Menzogna e odio contro Israele l'analisi di Fiamma Nirenstein e gli approfondimenti di Cristiano Gatti e Luciano Gulli
Testata: Il Giornale Data: 07 gennaio 2009 Pagina: 0 Autore: Fiamma Nirenstein - Cristiano Gatti - Luciano Gulli Titolo: «Israele paga il prezzo di tutti i luoghi comuni dell’odio - Nel furore delle immagini ci perdono solo i bambini - Hebron e quel voto ad Hamas:»
Da pagina 8del GIORNALE del 7 gennaio 2008, riportiamo l'editoriale di Fiamma Nirenstein "Israele paga il prezzo di tutti i luoghi comuni dell'odio":
Dà molto da pensare il fatto che l’odio contro Israele si sia esaltato da quando, sabato, l’esercito ha intrapreso l’azione di terra dentro Gaza. Criticare una guerra è normale, svisare la realtà e odiare, invece no. La critica in tempo di guerra è normale. Si criticano il Pakistan e l’India per il conflitto sul Kashmir, si critica la Spagna quando si parla di Baschi, la Russia dei Ceceni, l’Inghilterra ai tempi del conflitto acuto con l’Irlanda. Ma qualcuno di questi Paesi è mai stato sottoposto all’accusa permanente di essere un paese razzista, aggressivo, avido di sangue umano, nazista? Forse solo gli Usa sono perseguitati da uno stigma permanente. Ma nessun altro Paese, se non Israele, viene sottoposto a un odio costante per il conflitto in cui si trova: nessuno vede la sua stessa identità messa in discussione, nessuno viene messo in dubbio nella sua legittimità, i suoi leader vilipesi, i suoi soldati e i suoi cittadini trattati da assassini, i leader rappresentati coperti di sangue su giornali e tv di tutto il mondo. Questo non c’entra con la guerra, c’entra con la menzogna e con quell’antisemitismo che il presidente Giorgio Napolitano denunciò come la forma palese di un occulto antisemitismo. Dall’operazione di terra si moltiplicano in tutta Europa le manifestazioni con i cartelli con la condanna a morte di Israele come quelli di Londra; gli assedi delle ambasciate di Israele come quella del Belgio; le dichiarazioni come quella di Erdogan che, evidentemente affascinato da Ahmadinejad, ha annunciato a Israele la sua prossima scomparsa; le prese di posizioni di intellettuali e giornalisti in cui Israele viene accusata di essere pronta per il tribunale internazionale, mentre i tanti crimini di guerra di Hamas non vengono denunciati. Nessuno rivolge a Hamas un appello perchè almeno salvi la sua popolazione chiedendo una tregua in cui non sparerà missili. Né si sottolinea positivamente come Mubarak abbia suggerito a Sarkozy di non cercare di bloccare troppo Israele: è un passo importante, da parte dell’Egitto moderato e antiterrorista. Nessuno nota che dall’operazione è uscito il viaggio di Hamas al Cairo, contro le pretese iraniane che a novembre avevano portato Hamas a snobbare Mubarak e Abu Mazen. La realtà è un mero fantasma, vince la fantasia diffusa di un’operazione feroce e inutile. E inutile non è davvero: Hamas, un pericolo pubblico internazionale, perde terreno e si sa che vorrebbe trovare il modo di fermare tutto senza alzare le mani. Curioso anche che Sarkozy abbia detto che la guerra non serve a Abu Mazen: è evidente tutto il contrario. L’operazione di terra è spaventevole, pericolosa e onesta nel suo corpo a corpo, prevede molti arresti (che sono stati operati) e l’incontro faccia a faccia col nemico. A Jenin, dove si esercitava la stessa fantasia criminalizzante e si denunciò una strage di palestinesi, Israele la pagò con le vite di 24 soldati, contro 40 palestinesi. Da sabato notte, i soldati combattono casa per casa dentro stanze e gallerie che sono postazioni armate e minate, nelle stradine sotto il tiro dai cecchini, negli edifici pieni di esplosivo innescato o da cui spuntano agguati. I quartieri affollati e l’uso di Hamas della popolazione civile rendono le operazioni molto difficili. Hamas combatte con durezza, ben armato e preparato, anche se si ritira lentamente. L’appoggio dell’artiglieria e dell’aviazione è pericoloso tanto per il nemico, come si è visto dalla tragedia della scuola dell’Unrwa, quanto per l’esercito israeliano stesso, che ha avuto quattro morti colpiti da fuoco amico. Si vede bene nell’operazione di terra quanto gli israeliani sono disposti a rischiare per mettere fine a una situazione impossibile che hanno sopportato per otto anni. La pietas, l’aspirazione alla pace, sono semmai all’origine di questa guerra in cui si combatte un nemico che incarna il terrorismo e la jihad. Invece quello che di nuovo si disegna in giro è l’ebreo del blood libel, quello assettato di sangue dei libri antichi e della moderna propaganda araba. Sarebbe bello se stavolta, addestrati dalla nostra stessa esperienza, noi italiani potessimo evitarlo.
Sempre da pagina 8 del GIORNALE,l'articolo di Cristiano Gatti, "Nel furore delle immagini ci perdono solo i bambini", sullo sfruttamento mediatico e propagandistico delle vittime civili palestinesi. La puntuale denuncia dei meccanismi della disinformazione antisraeliana è purtroppo inserita in un quadro di sostanziale equiparazione tra Israele e Hamas, del tutto ingiustificata. Israele protegge i propri bambini e cerca di evitare di colpire quelli palestinesi. Hamas colpisce indiscriminatamente i bambini israeliani al pari degli adulti, e deliberatamente mette a repentaglio le vite dei bambini palestinesi per ricavarne un vantaggio propagandistico. La differenza è abissale.
Ecco il testo:
Le bombe sui bambini. Sparano sui bambini. Muoiono i bambini. Basta raccontarlo così, questo girone infernale chiamato Gaza, per imporre subito l’inevitabile scelta di campo: chiunque abbia un minimo di sensibilità umana, fosse anche l’ultimo residuo, non può che stare dalla parte dei bambini. Cioè dei palestinesi. Cioè contro Israele, che implacabilmente getta bombe sui bambini. Spara sui bambini. Uccide bambini. A questo lugubre gioco della pace e della guerra, Hamas dimostra di saper giocare benissimo. Prima spara razzi per settimane su Israele, nel silenzio più o meno generale del mondo intero. Quindi, non appena Israele decide di reagire nei suoi modi kolossal, parte il racconto di questa tremenda guerra: impari, crudele, spropositata. Fuori da Gaza gli spietati guerrafondai, dentro Gaza gli inermi bersagli del feroce tiro a segno. È davvero così semplice? È davvero così che dobbiamo leggere la nuova pagina di storia? Come tutte le guerre, anche questa andrebbe raccontata con molto rigore, addentrando in profondità le sonde del sistema informativo mondiale, con il suo imponente apparato di antenne, telecamere e computer, con il suo affollato seguito di reporter variamente affidabile e talvolta anche variamente vanitoso. In questo caso non è così. Non è possibile. Nella Striscia di Gaza non è consentito l’accesso ai testimoni dell’informazione. Salvo pochissimi casi scelti e graditi, televisioni e giornali stanno tutti fuori, in coda, famelici, aspettando come al forno del pane che dall’interno arrivi la fornitura di giornata. Puntualmente, la fornitura arriva, rigidamente selezionata. Sempre più terribile, sempre più angosciante: corpi straziati, volti paralizzati dall’orrore, tante lacrime. E soprattutto bambini. Immagini che nessun giornale e nessun libro dovrebbe mai riportare: minuscoli corpi inermi, avvolti nel sudario bianco del candore, esibiti da padri e fratelli a favore di teleobiettivo. Perchè il mondo sappia. Perchè il mondo, giustamente scandalizzato, istintivamente si chieda: ma davvero Israele deve arrivare a questo? Qui fuori, dove possiamo solo registrare e diffondere quello che dentro Gaza scelgono di registrare e diffondere, facciamo una dannata fatica a raccontare e a comprendere. La corsa alla verità, ai confusi e inafferrabili brandelli di verità, sta diventando ogni giorno più affannosa. Quasi parossistica. Con alcuni effetti collaterali abbastanza assurdi: l’altra sera, la televisione pubblica francese “France 2” ha mandato in onda immagini raccapriccianti di vittime palestinesi, presentandole in buona fede come risultato dell’ennesimo bombardamento israeliano. Il giorno dopo, però, un sito Internet ha svelato come fossero immagini vecchie di almeno un anno: si riferivano all’esplosione di un camion carico di razzi, episodio interno tutto di marca Hamas. “France 2” ha chiesto scusa con un certo imbarazzo. Ma resta tutta l’evidenza della situazione: in assenza di testimonianze dirette, sul posto, dentro Gaza, questa resta una guerra così come la vogliono raccontare da dentro Gaza: le bombe sui bambini, i bambini che muoiono. Però noi sappiamo. Troppe guerre si sono viste, troppi cinici calcoli e diaboliche propagande tra i signori della guerra, perchè non si sappia che i bambini interessano relativamente. Interessano molto poco. Per noi, la morte sotto le bombe dei bambini palestinesi è un abominio che vale la morte dei bambini israeliani sugli scuola-bus e nei mercati di quartiere, quando i volontari di Hamas si fanno esplodere fuori da Gaza. Per noi, i bambini palestinesi meriterebbero rispetto non soltanto dalle implacabili bombe israeliane, ma anche dal fanatismo che li veste e li educa al macabro gioco del Piccolo Kamikaze... Li lasciassero stare, i bambini. Li lasciassero fuori. Tutti quanti, da una parte e dall’altra. Evitino di proporceli come santini per coprire le loro sataniche strategie di guerra. Se davvero questi piccoli cadaveri fossero tanto importanti, tanto insostenibili, i signori della guerra non perderebbero altro tempo, per deporre le armi. Invece vanno avanti da anni e anni, imperterriti, seppellendo generazioni di innocenti. Con la scusa di pensare al loro futuro.
A pagina 9, un reportage di Luciano Gulli da Hebron, dove il consenso per Hamas è crollato, "Almeno 40 civili morti nella scuola dell'Onu. Battaglia a Khan Younis":
Nessuno, nella città di Abramo (e di Isacco, di Sara e Rebecca) ha mai sentito parlare di un proverbio palermitano a base di giunchi che si chinano quando passa la piena. Dunque dev’essere stata la saggezza dei Patriarchi, che promana dall’apposita Grotta dove secondo la tradizione sono sepolti i Profeti d’Israele, ad aver riverberato infine sulle decine di migliaia di scervellati che nell’inverno di tre anni fa, alle politiche, decretarono il trionfo di Hamas. Una volta i futuri ministri e sottosegretari di quello che poi sarebbe diventato il primo ministro Ismail Haniyeh, oggi missing, si spintonavano sotto le telecamere dell’Europa e dell’America per guadagnarsi un minimo di visibilità. Oggi, anche solo trovare un portaborse disposto a parlare di quella dissennata euforia, o un quidam disposto ad ammettere di aver dato il voto alla cosca perdente di Gaza, devi girare con la pila (non essendo più tempo di lanternini). Certo per molti, in una città ormai saldamente in pugno all’Anp, come testimoniano le gigantografie di Abu Mazen che ne sorvegliano i boulevards, e i poliziotti ingualdrappati di nero che giocherellano agli incroci con certi manganelli lunghi così, gioca la paura di ritorsioni. Degli israeliani e dei fratelli di Al Fatah. E però, più delle ritorsioni ha potuto la convinzione, cresciuta negli ultimi due anni, di aver riposto le proprie speranze nell’urna sbagliata. E non è neppure che tutti la buttino in politica, come l’imprenditore edile Mohammed Nasser Al Tamimi, che sventolando l’indice verso il cielo ricorda che l’islam «è contro la violenza». E che dunque i maggiorenti di Hamas, che a Gaza si sono guadagnati il palcoscenico cacciando quelli di Al Fatah a raffiche di mitra «non seguono la nostra religione, ma i loro interessi. Volevano il potere, esattamente come quelli di Al Fatah, ma almeno questi ultimi non avevano la faccia tosta di nascondersi dietro il Corano». No, quelli di Hebron, prima città industriale e manifatturiera della Cisgiordania (il 70 per cento della lavorazione del marmo, il 60 per cento delle fabbriche di scarpe, il 36 per cento del prodotto interno lordo dei Territori occupati, ma anche il 40 per cento di disoccupati sul totale della forza lavoro) si sono disaffezionati al verbo di Hamas perché hanno visto la piega che il movimento ha preso. E non gli è piaciuta. Non è piaciuta agli industriali, ai commercianti, alla borghesia, ma anche al popolino che si è fatto due conti in tasca e ha visto che quando non si spara, e non c’è l’Intifada, si campa meglio e girano anche più palanche. Sulla cornice che dà accesso alla città mi fermo a salutare Abu Shadi, proprietario della storica vetreria da cui i bicchieri escono ancora soffiati da vecchi mastri, passo per una filanda dove si confezionano keffiah e in una tipografia e ovunque vedo ordine, disciplina, ansia di normalità. Abu Shadi, che pure ebbe simpatia per Hamas, conferma. «Hebron è la città dell’altra Hamas, quella moderata - mi dice Abu Shadi lisciandosi i baffetti alla Fred Buscaglione -. Il mandato che noi cittadini di Hebron avevamo affidato ai candidati eletti puntava su due parole: cambiamento e riforme. Ed è finita con l’apparato di sicurezza di Hamas che ha preso il sopravvento, e dopo aver soppresso brutalmente gli oppositori di Al Fatah, come nelle guerre di mafia, ha stretto il pugno intorno alla gola della società civile».
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