniti, la chiesa si attrezzerà per difenderla e per far valere in essa le proprie idee, le esperienze, i principi non negoziabili di cui si considera a buon titolo custode. Questo vuol dire che un’organizzazione social-terroristica come Hamas, dove le mense e gli ospedali e la rappresentanza dolorosa della più derelitta società palestinese si mescolano con un’ideologia e una pratica di guerra santa contro gli ebrei, deve essere riconosciuta per quello che è, con una parola che sia sì sì, no no. Sandro Magister è persona di grandissimo equilibrio, un osservatore impareggiabile di cose vaticane e di culture profonde dentro il mondo cristiano. Se ha deciso di scrivere la nota che pubblichiamo in questa pagina, la ragione è che questa scelta di campo, sia pure senza fanatismi e mantenendo la sua tradizionale capacità di interlocuzione a largo raggio, quel tutto che è la chiesa cattolica (diplomazia, magistero papale, clero, comunità territoriali, ordini, movimenti missionari e carismatici) non l’ha ancora fatta. E in questo indugio prolungato, che l’11 settembre e la guerra irachena hanno sottoposto a formidabile tensione, si apre lo spazio per quelle ambiguità di linguaggio che Giorgio Israel rileva limpidamente, senza forzature, con un uso preciso e significativo del linguaggio, nel suo commento, anche a nome di questo giornale, dedicato all’appello con cui personalità cattoliche dell’area politica di Comunione e liberazione pensano di interpretare le parole di Benedetto XVI nel corso dell’Angelus di domenica 4 gennaio. Non si può chiedere alla chiesa di rinunciare all’uso profetico della parola “pace”, un segno di contraddizione nella storia che in un certo senso equivale alla sostanza del cristianesimo. E questo vale, almeno in parte, anche quando la parola “pace” viene spacciata come una cattiva moneta politicoideologica nel mercato delle idee secolari su come si deve realizzare una convivenza giusta tra gli uomini, una giustizia dove la “pace” non sia lo scudo dei prepotenti, dove pace non equivalga ad appeasement. Non le si può chiedere di lasciare nell’ombra della Realpolitik le concretissime esigenze di difesa di comunità cristiane travolte dalla bufera geopolitica del medioriente e destinate in molti casi a una lenta erosione, fino al dramma dell’estinzione. Non si può impedire alla chiesa, nella sua vocazione universalistica e di carità, di accendersi ed emozionarsi di fronte al destino dei diseredati del mondo, di popolazioni che soffrono un destino di minorità, di miseria, di esclusione. Ma con Israele e con gli ebrei la questione non si può risolvere sul filo delle acrobazie, nemeno di quelle pie concepite per il bene della causa superiore. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, talvolta non sufficientemente aiutati dalle molte voci del mondo ebraico, lo hanno profeticamente capito, e hanno radicalmente ricostruito sulla scia del Vaticano II il rapporto con i fratelli maggiori dei cristiani. La diplomazia vaticana lo ha capito. L’establishment papale più consapevole è da molti anni che ha ridimensionato la benevolenza senza confini verso la causa araba, quando e se questa causa finisca nelle mani di feroci negatori del diritto di Israele alla esistenza in sicurezza. Ecco. Quando si parla di tregua, obiettivo genericamente condivisibile da ogni essere umano, oggi bisogna sempre specificare: quella tregua rotta da Hamas in nome della distruzione di Israele e della liquidazione degli ebrei.
Per inviare la propria opinione al Foglio cliccare sulla e-mail sottostante lettere@ilfoglio.it