L'ambiguità di Sandro Viola e Adriano Sofri sulla posta in gioco per Israele e sui bambini palestinesi vittime della strategia di Hamas
Testata: La Repubblica Data: 07 gennaio 2009 Pagina: 1 Autore: Sandro Viola - Adriano Sofri Titolo: «La posta in giioco per Israele - Il sacrificio dei bambini»
La REPUBBLICA del1 gennaio 2009 pubblica in prima pagina due editoriali intrisi di ambiguità.
"La posta in gioco per Israele" nel conflitto di Gaza, per Sandro Viola è ristabilire la deterrenza nei confronti degli avversari. Per far questo, lo Stato ebraico sarebbe impegnato in esibizioni di forza che oggi coinvolgono Gaza e domani, in caso di fallimento delle operazioni in corso, potrebbero rivolgersi all'Iran. A leggere Viola sembra che i bersagli siano scelti a caso. Come se Hamas, e l'Iran, non volessero distruggere Israele, vero responsabile della crisi per non aver "restituito" ai palestinesi ciò che doveva "restituire".
Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che Israele ha ceduto Gaza unilteralmente ai palestinesi, e sta negoziando un accordo con l'Autorità palestinese già insediata in Cisgiordania.
Ecco il testo:
Tra Gerusalemme e Tel Aviv, tra le stanze del governo e quelle dello Stato Maggiore, cinque israeliani stanno vivendo col cuore in gola. Il primo ministro dimissionario Ehud Olmert, il ministro della Difesa Ehud Barak, il ministro degli Esteri Tzipi Livni, il capo di Stato maggiore Gabi Ashkenazi e il capo dello Shin Bet (i servizi di sicurezza interna) Yuval Diskin. La loro ansia scaturisce dal conoscere più di chiunque altro qual è la posta che Israele ha messo in gioco con la guerra di Gaza. E la posta in gioco, in questo undecimo giorno dell´attacco contro gli islamisti di Hamas, è presto detta: o adesso o mai più. O Israele ristabilisce con la guerra di Gaza il suo potere di deterrenza, la capacità di tenere alla larga con la sua forza bellica i nemici, oppure lo Stato ebraico apparirà tutt´intorno come poco più d´una tigre di carta, un´ex potenza incapace di vere, temibili reazioni. E in questo secondo caso, la stessa sopravvivenza d´Israele come Stato degli ebrei si farebbe problematica. È vero, ciascuno di quei cinque israeliani sta giocando anche una partita personale. Uno, Olmert, vorrebbe infatti uscire di scena, dopo le elezioni di febbraio, avendo restaurato la sua immagine di fallimentare regista della Seconda guerra libanese e di imputato per corruzione nei tribunali del paese. Due, Barak e la Livni, hanno bisogno d´una vittoria a Gaza per portare i loro due partiti politici, il Labor e Kadima, a formare il nuovo governo dopo le elezioni di febbraio, evitando così un ritorno della destra di Benjamin Netanyahu. Mentre i capi dello stato Maggiore e dello Shin Bet sperano che la sconfitta di Hamas apra loro le porte d´una rapida e brillante carriera politica, com´è accaduto altre volte a rappresentanti dell´establishment militare israeliano. Inutile dire che le intenzioni riposte dei cinque stanno producendo non pochi contrasti sulla conduzione e la durata della guerra, tali che la stampa israeliana invoca da giorni, prima ancora che un cessate il fuoco a Gaza, un cessate il fuoco all´interno del governo. Ma benché odiosamente angusti dinanzi alla drammaticità della guerra e alla caterva di vittime innocenti che l´aviazione e i blindati israeliani hanno già lasciato sul terreno, i calcoli personali dei governanti non sono stati il vero pungolo, la motivazione essenziale dell´attacco su Gaza. La scelta di sferrare l´attacco è infatti emersa dal ragionamento sopra descritto. Vale a dire: o Israele (su cui piovevano quotidianamente i Qassam e i Grad di Hamas) reagiva, dimostrando così d´essere ancor oggi temibile come in passato, capace di rappresaglie devastanti, o i razzi di Hamas si sarebbero sempre più moltiplicati, e ad essi si sarebbero presto o tardi aggiunti dal nord i missili che l´Iran fornisce alle artiglierie di Hezbollah. Né si poteva rinviare l´attacco: la campagna elettorale, le elezioni, e poi la faticosa, turbolenta gestazione politica che in Israele rende sempre lentissimo il varo d´un nuovo governo, avrebbero preso almeno tre mesi. Novanta-cento giorni di razzi sul Negev, grida di vittoria della leaderhip di Hamas, sfiducia e sconforto nella società israeliana. Mentre aprendo l´offensiva alla fine dello scorso dicembre, il governo d´Israele sapeva che per almeno tre settimane avrebbe avuto a fianco il presidente degli Stati Uniti George Bush e la sua amministrazione. Un sostegno indispensabile nella crisi politica che l´attacco avrebbe generato. Lasciamo da parte i giudizi sull´agghiacciante sproporzione dell´offensiva israeliana su Gaza rispetto alle vittime e ai danni prodotti nelle città del Negev dai razzi di Hamas. E rinviamo per ora anche il giudizio sulle responsabilità dei governi d´Israele per non aver mai voluto veramente restituire ai palestinesi quel che la giustizia imponeva che fosse restituito ai palestinesi. Sono questioni fondamentali, ma conviene metterle da parte per rendere più chiara possibile la descrizione del momento politico che sta vivendo lo Stato degli ebrei. Dopo dieci giorni di raid aerei e quattro di combattimenti a terra, gli esiti della partita che si sta giocando a Gaza restano ancora molto incerti. Ad una formazione nazional-religiosa come Hamas basta infatti sopravvivere all´attacco israeliano, sia pure con la leadership decimata e i depositi degli armamenti semivuoti, per poter vantare la vittoria. Così, se al termine della guerra, quando verrà infine imposto un cessate il fuoco, Hamas riuscirà a dimostrare con un´ultima salva di razzi sulle città israeliane, come fecero gli Hezbollah nel 2006, che ha resistito al più potente esercito della regione (mentre l´odio della popolazione palestinese nei confronti d´Israele si sarà in tanti ancor più esasperato a causa del mare di lutti subiti in questi giorni), la guerra di Gaza sarà stata inutile. Sarà stata più o meno lo stesso fallimento della Seconda guerra in Libano, solo che stavolta la mancanza d´una vittoria indiscutibile apparirà come un colpo decisivo alla capacità di deterrenza delle forze armate israeliane. Ogni attesa che i fondamentalisti di Gaza alzino davvero e definitivamente bandiera bianca, è quindi, per ora, soltanto teorica. I mediatori potranno congegnare, certo, una tregua in termini più favorevoli per Israele, ma Hamas cercherà di violarla il prima possibile riportando la situazione al punto di partenza: i loro razzi sul Negev, e ogni tanto le bombe israeliane su Gaza. Né si possono avere illusioni su una rivolta della popolazione che espella da Gaza i capi dei fondamentalisti. Con le sue organizzazioni assistenziali, ospedaliere e scolastiche, Hamas è così fortemente radicata nella Striscia da rendere ormai pressoché impossibile ogni tentativo d´estirparla. Il solo esito favorevole che Israele può perciò attendersi, è che il suo esercito riesca a frantumare, se non interamente, i due terzi o quattro quinti del potenziale bellico di Hamas. L´esercito è oggi meglio preparato che nel 2006 in Libano, e i piani dello Stato maggiore sono parsi sino adesso più lucidi e adeguati d´allora. Così, se i colpi subiti costringessero Hamas ad una lunga tregua, se il panorama di rovine cui oggi è ridotta Gaza inducesse la sua leadership a non provocare un nuovo bagno di sangue, se l´arrivo di osservatori internazionali bloccasse l´ingresso di nuove armi dall´Egitto, Israele uscirebbe dalla vicenda con la sua capacità di deterrenza rimessa a nuovo. Lo capirebbero Hezbollah, i siriani, Ahmadinejad, e subentrerebbe una fase di calma in cui riavviare il negoziato. Che stavolta dovrebbe essere rapido, mediato dalla nuova presidenza americana con spirito equanime rispetto ai contendenti, e includere – in forme da decidere – anche i capi meno estremisti di Hamas. Ma se questo non avverrà, i vertici politico-militari israeliani dovranno guardare ad un altro obbiettivo che consenta di dimostrare, fosse pure con rischi altissimi, che Israele è ancora la massima potenza militare del Medio Oriente. Per esempio, le centrali nucleari iraniane. Perché se Israele non incute timore ai suoi nemici (molti dei quali emersi dagli errori dei suoi governi), la sua stessa sopravvivenza in Palestina sarà, come s´è detto, in discussione.
"Quando i grandi giocano alla guerra, i bambini muoiono" è l'incipit dell'articolo di Adriano Sofri sui bambini palestinesi vittime di Hamas, che ha messo deliberatamente a rischio le loro vite. Sofri non nega quest'ultima circostanza, ma si chiede se Israele non sia comunque corresponsabile della loro morte e conclude affermando che le immagini dei bambini palestinesi uccisi debbano comunque essere mostrate, messa da partela preoccupazione per i benefici propagandistici che Hamas ne ricava Noi non sosteniamo la censura, ma una contestualizzazione che chiarisca chi e perché (Hamas, per trarne un vantaggio propagandistico) ha voluto che quei bambini morissero. Proprio il contrario dell'abiguità di Sofri, dunque.
Ecco il testo:
Quando i grandi giocano alla guerra, i bambini muoiono. Da Gaza, le immagini dei bambini ammazzati, mutilati, terrorizzati invadono i mezzi di comunicazione. Al Jazeera le trasmette in continuazione, inframmezzate a servizi e commenti. Le redazioni dei giornali le accumulano, e si chiedono se metterle in pagina o no, e come. La risposta è facile quando l´esitazione è legata alla crudezza eccessiva, che può ferire lo spettatore. Ma già il verbo "ferire", impiegato nel suo senso traslato in un contesto simile, fa vergognare di averlo pronunciato. Siano pure feriti, gli occhi distratti e illesi degli spettatori: l´eccesso di crudezza non è dei fotogrammi, ma della realtà. Alla realtà si può scegliere di aprire o chiudere gli occhi, chi abbia la provvisoria fortuna di starne alla larga: ma vedere è una condizione per decidere meglio come destinare la propria voce pubblica, o la propria privata preghiera, o anche solo il proprio pianto. Bisogna risparmiarne la vista ai bambini, si avverte giustamente. Tuttavia c´è un doppio inciampo. Il primo: che ci si adopera per sottrarre bambini alla vista di bambini. Il secondo: che i bambini, anche i più premurosamente protetti, vengono sempre a sapere, per certe loro vie misteriose, le cose dalle quali i grandi vogliono ripararli, e ricevono e custodiscono in silenzio la notizia che nel mondo scoppiano guerre che uccidono e spaventano i bambini. Più complicata è la decisione di chi fa i giornali quando si sa che sui bambini, sul loro dolore e il loro spavento, si combatte una guerra di propaganda brutale quanto quella delle armi. Basterebbe allargare l´obiettivo per inquadrare, attorno al primo piano di una vittima bambina, la ressa delle macchine fotografiche e delle telecamere. Morte amputazione e pianto di bambini vengono esibiti per guadagnare un consenso alla propria causa e una ribellione alle ragioni del nemico. E non ci si limita all´esibizione: si può spingersi, come volontari terzi e disperati confidano in privato, a esporre deliberatamente all´azzardo peggiore i bambini della propria stessa gente, e perfino a ostacolarne il soccorso per rincarare la rendita del lutto e della commozione universale. Il cinismo politico e il fanatismo religioso cospirano alla lugubre venerazione del martirio dei bambini. Fra gli uomini che ostentano i piccoli corpi esanimi ce ne sono che hanno auspicato e provocato l´orrore che si va consumando. Tutto questo si sa, nelle redazioni dei giornali. A tutto questo si pensa. Ma non può bastare. Non può indurre a tenere per sé gli occhi rossi e accantonare le fotografie che spezzano il cuore. Una di queste fotografie l´ho appena ricevuta, attraverso la posta elettronica, e chi mi ha avvisato dell´inoltro non ha potuto trattenersi dall´avvisare: "E´ tremenda". Le guerre, quelle vere e orrende, e quelle orrende che ne usurpano il nome, si trovano sempre qualche viso, qualche corpo infantile a ricordarle e deprecarle. C´è una ragione mista, di angoscia soffocante e di compiacimento della brutalità, che spiega la fortuna enorme di un tema come la strage degli innocenti nelle arti figurative. La strage di Erode: non ci fu, probabilmente. Se ci fu, calcolano i demografi sulla base della popolazione presunta di Betlemme, uccise una ventina di bambini sotto i due anni. La demografia di Gaza diventa agghiacciante, quando suona la sirena delle bombe. La maggioranza della popolazione ammassata in quel fazzoletto di terra è composta di bambini e ragazzini: un giardino d´infanzia in un miserando zoo umano. Non c´è nessun Erode geloso a mandare aerei e carri sulla striscia di miseria e rancore. Gli israeliani vogliono davvero ridurre al minimo le vittime civili. Non possono essere così disumani né così imbecilli da mirare a colpire i bambini. Ma quando si interviene con un simile spiegamento di forza in un enorme giardino d´infanzia, tanti (quanti?) bambini moriranno, resteranno feriti e mutilati, e, quelli che sopravviveranno, non lo dimenticheranno più, e assicureranno altre generazioni al trionfo dell´odio e della vendetta. La gente di Israele e i suoi governanti ha un (provvisorio, minacciato, odiato) vantaggio nelle risorse possibili della forza e della ragione. Hamas bersaglia da anni case, scuole, strade di una popolazione civile israeliana cui è impedita una normale vita quotidiana. Hamas giura la distruzione di ogni cittadino di Israele e di ogni ebreo sulla terra. Hamas addestra ed esalta gli assassini suicidi. Hamas si serve vilmente degli scudi umani, predilige bambini donne e vecchi, tramuta moschee e pareti domestiche in ripari di armi e mine. Ma lo spregevole cinismo di Hamas libera Israele dalla responsabilità verso quelle donne, quei vecchi, quegli uomini, quei bambini? Che il mio nemico si nasconda dietro scudi umani mi autorizza a colpire? Potrò guardare quelle fotografie diffuse e ostentate dal mio nemico - una testa di bambina ingoiata dai detriti della sua stanza, gli occhi chiusi, la nera bocca spalancata a inghiottire la terra; tre piccoli cadaveri deposti su un pavimento di obitorio fortunoso, fratellini di Zejtun come messi a dormire vicini dopo una giornata di giochi, se non fosse per il sangue che ne allaga le vesti - con una commozione compensata dalla persuasione che non è colpa mia? Molti altri pensieri, molte altre emozioni contrastanti e laceranti suscitano queste immagini. Con una sola cosa certa: che bisogna pubblicarle.