L'intervista a Sergio Della Pergola, Luciano Gulli al confine con Gaza e il racconto del figlio di un leader palestinese
Testata: Il Giornale Data: 06 gennaio 2009 Pagina: 6 Autore: Gìlda Lyghounis-Silvia Kramar.Luciano Gulli Titolo: «L'intervista a Sergio Della Pergola, Luciano Gulli al confine con Gaza e il racconto del figlio di un leader palestinese»
Dal GIORNALE di oggi, 06/01/2009, riprendiamo i servizi di Gilda Lyghouis che intervista Sergio Della Pergola, di Silvia Kramar, che intervista il figlio di un leader palestinese che vive a New York, e il pezzo di Luciano Gulli, inviato al confine con Gaza.
Gilda Lyghounis - " Convinsi Sharon a lasciare Gaza. Oggi chiedo: fermate gli integralisti "
Sergio Della Pergola, nato e vissuto in Italia fino al 1966, insegna Demografia all’università di Gerusalemme. Il suo «Rapporto strategico sulla situazione del popolo ebraico» ha convinto nel 2004-2005 l’allora premier Ariel Sharon a ritirarsi dalla Striscia di Gaza e, successivamente, ad avviare lo sgombero israeliano dalla Cisgiordania. «Dalle proiezioni sugli andamenti demografici nei territori dell'ex mandato britannico (Israele e Palestina) emerge che nel 2050 gli ebrei potrebbero essere circa il 35% della popolazione complessiva», spiegava lo studioso all’ex falco della guerra del Kippur. «Il tasso di natalità nelle famiglie palestinesi è in media di cinque figli, quello delle donne israeliane tre. Risultato? Israele non potrà essere contemporaneamente grande (e quindi esente da concessioni territoriali), ebraica e democratica». Professore, il suo è un raro caso di demografo che ha influenzato la politica. Per di più in una delle aree più «calde» del pianeta. Tre anni dopo il ritiro israeliano da Gaza, però, i missili di Hamas piovono sulla vostra terra e i tank israeliani sono tornati nella Striscia. I fatti hanno smentito la sua teoria «terra in cambio di pace e democrazia»? «In linea di principio no. Ma ci deve essere il rispetto delle regole. Proprio giovedì sera mia cugina Susanna Cassuto coniugata Evron, che abita nel kibbutz di Saad, a dieci chilometri da Gaza, ha avuto la sua casa distrutta da un razzo. Per fortuna era a cena da amici: in quella zona quando suona l’allarme hanno 15 secondi di tempo per mettersi al riparo. E se in questo momento la Cisgiordania fosse già stata consegnata all’Autorità palestinese, casa mia rischierebbe la stessa fine: abito a Gerusalemme, a cinque chilometri dalla West Bank. A lei piacerebbe vivere così?». No. Ma è stato lei a consigliare il ritiro dai Territori. Pentito? «Un conto è la linea strategica a lungo termine: continuo a pensare che l’unico futuro possibile sia di vivere in due Stati indipendenti. Anche la stragrande maggioranza degli israeliani non pensa a rioccupare Gaza stabilmente. La riprova? Noi abbiamo sgomberato 8mila coloni ebrei. In cambio, ci si aspettava un dialogo civile. Invece Hamas, che governa la Striscia dal 2006, ha continuato a lanciarci missili. I razzi che piombano in Israele in questi giorni hanno una gittata di 40 chilometri: come da Milano a Lugano. Sono armi di nuova generazione, di fabbricazione cinese, penetrati a Gaza durante l’ultimo periodo di tregua attraverso i tunnel scavati fra la Striscia e l’Egitto, probabilmente arrivati via mare. I finanziatori si trovano forse in Iran. Se la Cisgiordania fosse già in mano ad Hamas, la lunga mano iraniana arriverebbe anche lì, come si è infiltrata in Libano, ossia sul Mare nostrum. L’Occidente deve fare la sua parte». In che modo? «L’idea di una forza d’intervento Onu a Gaza, proposta da Sarkozy, sarebbe giusta, se ci fossero controlli effettivi. Invece finora l’Occidente ha inviato aiuti ai palestinesi, ma senza monitorare il loro uso. Questi soldi sono finiti in armi, non in formazione professionale e in educazione alla convivenza. Perché finché Hamas, nella sua Costituzione, incita a “uccidere ogni ebreo” fa solo capire che per loro il problema non è il ritiro o meno da Gaza e dalla Cisgiordania, ma è l’esistenza stessa dello Stato di Israele».
A febbraio in Israele si vota. Cosa succederà? «Se qualsiasi azione militare israeliana avrà il potere di calmare le acque, i moderati della candidata premier Tzipi Livni potrebbero vincere e il dialogo ripartire. Se invece la situazione rimarrà incerta, o i danni per Israele saranno troppo grandi, prevarrà l’estrema destra. Quella che ora grida “visto, che è stato un errore ritirarsi da Gaza?”. Ma prima delle elezioni, Obama sarà diventato presidente degli Stati Uniti. Avrà un mese per mandare chiari segnali a tutti».
Silvia Kramar - " Io, musulmano convertito dico: Hamas è soltanto una banda di torturatori "
New York - «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici». Fu ascoltando la lettura di questo passaggio del Vangelo secondo Matteo che Mosab Hassan, nel cuore di Gerusalemme, capì di voler abbandonare Hamas.
Hassan era nato nelle strade di Ramallah e Hamas aveva sempre rappresentato i suoi sogni storici, l'immaginario religioso e le sue ambizioni represse di un ragazzino cresciuto nelle moschee dove si inneggiava l'odio dell'estremismo musulmano. Aveva giocato a pallone nel cimitero di Ramallah prima che fosse calpestato dai funerali dell'intifada. Hassan aveva sposato l'estremismo e la violenza spinti ai massimi livelli. Dopotutto lui era un «eletto», un ragazzino privilegiato poiché suo padre era lo sceicco Hassan Yousef, uno dei fondatori, nel 1987, di Hamas. Ma poi, dopo essere stato arrestato e dopo aver visto che l'odio di Hamas portava i sui leader a torturare anche i suoi confratelli, Hassan aveva rifiutato l'ideologia che ne aveva fatto un ragazzino che lanciava sassi contro i soldati israeliani e credeva negli attentati suicidi.
«Quando fui imprigionato nel carcere israeliano di Megida - ha raccontato Hassan al giornalista della rete televisiva Fox, Jonathan Hunt, che nei giorni scorsi ha bucato gli indici d'ascolto trasmettendo l'intervista - cominciai a riflettere. Mio zio Ibrahim Abu Salem, era un capo delle brigate di Hassam ed era imprigionato con me. I suoi uomini erano ossessionati dal dubbio che tra di noi ci fossero delle spie. Avevano istaurato un punteggio chiamato «punti rossi». Se uno si soffermava troppo a lungo nella doccia calcolavano che probabilmente era un collaborazionista dei servizi segreti israeliani. Poi, quando il punteggio raggiungeva una certa quota, partivano le torture. Sentivo le urla, di notte. Torturavano ragazzini e vecchi infilando chiodi sotto le unghie, bruciando loro la pelle con brandelli di plastica scottante. Quando vidi che mio zio, che per me era stato un eroe come mio padre, era quello che dava ordine di torturare, provai orrore».
In quei tre mesi di carcere si rese conto che Hamas non avrebbe mai risolto i veri problemi della sua gente. Aveva poco più di 27 anni quando, camminando davanti al Muro del pianto, aveva incontrato un missionario cristiano. «Vieni e ti insegnerò il Vangelo», gli aveva detto. Aveva seguito questa sua ricerca spirituale, sapendo di rischiare la morte perché Maometto aveva detto che «bisogna uccidere chiunque si converta a un'altra religione».
Adesso Hassan vive in California, si è convertito al cristianesimo, aiuta l'Fbi a svolgere la complessa matassa dei segreti di Hamas e promette di dedicare la sua vita a combattere l'estremismo islamico. Al Qaida l'ha messo sulla sua lista dei most wanted, con una taglia sulla sua vita. Non molti sanno che nei giorni di Natale i legislatori di Hamas hanno approvato a pieni voti un codice della Sharia che ha legalizzato l'uso della crocefissione per i nemici dell'Islam. Anche per questo Hassan sta chiedendo asilo politico negli Usa. «La forza di Hamas sta non solo nelle loro armi ma nelle basi religiose su cui si regge - ha detto alla Fox -. Ma sono convinto che tutte le pareti che l'Islam ha eretto negli ultimi 1400 anni non esistono più. La gente non è più ignorante. Se un padre impedisce a sua figlia di uscire di casa, dal suo computer lei già viaggia attraverso il mondo». Hassan frequenta la chiesa protestante della Barabbas Road, a San Diego. «Non avevo mai sentito parlare del perdono»,ha ammesso questo giovane convinto che il 95 per cento dei musulmani non capisca la propria religione: «L'islam non è la parola di Dio». Sono discorsi che ha voluto fare anche a suo padre, prima di dargli l'addio. «Gli ho detto che sapevo che in fondo al cuore era molto lontano dall'odio di Hamas, che si era lasciato trascinare nel terrorismo. Gli ho detto anche che è molto più vicino al cristianesimo di quanto non sappia».
Luciano Gulli - " Le due guerre di Gerusalemme "
All’El Dorado café, sulla Salah Ed Din animata fino al convulso, il bancone è ancora pieno di babbinatali di cioccolato incartati nella stagnola a colori; di pile di dolcetti natalizi e di quegli orrendi soprammobili tra il pletorico kitsch e il ridondante pacchiano (portaconfetti come acquasantiere, vecchi con la pipa in gesso colorato, pastorelle con tritoni...) che negli anni Sessanta furoreggiavano sui comò di Messina e oggi deliziano le signore della buona borghesia araba gerosolimitana. I mariti, come al Sud da noi, fanno cerchio in disparte e commentano i fatti del giorno. Ma è più facile che si senta la parola «fave» (nel senso delle leguminose) che, inshallah, già si vedono al mercato grazie a questo anticipo di primavera, che qualcuno di essi pronunci la parola «Gaza». Non è disinteresse, non è cinismo. È assuefazione al disastro, alla sciagura, alla guerra. Soprattutto, non è simpatia per la causa dei capi mandamento di Khan Yunis e di Gaza City che giravano tronfi come tacchini nelle loro divise nere, col mitra ad armacollo, e pensavano di farla da padroni contando sul combinato disposto di mitra e Corano, che fino a un certo punto è andato per la maggiore. Sì, l'ennesimo padre con la keffiah bianca e rossa intorno al collo che regge il cadaverino del figlio tra le braccia, riproposto da Al Jazeera commuove, come no. Ma dura il tempo che dura. È dai tempi di Arafat che facce di innocenti ammazzati come agnellini fanno il giro del mondo. Però «non ci si può strappare i capelli tutta la vita senza darsi una alternativa, senza credere che un'altra vita, fatta di studio, di lavoro, di week end, di ballo, di vacanze: una vita normale, come la vostra, di italiani, o di francesi, sia davvero possibile. E poi, un conto è difendere la causa, senza rinunciare alla restituzione da parte di Israele dei Territori occupati nel 1967; e un altro è progettare la costruzione di una repubblica islamica, come sognano quelli di Gaza». Non è, questa, solo l'opinione di Ahed Izhiman, 26 anni, figlio di Adli e fratello di Amr, proprietari del caffè più elegante della Gerusalemme est. È l'opinione della borghesia mercantile araba, stanca di guerra, di odio, del muro contro muro, delle intifade in cui sono cresciuti. Ne abbiamo già parlato, su queste pagine; ma è stupefacente vedere come l'opinione generale, anche ora che i morti a Gaza son diventati più di 500, non sia cambiata. «Quelli sognano ogni notte di essere come gli Hezbollah. Vanno in giro vestiti da Rambo e pensano di essere gli unici palestinesi degni di questo nome. Ma è sempre stato così, storicamente. Quelli di Gaza hanno sempre guardato alla gente della Cisgiordania come a palestinesi di serie B», commenta l'avvocato Al Antaui. «Io ho votato Hamas - dice il proprietario di un vicino negozio di elettrodomestici - perché ho creduto che rappresentassero il cambiamento. Protestavo contro la banda di Al Fatah, corrotti e corruttori. Ma tre anni fa, quando si votò, non avrei immaginato che il mio voto andasse ad armare il braccio di questi dementi che ora piangono, dopo aver tirato centinaia di inutili razzi e aver fatto imbestialire il nemico comune. Il nemico è più forte. Sul piano militare vince sempre lui, che gusto c'è? Che intelligenza politica hanno, questi imbecilli?». In queste giornate cupe, scandite dalla pioggia di fuoco bianco che si rovescia su Gaza, e visto in tv sembra pensato da specialisti di fuochi artificiali napoletani, si assiste al ritorno di vecchi fantasmi che la cronaca aveva gettato di lato da un pezzo. Sono i coloni degli insediamenti di Gaza fatti sloggiare con la forza da Ariel Sharon tre anni fa. Allora furono i soldati a farli uscire dalle loro case tenendoli per le orecchie. Ora ci sono tornati. E a vestire l'uniforme son loro. Come Aharon Cruz, ufficiale dei paracadutisti, spedito nell'ex colonia di Netzarim, nel centro della Striscia, dove è stato ragazzo. «Da giorni - dice suo padre, rabbi Zeev Cruz - mi pongo la stessa domanda: a che è servita quella umiliazione che ci venne inflitta?». «Quel che dicevamo allora si è verificato puntualmente - ammonisce Ami Shaked, capo della sicurezza nella colonia di Gush Katif, anch'egli padre di un parà -. Ma forse è colpa nostra. Non ci saremmo dovuti arrendere così facilmente». Yossi Neuman, ufficiale di riserva che un tempo viveva a Neveh Dekalim, ha visto partire per la guerra suo figlio Itai, comandante di un carro armato. «Che amarezza - dice -. Oggi stiamo combattendo per riottenere quel che avevamo già. Abbiamo detto fino alla nausea che i razzi di Hamas avrebbero raggiunto Ashkelon, ma ci rispondevano che eravamo fissati, che eravamo paranoici». Molti, tra i vecchi settlers di Gaza, sognano di tornarvi. E non vogliono sentirsi dire che è un sogno a occhi aperti. Itzik Vazana è uno di questi. «È come se si stesse chiudendo un grande cerchio - sorride mesto il vecchio Itzik -. Ma alla fine torneremo a Netzarim. Noi coloni siamo stati il giubbotto antiproiettile di Israele. Torneremo. Non dico che accadrà domattina, ma è un processo che maturerà lentamente, vedrà».
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