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Il Foglio Rassegna Stampa
07.01.2009 La realtà di Hamas raccontata da Giulio Meotti
e inoltre: l'offensiva israeliana, nei fatti e nella propaganda

Testata: Il Foglio
Data: 07 gennaio 2009
Pagina: 1
Autore: la redazione - Christian Rocca - Giulio Meotti - Marina Valensise
Titolo: «Barbari e mano pesante - Il fronte dell'Iran - La pedina dell'Iran - Le matriarche di Hama e l'immolazione in nome del jihad rosa- L’ambiguità morale del soldato»
Dalla prima pagina del FOGLIO del 7 gennaio 2009, due articoli, sotto il titolo comune "Barbari e mano pesante",  mettono a confronto la realtà dell'offensiva israeliana a Gaza con le accuse di parte della stampa internazionale.

Ecco il primo testo:

Se l’offensiva israeliana fosse indiscriminata, i morti tra la popolazione di Gaza sarebbero già migliaia e non poco più di un centinaio. La fase aerea è durata dieci giorni: lancio di bombe e missili guidati, armi di precisione che hanno colpito gli obiettivi prioritari situati quasi tutti in mezzo alle case. Gaza è l’angolo di mondo a più alta densità abitativa e se il quartier generale di Gerusalemme non avesse studiato al meglio ogni singola incursione, i “danni collaterali” sarebbero stati davvero ingenti. Le prime fasi dell’offensiva terrestre confermano la volontà di Israele di prolungare i tempi proprio per limitare le perdite e rendere l’operazione più accettabile agli occhi della comunità internazionale.

Evitando un blitz travolgente ma sanguinoso gli israeliani circondano un quartiere dopo l’altro impedendo ai miliziani di ricevere rifornimenti, individuando gli edifici da colpire e attaccando i bersagli discriminati. Una tattica che sta mettendo Hamas in difficoltà al punto che la propaganda jihadista cerca di attribuire all’astuzia dei propri miliziani la morte di quattro soldati israeliani causata dal fuoco amico. Il fatto che (per ora) gli israeliani abbiano registrato una cinquantina di feriti e sei caduti, dei quali ben quattro colpiti dai loro commilitoni, dimostra la scarsa efficacia di Hamas. Se Tsahal attaccasse in modo indiscriminato, l’artiglieria avrebbe gioco facile nel radere al suolo i centri abitati, risparmiando molti rischi ai fanti ma facendo strage della popolazione.

Negli spazi ristretti tra vicoli e abitazioni, è più facile compiere errori e i casi di  “blue on blue” diventano più frequenti così come la distanza ravvicinata offre a Hamas la possibilità di utilizzare cecchini, ordigni stradali e attentatori suicidi. Queste minacce provocarono tra gli americani una novantina di caduti a Fallujah proprio perché in quella battaglia urbana un obiettivo non secondario era limitare le perdite civili, anche esponendo maggiormente i soldati. Hamas punta sulla “strage” nella speranza che le pressioni europee inducano Israele a fermare la sua reazione “sproporzionata”. Le operazioni militari devono essere efficaci, non “proporzionate”, dicono i vertici militari israeliani, e portare alla neutralizzazione del nemico, senza limitarsi a “rispondere” alle sue aggressioni. Piuttosto, è Hamas a condurre attacchi indiscriminati colpendo volutamente città e villaggi del Negev invece di obiettivi militari. I jihadisti lanciano razzi per uccidere la popolazione israeliana, mentre Tsahal colpisce soltanto per sbaglio civili palestinesi nel tentativo di eliminare i miliziani che spesso se ne fanno scudo. Una differenza non di poco conto che molti in Europa non sembrano aver colto.

E il secondo:

Gerusalemme. Israele deve “accettare un compromesso” e “far entrare i giornalisti per evitare ogni abuso”, scriveva ieri il New York Times. La “reazione sproporzionata” di Gerusalemme è sempre un pericolo, secondo molti commentatori che insistono sull’utilizzo del fosforo, sui bombardamenti dal mare, sulla scuola dell’Onu colpita dai cannoni dei carri armati nel cuore del campo profughi di Jabaliya, nel nord – “strage” di almeno 40 persone, dicono le fonti palestinesi –, sui rastrellamenti casa per casa. Israele usa la mano pesante, non si preoccupa delle pressioni esterne, rimanda al mittente – che sia francese o russo poco importa, la risposta è “no” – le richieste di tregua, ascolta soltanto l’alleato americano e “va fino in fondo”, cercando di non metterci troppo tempo. Si chiama “sproporzione”, e oltre a essere devastante non garantisce alcuna vittoria. L’ha sostenuto sul Financial Times anche Gideon Rachman: “Tra i governi occidentali s’era fatto strada con successo l’argomento per cui nessuno stato avrebbe potuto mai tollerare attacchi regolari contro il suo suolo come quelli subiti dalle città del sud di Israele”. L’attacco di terra, è l’opinione di Rachman, ha cambiato tutto: si comincia a discutere di quale sia una risposta “proporzionata” all’offesa, mentre “l’Europa chiede un cessate il fuoco e i governi arabi si dicono oltraggiati”. Da quando, sabato sera, è cominciata l’offensiva di terra di Tsahal nella Striscia di Gaza, quel che prima si diceva e non si diceva – nei circoli che contano dell’opinione pubblica mondiale – adesso si afferma con indignazione. La notizia lanciata dal Times di Londra, secondo il quale Israele starebbe usando proiettili al fosforo bianco nell’azione di guerra contro Hamas, è l’ultima – e la più clamorosa – tra quelle che hanno via via deteriorato la base di consenso internazionale di cui Gerusalemme godeva. Il fosforo bianco – ha ricordato il Times – è una sostanza messa al bando per usi bellici dal Trattato di Ginevra del 1980. Utilizzato come arma è micidiale: le bolle di fosforo infuocate bruciano a contatto con la pelle, producendo ustioni di secondo e anche di terzo grado. Secondo un ex ufficiale britannico ed esperto militare intervistato dal Times, Charles Heynan, “chiunque usasse il fosforo bianco contro le popolazioni civili finirebbe dritto all’Aia” come criminale di guerra. Israele ha negato, lasciando intendere che semmai il fosforo viene utilizzato per creare schermi fumogeni in grado di coprire l’avanzata dell’esercito, come fecero gli americani nel 2004 a Fallujah. Il resto lo fanno i bombardamenti dal mare, i 500 morti e i 2.300 feriti denunciati dalla Croce rossa, la scuola colpita dai tank. La mano è pesante, dicono.

Da pagina 2 dell'inserto, l'analisi di Christian Rocca, "Il fronte dell'Iran":

In America comincia a circolare un’interpretazione diversa sull’attuale crisi a Gaza: “Israele – ha scritto sull’Atlantic Monthly Robert Kaplan, saggista stimato a destra come a sinistra – in realtà ha lanciato la guerra contro l’impero iraniano che il presidente George W. Bush e in particolare il vicepresidente Dick Cheney hanno soltanto potuto considerare”. Kaplan non è il solo a sostenere questa tesi. Il neoconservatore Bill Kristol, sul New York Times, ha scritto più o meno la stessa cosa. Così come Michael Ledeen, ora alla Foundation for Defense of Democracies, sul suo blog. David Brooks, sempre sul New York Times, ha spiegato che la battaglia di Gaza in realtà è una guerra per la fiducia e per il morale dei due fronti, perché nessuno dei due contendenti può sconfiggere l’avversario: l’obiettivo degli estremisti è quello di uccidere il numero più alto di ebrei e per il resto di affidarsi a Dio e all’Iran, mentre quello di Israele è realisticamente di sopprimere il terrorismo settimana dopo settimana, mese dopo mese. “La violenza, in questo caso, non crea necessariamente violenza. Qualche volta la previene”, ha aggiunto Brooks.
Il Wall Street Journal ha spiegato in un lungo editoriale che la politica estera di Barack Obama, già più forte grazie alla vittoria in Iraq, potrà trarre ulteriori benefici dal successo di Israele a Gaza: “Il presidente eletto dice che intende dedicarsi a un grande patto con l’Iran, ma i mullah saranno molto più interessati a una soluzione diplomatica se i loro alter ego militari saranno stati sconfitti. Gli israeliani hanno fatto a Obama un favore reagendo ad Hamas prima che lui entri alla Casa Bianca e in modo che il presidente Bush possa sopportare la solita denuncia globale agli Stati Uniti per il sostegno a Israele”.
L’interpretazione del Wall Street Journal e degli altri non può essere più diversa da quella tradizionale, e frequente nelle cancellerie europee, di cui si fa portavoce Gideon Rachman sul Financial Times: “L’offensiva israeliana è pericolosamente vicina al fallimento”, perché priva di strategia e di via d’uscita. Ma la prospettiva è diversa se si analizza l’operazione contro Hamas nell’ambito della più ampia minaccia, non soltanto contro Israele, costituita dai movimenti islamici radicali, i gruppi terroristici e gli ayatollah teocratici alla ricerca della bomba atomica. Se Israele non riuscirà a indebolire Hamas e a fermare la ricostruzione di uno stato terrorista a Gaza, ha scritto Bill Kristol sul New York Times, l’Iran potrà vantare un grande successo e sarà meno suscettibile alle pressioni di Obama per fermare il programma nucleare: “Ma una sconfitta di Hamas a Gaza, dopo il successo in Iraq, sarebbe un vero colpo per l’Iran, renderebbe più facile assemblare una coalizione regionale e internazionale per fare pressioni sull’Iran. Potrebbe anche avere un effetto positivo sulle elezioni iraniane di giugno e potrebbe rendere il regime iraniano più aperto a una trattativa”. Secondo Kristol, Obama prima o poi potrebbe trovarsi in una situazione in cui l’uso della forza contro il programma nucleare iraniano sia l’opzione più responsabile, come è successo in questi giorni al governo israeliano: “Ma la volontà di Israele di combattere a Gaza rende più possibile l’ipotesi che non debbano essere gli Stati Uniti a farlo”.

La tesi di Robert Kaplan
L’articolo di Robert Kaplan, in particolare, è quello più citato sui blog americani. Gaza, sostiene il giornalista dell’Atlantic, è l’avamposto occidentale dell’impero iraniano che ad oriente si estende fino all’Afghanistan. L’offensiva israeliana è la prima contro l’Iran, dopo la guerra contro Hezbollah nel 2006, e “se Obama è intelligente in questo momento starà tifando silenziosamente per Israele”. Israele, sostiene Kaplan, non combatte contro uno stato, ma contro un’ideologia antioccidentale e antisemita, alimentata dalla religione islamica e rafforzata dai servizi segreti iraniani. E’ la stessa ideologia, aggiunge, che tiene unita la grande sfera d’influenza iraniana che comprende Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, il movimento Mahdi nel sud dell’Iraq e che spera nel consenso dei milioni di arabi sunniti egiziani delusi dall’autocrazia del Cairo, giudicata troppo vicina agli Stati Uniti e a Israele. Il paradosso è che l’unico posto dove i musulmani sono scettici dell’Iran è proprio l’Iran, spiega Kaplan, perché la popolazione è più filo occidentale rispetto al mondo arabo e il regime può vantare su una base di sostegno modesta, specie ora che lo stato è al disastro economico malgrado le vaste riserve energetiche.
Le chance diplomatiche occidentali con l’Iran, sostiene Kaplan, sono legate alla vittoria di Israele a Gaza: “Dobbiamo crearci un vantaggio strategico prima di negoziare con il regime clericale e questo vantaggio può venire soltanto da una vittoria morale di Israele che faccia vacillare di spavento anche i siriani pro iraniani pronti ad aiutare Hamas”.

Sempre da pagina 2 dell'inserto "La pedina dell'Iran":

Beirut. Ha parlato molto e con grande enfasi il leader del Partito di Dio in questi giorni. Lo sceicco Hassan Nasrallah si è espresso a sostegno della “resistenza a Gaza” definita “un miracolo e una leggenda”. “E’ un dono di Dio il fatto che il popolo di Gaza stia resistendo, con pochi mezzi e molta fede”. Ha parlato chiedendo agli arabi di sollevarsi in solidarietà con i palestinesi della Striscia. Ma le sue armi sono rimaste in silenzio. Da 3.000 a 4.000 razzi forniti da Siria e Iran: il doppio rispetto a quelli di cui il movimento era in possesso nel 2006, secondo i dati dell’intelligence israeliana. Eppure, il tanto temuto secondo fronte nel sud del Libano non si è aperto e il Partito di Dio sembra per ora limitarsi all’invettiva. Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha detto ieri che il suo esercito è vigile, pronto a intervenire anche al nord, ma dall’Unfil – forza d’interposizione multinazionale creata con il consenso internazionale e voluta dal governo di Ehud Olmert dopo i 34 giorni di guerra tra Israele e Hezbollah nel 2006 – arrivano notizie rassicuranti: “Non abbiamo visto segnali di tensione lungo il confine”, dice un portavoce. In seguito al conflitto estivo di due anni fa, le milizie sciite libanesi sono state costrette ad arretrare dalla linea di confine e non controllano più come un tempo posizioni lungo la frontiera. Inoltre, nonostante il Partito di Dio rimanga una forza in tutto il sud del Libano, la presenza delle truppe multinazionali, italiani compresi, e dell’esercito libanese (che mancava da oltre 30 anni nella zona) impedisce a Hezbollah di muoversi con la libertà di cui godeva prima della guerra. Quei chilometri persi dagli uomini di Nasrallah hanno cambiato in parte le regole del gioco. Lo sa bene anche Saeed Jalili, il negoziatore nucleare iraniano e segretario del potente Consiglio supremo di sicurezza nazionale di Teheran, che ha da poco visitato Beirut e Damasco raccomandando al gruppo sciita di mantenere la calma. “Hezbollah non interverrà”, è il messaggio in arrivo dagli ayatollah, sostenitori e finanziatori delle milizie libanesi. Non lo farà per tre diversi motivi, spiega al Foglio Martin Van Creveld, professore dell’Università ebraica di Gerusalemme e specialista di affari militari: “Hanno imparato la lezione e Israele nel 2006 ha recuperato la propria deterrenza; l’Iran vuole preservare l’arsenale di Hezbollah per un eventuale attacco contro le sue installazioni nucleari; la presenza di Unifil nel sud del Libano”. In questo momento, nonostante la retorica della solidarietà del leader Nasrallah, i palestinesi non sono al primo posto nella lista delle priorità del Partito di Dio e soprattutto dell’Iran. “In seguito alla guerra del 2006 Hezbollah ha subito un grosso colpo per quanto riguarda morale e capacità militari – spiega Ephraim Halevi, ex leader del Mossad e consigliere dell’ex premier Ariel Sharon – nel 2002, durante l’operazione israeliana in Cisgiordania Defense Shield, Yasser Arafat aveva chiesto l’aiuto di tutti gli arabi, Partito di Dio compreso. Le milizie sciite non erano però intervenute. Questa volta, Teheran ha mandato Jalili a Beirut e Damasco a chiedere calma. Hamas è identificato con l’Iran, per questo è meglio una disfatta sola e su un solo fronte” Ci sono anche fattori di politica interna libanese. Le elezioni parlamentari sono state fissate a giugno. Dopo il colpo di mano militare del maggio 2008, attraverso il quale il Partito di Dio ha guadagnato tra l’altro il potere di veto in Parlamento, Nasrallah spera di ottenere una vittoria ai voti. Per farlo ha bisogno dell’appoggio degli alleati cristiani, guidati dal generale maronita Michel Aoun; vietato dunque alienarsi il loro appoggio trascinando il Libano in un altro conflitto in un momento in cui la parola d’ordine a Beirut è dialogo nazionale, per quanto precaria sia in realtà l’unità tra le parti. “Il consenso interno è oggi la priorità – spiega Amr Hamzawi, del Carnegie endowment for international peace di Beirut – e il calcolo strategico del Partito di Dio è tenersi lontano da tutto ciò che può creare instabilità nel paese. Sa cosa significherebbe un confronto militare con i vicini: provocherebbe l’intervento d’Israele, che vincerebbe”. Eppure, scrive su al Akhbar, giornale molto vicino a Nasrallah il direttore Ibrahim al Amin: “Hezbollah non può permettersi di perdere questa guerra”. Questione di simboli. L’intelligence militare israeliana ha gli occhi ben aperti sul confine nord. Hezbollah non è l’unica minaccia; ci sono anche i gruppi filo palestinesi che coordinano le operazioni con le milizie sciite e che già in passato hanno lanciato razzi oltreconfine.

L'articolo di Giulio Meotti "Le matriarche di Hamas e l'immolazione in nome del jihad rosa":

"Giuro ad Allah che trasformerò in fuoco il mio corpo se gli occupanti si avvicineranno alla mia casa”, recita una donna con il corpetto di dinamite. Proclama un’altra: “Li sto aspettando”. La televisione al Aqsa, emittente di Hamas nella Striscia di Gaza, ha trasmesso un servizio sulle donne palestinesi pronte al martirio contro i soldati israeliani. In arabo è la “istishhadiyah”, la versione femminile del martirio. Sono 88 i casi di donne palestinesi che finora hanno scelto di morire per impartire la morte agli israeliani, civili e militari. Sono le protagoniste di una possibile “terza Intifada”, come le loro emule in Iraq fanno strage di civili e poliziotti. Ogni angolo di Gaza può diventare la tomba di un soldato israeliano. In Israele la tensione sulle donne kamikaze è altissima e una presenza prolungata nella Striscia esporrebbe i soldati a questa marea di bombe sotto l’abaya, il vestito arabo femminile. Negli ultimi due anni a Gaza Hamas ha innalzato queste donne a eroine popolari. Tutto è iniziato con Wafa Idris, la prima mujaheda. Alla madre aveva detto: “Ci vediamo più tardi. Vado al lavoro”. Non l’hanno più vista. Ha raggiunto Jaffa Street a Gerusalemme. Si è attardata in un negozio, poi di nuovo in strada. Un secondo dopo era un corpo dilaniato. Ha ucciso un anziano ebreo. Sua madre bacia di continuo la sua foto: “Ringrazio Dio per quello che è avvenuto”. Saddam Hussein le dedicò un memoriale. Ayat al Akhras aveva diciotto anni, si fece esplodere in un supermercato di Gerusalemme. Ma prima avvertì due anziane donne arabe. Voleva assassinare solo ebrei. Andaleeb Taqtaqah uccise quattro israeliani e due cinesi nel mercato Mahane Yehuda di Gerusalemme. Si era fatta riprendere vestita di nero con il Corano in mano. Kahira Saadi, già madre di quattro figli, è responsabile di un attentato in cui sono morti quattro israeliani e ne sono rimaste feriti ottanta. Tra le vittime Zipi Shemesh, incinta di cinque mesi, e suo marito Gad. Kahira è stata condannata a tre ergastoli e altri ottant’anni. Reem Reyashi superò la fila al valico di Erez. Mentre gli israeliani alla frontiera cercavano una donna che potesse perquisirla, la giovane innescò la cintura esplosiva. Portò con sé tre soldati. Era madre di due bambini. Hamas ha intitolato i campi estivi a queste donne. E il settimanale egiziano al Arabi celebra così Wafa Idris: “E’ la donna più bella di questo mondo. Cosa c’è di più grandioso della trasformazione di una persona da un ammasso di carne e sangue in una purezza illuminante e in uno spirito che attraversa le generazioni?”.A Gaza oggi ci sono altre donne a guidare la campagna di immolazione sotto le bombe. Sono le “matriarche di Hamas”, alcune sono state portate anche in Parlamento. Umm Nidal è la madre del più alto numero di kamikaze. Jamila Shanti è la vedova dell’ex leader di Hamas Rantisi. Mariam Saleh è insegnante universitaria. “Il nostro ruolo è combattere la corruzione e vendicare l’umiliazione, come quelle donne che hanno portato la vendetta nelle strade di Tel Aviv, Netanya e Gerusalemme”. Saleh ha organizzato una marcia per invocare il martirio. Erano 400 donne, una massa impressionante di burqa, chador e hijab. Il loro slogan era “Una mano costruisce, l’altra combatte”. Uno dei figli di Nidal, Muhammad, uccise cinque seminaristi ebrei nella colonia di Atzmona. Il secondo figlio è stato ucciso dagli israeliani mentre fabbricava bombe. L’ultimo è morto mentre sparava Qassam.“Il jihad è un comandamento imposto su di noi” dice Umm Nidal. “Noi dobbiamo infondere questa idea nell’animo dei nostri figli, sempre… Mio figlio non è stato distrutto, non è morto; sta vivendo una vita più felice della mia. Se i miei pensieri fossero stati limitati a questo mondo, non avrei sacrificato Muhammad”. Il giorno dell’operazione, Muhammad è andato a informarla: “Madre, parto per la mia operazione”. Poi è stato filmato il video. “Mi ha chiesto di essere fotografata con lui, e durante la ripresa brandiva la sua pistola. Ho personalmente chiesto di fare il film in modo da poterlo ricordare. Ho pregato dal profondo del cuore che Allah desse successo alla sua operazione. Ho chiesto ad Allah di darmi dieci israeliani”. Sono sempre donne di orgogliose, non intimorite e spesso drogate come quelle nei mercati iracheni. Una palestinese di 57 anni, già nonna, si è fatta saltare in aria a Jabaliya, tra un gruppo di soldati israeliani. Fatima Omar Mahmud al Najar lascia 9 figli e 41 nipoti. Molte kamikaze escono dalla perla accademica di Hamas. A pochi minuti dall’università al Najah di Nablus c’è una residenza per sole donne, al Nur, vuol dire “La luce”. E’ un istituto per sole donne dove si impara l’islam e la sharia. Oggi a Gaza il nome di Jamila Shanti è circondato da grandezza. E’ stata lei a organizzare un raduno di centinaia di donne davanti a una moschea di Beit Hanun, a nord di Gaza, assediata dall’esercito israeliano, facilitando la fuga di decine di miliziani. Per evitare un sicuro massacro, l’aviazione ha dovuto annullare l’operazione. Jamila, che nella vita insegna all’Università islamica di Gaza, dice di essersi ispirata al sacrificio di Merfat Masoud, una ragazzina a Beit Hanun un anno prima si era fatta saltare in aria a un checkpoint. “Vi amo, ma amo di più Dio e la Palestina” aveva detto ai genitori. Secondo il Palestinian Media Watch, la campagna di indottrinamento di Hamas è stata tanto efficace che il 70-80 per cento dei ragazzini palestinesi intervistati in tre diversi sondaggi dice di voler morire. “Tu ami la mamma, vero? Dov’è adesso?”. “In paradiso”. “Che cosa ha fatto?”. “Ha scelto il martirio”. “Ha ucciso degli ebrei? Quanti ne ha uccisi?”. E’ un’intervista trasmessa da al Aqsa, controllata da Hamas a Gaza. I due bambini sono figli di Rim Riashi, che il 4 gennaio 2004 si è fatta saltare al valico di Erez uccidendo cinque israeliani. L’intervistatore incalza Mohammed: “Quanti ne ha uccisi?”. Il piccolo, cinque anni, fa vedere le dita: “Così…”. “Quanti sono?”. “Cinque”. “Ho sempre sognato di bussare alle porte del paradiso con i teschi dei figli di Sion” annunciò prima di partire Rim Riashi. Nel 2006 Hamas pianificò sei attentati contro Israele. Due condotti da donne. Il 4 aprile del 1985 a Batr Shouf in Libano, Sana Mhaydaleh, sedicenne sciita, salta in aria contro un posto di blocco israeliano, uccidendo due soldati. Fu la prima al mondo. Lo sceicco Yusuf al Qaradawi, rettore dell’Università del Qatar e fra le massime autorità dell’islam sunnita, ha giustificato il loro uso negli attentati suicidi e in questi giorni è tornato a chiederne la ripresa contro gli israeliani a Gaza. Anche l’ayatollah sciita libanese Muhammad Husayn Fadlallah ha benedetto le donne: “Stanno scrivendo una nuova gloriosa storia delle donne arabe”. Mohammed Atta, alla testa del commando dell’11 settembre 2001, in uno scritto del 1996 spiegava che “nessuna donna deve essere presente al mio funerale o visitare la mia tomba”. Molte cose sono cambiate da allora. Il mufti di Hamas, Marwan Abu Ras, ha spiegato che “se una nazione viola la terra di un’altra nazione, è dovere di tutti – uomini, donne e bambini – combatterli”. Fino a due anni fa, era stata Fatah a reclutare gran parte delle attentatrici. Poi Hamas si è impossessata di questa tecnica infernale. Alcune di loro usano come nickname “Um Usama”, la “madre di Osama”, lo sceicco Bin Laden. Sulla stampa israeliana sono note come “le messaggere della morte”. Quella palestinese è una società patriarcale e conservatrice. Ma da quando il fondatore di Hamas, Ahmad Yassin, emise una fatwa che giustificava le operazioni suicide delle donne, il jihad rosa è stato un fenomeno dilagante. Eppure la disparità dei sessi resta. Anche nella morte. Fu Abdul Aziz al Rantisi, capo di Hamas ucciso da un missile israeliano, a spiegare che Hamas e Jihad islamico distribuiscono uno stipendio a vita di 400 dollari al mese alle famiglie dei kamikaze, 200 dollari a quelle delle kamikaze. Le donne che sono state fermate in tempo sono state rinchiuse nella prigione israeliana di Hasharon, a mezz’ora di auto da Tel Aviv. Wafa al Biss voleva diventare martire fin da piccola. “Credo nella morte. Volevo uccidere venti cinquanta ebrei, anche bambini”. Come voleva fare Shefa’a al Qudsi, ha una figlia e stava per distruggere una discoteca presso Netanya. “Non mi pento di quello che ho fatto, era giusto” confessa Shefa’a. I profili delle mujahede palestinesi ci dicono che sono più estroverse, colte e orgogliose degli uomini-bomba. Lo Shin Bet israeliano ha scoperto che delle 67 donne kamikaze dal 2002 al 2005, il 33 per cento era laureata e il 39 diplomata con ottimi voti. Il terrorismo suicida palestinese non è affatto questione di analfabetismo. L’esperto di antiterrorismo israeliano Yoram Schweitzer rifiuta anche l’idea che queste donne siano manipolate. “Per la gran parte sono volontarie, volevano farlo”. Se gli uomini con il martirio conquistano 72 vergini in paradiso, le donne diventeranno “regine”. Più pure delle api. Saranno le “spose della Palestina”. E “la più preziosa delle pietre”. Questo amore per la morte, che ti resta addosso come pece, comincerà a dissolversi nella società palestinese quando anche lì si registreranno casi come quello di Raniya. E’ il simbolo delle donne irachene che non si sono piegate ad al Qaida. Ha quindici anni, vive a Baquba, un luogo maledetto e dimenticato. Ha chiesto ai militari iracheni di disinnescarle i fili collegati all’esplosivo che le pendevano dal vestito. “Mi dissero che in Paradiso ci sono angeli donne dalla pelle chiara e occhi neri. Un Paradiso simile a un giardino pieno di fiori, due fiumi e uno di miele”. Con i suoi venti chili di esplosivo indosso, Raniya avrebbe fatto una strage in una scuola. Portava un velo a fiori. Non un lugubre chador, più un manto floreale. Come se stesse andando a sposarsi. Di questa ragazzina restano due immagini. Nella prima, è spaventata, trema. I militari stanno trafficando con i fili. Nell’altra Raniya è serena. Il suo volto, incastrato fa quegli strani e lucenti capelli biondi, è il simbolo delle donne che si sono tolte letteralmente la morte dalle spalle. In fondo è come quella donna che nella Torah schiaccia sotto il suo tallone il serpente.

Dalla prima pagina del FOGLIO, "L’ambiguità morale del soldato, di Marina Valensise":

 Se è vero che le immagini hanno ucciso l’immaginazione, perché il bombardamento quotidiano di realtà al quale siamo esposti preclude l’intelligenza dell’immaginario, tanto che il leggere ormai è diventato una fonte di sofferenza, non solo per gli adolescenti, è vero pure che per capire la realtà, per capire ad esempio il modo in cui il soldato israeliano va alla guerra, e cogliere tutta la gamma di ambiguità morale che lo assedia quando entra a Gaza e deve affrontare il nemico arabo – un’ambiguità fatta di esitazione e disperazione, di brutalità e sventatezza, ma anche di saggezza e remissione sacrificale davanti a un uomo che prima di essere un nemico per lui è anche un vicino, il suo panettiere, il suo autista, il suo babysitter, il suo idraulico e factoctum – bene, per capire tutto questo bisogna leggere l’ultimo romanzo di David Grossman, “Una donna in fuga dalla notizia”. Racconta la storia di una madre, Orah, che per sottrarsi all’annuncio di una disgrazia che potrebbe colpire il figlio soldato, inviato in missione in Cisgiordania, quasi a volere scongiurarne il caso, stacca il telefono, esce di casa e parte per il viaggio progettato con lui, facendosi però accompagnare da un vecchio amico, assieme al quale inizia un lungo pellegrinaggio a piedi attraverso le montagne della Galilea, che è anche un viaggio nella memoria sua privata e della sua generazione e in quella collettiva dello stato di Israele e le sue guerre. Tradotto da Alessandra Shomroni per Mondadori, in italiano s’intitola “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, perché l’editore ha preferito riprendere quel versetto del Cantico dei cantici (2,9) che viene in mente a Orah, guardando il figlio provarsi una camicia nel camerino di un negozio, e giocando così sul termine, Ofer, che in ebraico vuol dire cerbiatto, ma è anche il nome proprio, scelto per il protagonista. E’ un grosso tomo di ottocento pagine. Appena si prende in mano ti tiene incollato per ore, sfidando il principio di gravitazione universale e le leggi spazio-temporali, tanto trasuda amore e dolore, terrore e passione, morte e vita, pace e guerra. Grossman è infatti un grande scrittore pacifista. Un santo laico dello stato di Israele, amato e venerato come può esserlo un moderno profeta nel cui verbo respira una tradizione millenaria. E’ convinto che solo il romanzo possa afferrare il cuore delle cose, “il cuore nascosto del reale”, come dice lui, perché “il romanzo evita la dialettica amico-nemico, la categorizzazione a oltranza, il capriccio dell’istante”. Ma è anche un uomo del suo tempo, molto nevrotico e disperato come lo sono per lo più gli scrittori contemporanei. E’ un ateo radicale, uno che dice di voler “vivere nella paura”, di “voler sentire che non c’è nulla che mi protegga oltre le cose create da me stesso”, ma al tempo stesso è un narratore onnisciente mosso dall’onnipotente ambizione di “dare ordine al caos”, come egli stesso ha confessato di recente, usando un termine, “Tohu”, che figura nel libro della Genesi. Questo suo ultimo romanzo ha cominciato a scriverlo quattro anni prima che suo figlio Uri, soldato nell’esercito israeliano, perdesse la vita al fronte, 48 ore prima dell’inizio del ritiro delle truppe dal Libano, nell’agosto 2006. Uri Grossman, figlio secondogenito, era un tipo un po’ speciale. Intelligentissimo, profondo, ipersensibile e molto spiritoso, come suo padre, doveva essere molto più vecchio dei suoi 19 anni, come in genere lo sono i ragazzi israeliani, maturi anzitempo per forza di cose. Di quel romanzo aveva letto già vari capitoli e aveva pure dato il suo contributo su alcuni dettagli tecnici. Quando Uri Grossman è morto, anche suo padre David si è spento. “Come salvare questo libro?”, chiedeva ai suoi amici. “Sarà il libro a salvarti”, gli rispose un giorno Amos Oz. E infatti il libro è un concentrato di tante vite che rincorrono la morte per tenere a bada la guerra, l’odio, la violenza. “I libri sono l’unico luogo al mondo in cui le cose e la loro perdita possono coabitare”, ha detto Grossman. E infatti nel suo libro c’è Orah, per esempio, la madre di Ofer, che vaga a piedi per torrenti della Galilea con Avram, l’amante perduto, il padre negato, e pensa ai tempi della guerra dei Sei giorni, quando un’estrazione a sorte la costrinse a scegliere proprio lui per una missione a rischio contro l’esercito egiziano che trasformerà quel ragazzo brillante, aspirante commediografo, in disadattato dopo la riabilitazione impossibile dai postumi della prigionia e della tortura. C’è Ilan, l’ex marito, avvocato di successo, il terzo polo del trio di gioventù, che vivrà corroso dal rimorso e dai sensi di colpa, per esser stato lui e non Avram, l’amico irresistibile e geniale, a dare un figlio a Ofer. C’è Sami, l’autista arabo “volto ermetico, braccia massicce”, che coinvolge Orah nel soccorso ai clandestini palestinesi, ma la spinge all’odio, perché, guida con la radio accesa, passando dall’arringa del premier dello stato di Israele, “determinato a reprimere il culto dei martiri dei suoi nemici per proteggere i suoi figli” all’infiammato proclama arabo con sottofondo militare, senza cedere alla richiesta di spegnerla, indifferente all’astio che esplode tra i due. “Non fa parte della cultura degli arabi, del loro senso dell’onore, un onore del cavolo, e quelle offese infinite, e le vendette, e i conti che ti fanno per ogni mezza parola che gli hai detto nella preistoria, e tutto il mondo gli deve sempre qualcosa, tutti hanno colpe verso di loro”. E poi c’è Avram, l’ombra tragica del soldato finito in un agguato sul canale di Suez. Passeranno 36 anni prima che scopra il tentativo di salvarlo da parte dell’amico e qui la guerra di Grossman si colora di ambiguità, fra i soldati egiziani in ritirata, Ilan, che si scola una borraccia, le ginocchia tremanti: “Il pensiero che avrebbe potuto uccidere un uomo, e che desiderava moltissimo farlo, aveva squarciato una patina che lo avvolgeva da quando era uscito dalla base”. Ilan che fa come un pazzo per collegarsi via radio con Avram, sepolto in fondo al canale: “Lascia perdere, aveva detto il comandante con delicatezza. Per ora non possiamo fare niente. L’intero esercito egiziano lo circonda e noi abbiamo zero forze laggiù. E sentilo, aveva aggiunto in un sussurro, quasi temendo che Avram potesse udirlo, a lui non importa più dove si trova, credimi. A conferma di quelle parole, Avram era esploso in un grido prolungato e gracchiante. Il comandante con gesto veloce aveva girato la manopola della fequenza, e al gracidio di Avram si erano sovrapposti ordini, spari, rilevamenti sonori per aggiustare il tiro dell’artiglieria. E tutti quei suoni, per un attimo, erano sembrati logici anche a Ilan, a modo loro, uno scambio accettabile, date le circostanze”.

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