Dalla STAMPA di oggi, 06/01/2009, riprendiamo tre servizi. L'editoriale di A.B.Yehoshua, nel quale lo scrittore israeliano riprende i temi tradizionali del suo impegno politico. Le sue riflessioni le condividiamo ampiamente, come come crediamo stia facendo il governo di Gerusalemme. Come dice Yehoshua, occorre fin da oggi, lavorare a una tregua, anche se ci aspettano ancora giorni di guerra e lanci di razzi. E' l'obiettivo di Israele, mentre Tzahal, in attesa di raggiungerlo, elimina arsenali, tunnel, postazioni lancia razzi. Seguono due corrispondenze di Francesca Paci che commentiamo singolarmente.
A.B.Yehoshua - " Tregua, subito "
Se abbiamo a cuore la nostra sopravvivenza futura non dobbiamo dimenticare una cosa fondamentale mentre è in corso l’operazione «Piombo fuso», così chiamata a citazione di una canzoncina di Hannukah che racconta di una piccola trottola.
Quella trottola, uno dei simboli della festività, è ricavata dal piombo fuso.
Gaza non è il Vietnam, né l’Iraq, né l’Afghanistan, e non è nemmeno il Libano. È una regione che fa parte della patria comune a noi e ai palestinesi. Una patria che noi chiamiamo Israele e loro Palestina.
A Gaza vivono un milione e mezzo di persone, membri di un popolo che conta un altro milione e trecentomila componenti in Israele e più di due milioni in Cisgiordania. Gli uomini e le donne di Gaza sono innanzi tutto nostri vicini e vivranno spalla a spalla con noi per sempre, anche se separati da una frontiera. Le nostre case e le nostre città sono a pochi chilometri di distanza dalle loro, i nostri campi lambiscono i loro. Gli uomini di Gaza, attivisti o poliziotti di Hamas che osserviamo attraverso binocoli militari, erano in passato attivisti o poliziotti di Al Fatah, nati a Gaza o giunti lì come profughi durante la guerra del 1948, o in altre guerre. Nel corso degli anni sono stati muratori nei nostri cantieri edili, lavapiatti in ristoranti dove abbiamo cenato, negozianti presso i quali abbiamo acquistato merci, operai nelle serre di Gush Katif, o altrove. Sono nostri vicini e lo saranno in futuro e questo ci impone di considerare con molta attenzione quale tipo di guerra combattiamo contro di loro, il suo carattere, la sua durata, la portata della sua violenza.
Noi israeliani non abbiamo nessuna possibilità di estirpare il governo di Hamas a Gaza, come non avevamo nessuna possibilità di estirpare l’Olp dal popolo palestinese. Sharon e Begin arrivarono fino a Beirut, pagando un prezzo terribile e sanguinoso, per ottenere questo risultato. E che accadde? Sia Sharon sia Netanyahu sedettero a un tavolo con Arafat e i suoi rappresentanti per tentare di negoziare un accordo. E ora il vice del defunto leader palestinese, Abu Mazen, è ospite fisso e gradito presso di noi.
Dobbiamo rendercene conto: gli arabi non sono creature metafisiche ma esseri umani, e gli esseri umani sono soggetti a cambiamenti. Anche noi cambiamo le nostre posizioni, mitighiamo le nostre opinioni, ci apriamo a nuove idee. Faremmo bene a levarci di testa al più presto l’illusione di poter annientare Hamas, di poterlo sradicare dalla Striscia di Gaza. Dobbiamo invece lavorare con cautela e buon senso per raggiungere un accordo ragionevole e dettagliato, una tregua rapida in vista di un cambiamento di Hamas. È possibile, è attuabile.
È accaduto più volte nel corso della storia. Ma anche se cominceremo fin da oggi a lavorare a una tregua ci aspettano ancora giorni di guerra, di lanci di razzi. Almeno, però, avremo la consapevolezza di non combattere per un obiettivo irrealizzabile che porterà altro sangue e devastazione. Sangue e devastazione che peseranno sulla memoria collettiva dei figli dei nostri vicini i quali resteranno all’infinito tali, anche se la trottola continuerà a girare.
(Traduzione di A. Shomroni)
Francesca Paci - " Fratello Ismail i tuoi razzi cadono su di noi "
In questo articolo, interessante per l'appartenenza famigliare degli intervistati, Francesca Paci, oltre ad essere colpita dal colore degli occhi dei parenti di Haniyeh che vivono in Israele, usa un linguaggio estremamente cauto nel descrivere quanto vede, che fa il paio con le riserve verbali degli intervistati. Eccolo:
DALL’INVIATA A TEL SHEVA (BEERSHEVA)
«Ismail è stato sempre il preferito. Era il più piccolo, l’ultimo di nove figli di cui solo due maschi: lo viziavamo tutti, dato che adorava il pesce l’intera famiglia mangiava pesce per compiacerlo». Khaldia abu Rakik abita in una casa a due piani nel villaggio beduino di Tel Sheva, 15 mila anime concentrate in un dedalo di sterrati alla periferia di Beersheva, la capitale del Negev colpita ieri da tre razzi Grad. A una cinquantina di chilometri da qui, suo fratello Ismail Haniyeh, leader di Hamas ed ex premier palestinese, presidia quel che resta del quartier generale del partito islamico tra le rovine di Gaza City assediata dall’esercito israeliano.
Il conflitto è vicino, vicinissimo. Ma Khaldia, che parla solo arabo, si trincera dietro il velo scuro da cui spuntano due occhi azzurri identici a quelli del fratello. «Vorrei che tutti smettessero di sparare, che Hamas la piantasse con i missili e Israele si fermasse», ha detto al quotidiano israeliano Maariv la sera prima dell’inizio dell’operazione di terra. Ventiquattr’ore dopo non ha cambiato idea. «La situazione è brutta, abbiamo paura», ripete. Ma guai a domandare troppo d’Ismail: «Lasciateci in pace». La nipotina di quattro anni, che gioca con la palla nel giardino chiuso da un cancello automatico decorato con colombine rosse, intuisce la mala partita e si ritira in casa trotterellando dietro alla nonna e al nonno cieco, che incede lento con il bastone.
«Povero sheik abu Rakik, ha chiuso gli occhi una volta per tutte per non dover vedere il cognato», scherza il vicino Salah abu Amra, 46 anni e già in pensione dopo un quarto di secolo d’onorata carriera d’impiegato al carcere di Beersheva. Non ci vuole molto per capire da che parte stia: «Sono arabo ma ho fatto il militare nel reparto beduino dell’esercito israeliano, la guerra è guerra». Ha letto su Internet che perfino l’attore egiziano Adel Imam, stella del firmamento cinematografico mediorientale e protagonista del film «The Terrorist», si è dissociato dal partito islamico al potere a Gaza. E se lo dice lui al Cairo, figurarsi qui.
Nel quartiere, la zona 8 di Tel Sheva, le conoscono tutti, le sorelle di Ismail Haniyeh, tre come quelle di Cechov, sospese in un presente di attesa. I ricordi d’infanzia nel campo profughi di al Shati, nella Striscia di Gaza, la nuova famiglia, la città dove crescono i figli e i muri coperti di manifesti strappati rammentano le ultime elezioni amministrative vinte da una lista civica vicino a Kadima, il partito del ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni.
Khaldia, Layla e Zabhak sono arrivate nel Negev trent’anni fa. Khaldia ne aveva 29, sposò un beduino, come le altre due, e ottenne il passaporto israeliano. Nel 1986, un anno prima che lo sceicco Yassin fondasse Hamas, si trasferì a Tel Sheva insieme a Layla e Zabhak, nel frattempo rimaste vedove. Abitano ancora tutti qui, compresi i dieci figli di Khaldia, metà dei quali con gli occhi chiari dello zio. Qualcuno di loro è andato a trovarlo a Gaza un paio di volte negli anni passati, ma da quando i razzi lanciati da Hamas hanno cominciato a raggiungere Beersheva, Tel Sheva preferisce tacere. «Non ci va di parlare di lui, zio Ismail fa la sua vita e noi la nostra», taglia corto Rasmi, il figlio maggiore di Khaldia. Due donne velate a bordo di un fuoristrada raccontano brevemente che la vicina non nomina quasi mai il fratello minore: «Sappiamo solo che a scuola aveva sempre ottimi voti». Niente di più.
Davanti a casa Abu Rakik, protetta dal cancello automatico ormai serrato, due ragazzini in bicicletta gareggiano fingendo di spararsi, pum pum pum. Parlano in arabo. Quello che insegue l’altro ha la kefia intorno al collo e grida all’altro di fermarsi. «Ti prendo, sono Dahlan», urla tutto compunto nel ruolo dell’uomo forte di al Fatah, prima dell’era Hamas, Mohammed Dahlan. \
Francesca Paci - " La Striscia "
Nel raccontare brevemente la storia di Gaza, Francesca Paci avrebbe dovuto essere più attenta ai pericoli che un riassunto inevitabilmente contiene. Per esempio, perchè definire Gaza " uno dei luoghi più densamente popolati al mondo ", senza dire che la cifra di un milione e mezzo di abitanti non era quella del 1948, ma quella di oggi ? La natalità a Gaza è la più alta del mondo, ed è la causa prima dei problemi assistenziali della Striscia. Perchè non scrivere mai - e qui la Paci è in buona compagnia - che mettere al mondo 12 o 18 figli equivale poi a non avere poi la possibilità di mantenerli ? Questa impossibilità viene poi scagliata contro il cosidetto imperialismo dei governi occidentali, attribuendogli la responsabilità di una condizione di povertà che invece è tutta da cercare nella loro società. Israele poi, di pensierini - come scrive la Paci - su Gaza, non ne fece mai, nemmeno nel 1948 e nel 1967. Fu l'Egitto, al quale spettava la sovranità, e tirarsi fuori. E la patata bollente rimase nelle mani di Israele. Gaza poi, non fu mai un "corridoio ", come scrive la Paci. Per andare dove ? Era una fetta dell'Egitto, questo si, oppure di Israele, che finì per accollarsela senza nessuna voglia. Se Israele avesse ragionato come l'Egitto, avrebbe dovuto starne fuori, se ne occupase l'Onu. Una decisione cinica, che però avrebbe dato migliori risultati. Non è poi vero, come scrive la Paci, che tutti contro tutti lottino per il "possesso" di Gaza, Israele certamente no. Vorregge solo che da Gaza la smettessero di lanciare razzi sulle sue città. Ingenerosa la citazione finale, nostalgica di Gaza pre- 2005. Gli israeliani se ne sono andati, e non vogliono tornarci per nessuna ragione al mondo, perchè allora quella conclusione ? Francesca Paci, visto che la STAMPA chiuderà l'ufficio di Gerusalemme, se ne andrà a Londra. Malgrado le nostre critiche, la rimpiangeremo. Verrà sostituita da Aldo Baquis, già collaboratore del quotidiano torinese, corrispondente anche di ANSA, l'agenzia che i nostri lettori ben conoscono per essere attenta nel riportare con assoluta ubbidienza le fonti palestinesi. Ecco l'articolo:
La verità è che neppure qui a Ramallah abbiamo tanta voglia di occuparci di Gaza», ammette Ali abu Gheit, 49 anni, dentista palestinese con l’ufficio a pochi isolati dalla Muqata, il quartier generale del presidente Abu Mazen.
Non c’è pace per la Striscia di Gaza. Dal piano di Spartizione delle Nazioni Unite del 1947 al conflitto degli ultimi giorni il destino di questo fazzoletto di terra lungo 40 chilometri e largo 10, uno dei luoghi più densamente popolati del mondo, è rimbalzato da uno all’altro dei contendenti, sotto sotto indifferente a tutti.
«Il primo ad aver capito che era meglio starne alla larga è stato Ben Gurion», osserva Amatzia Baram, docente di storia del Medioriente all’università di Haifa, uno dei maggiori esperti israeliani. Correva il 1949, anno primo dell’infinita guerra arabo-israeliana. L'Egitto aveva appena messo le mani su Gaza e, ad eccezione di una breve parentesi nel 1956, l’avrebbe tenuta fino al 1967. Senza nessun rimpianto da parte del fondatore dello Stato ebraico: «Ben Gurion non la voleva. Diceva che dopo l’armistizio raggiunto con la mediazione dell’ufficiale americano Ralph Bunche la Striscia aveva dato asilo a molti rifugiati, era già un focolaio di rivendicazioni e rabbia, molto meglio che restasse agli egiziani».
In realtà, nel 1956 Israele un pensierino ce lo fece. Dopo essere passata dagli ottomani agli egiziani attraverso un interregno inglese durante il mandato britannico della Palestina, Gaza avrebbe potuto nuovamente cambiare padrone. Come il presidente egiziano Nasser, Israele guardava con interesse al canale di Suez e al corridoio di Gaza. Alla fine non se ne fece niente: dopo 4 mesi di occupazione le truppe con la stella di David, avanzate nel frattempo fino al Sinai, si ritirarono lasciandosi alle spalle, ma non per molto, la questione meridionale.
Parecchi a Ramallah sono convinti che sia stata l’influenza del Cairo ad allontanare i palestinesi del Sud da quelli del Nord, all’epoca sotto il controllo giordano. È la tesi del dentista abu Gheit: «Gaza è rimasta tradizionale, contadina, arretrata, terreno fertile per l’estremismo religioso». Basta fare un giro nelle strade intorno al suo studio, dove ogni giorno apre un ristorante nuovo e le vetrine espongono i prodotti delle più prestigiose marche occidentali, per capire il peso reale dei cento chilometri che separano la capitale della Cisgiordania da Gaza.
Il professor Baram ritiene invece che il problema sia precedente: «La situazione economica di Gaza era catastrofica già negli Anni 40. Col tempo è peggiorata, aggravata dall’influenza anti-occidentale dei Fratelli Musulmani, il movimento fondamentalista islamico egiziano. Nel 1967, all’indomani della Guerra dei sei giorni, Egitto e Israele hanno cominciato il gioco dello scarica-barile». Vinse (o perse) Israele e guadagnò il controllo di un milione e mezzo di abitanti di cui il 70 per cento sotto la soglia di povertà. Ventisette anni dopo, in seguito agli accordi di Oslo, la sovranità passò all’Autorità nazionale palestinese di Yasser Arafat, il primo e finora l’unico a rivendicare Gaza.
«Questa piccola striscia di terra stretta tra il Mediterraneo, l’Egitto e Israele era diventata per Arafat il nucleo del progetto dello Stato palestinese», racconta Gerald Butt nel volume «Life at the crossroads. A History of Gaza». All’epoca Israele non si era ancora ritirata completamente, manteneva ventuno colonie disseminate sul 20 per cento del territorio, piantagioni di banani e serre di fragole grandi come mandarini. Bisognerà attendere il 2005 perché il premier Ariel Sharon decida unilateralmente di smantellare gli insediamenti di Gaza uno a uno, riservandosi il controllo dei confini, dello spazio aereo e del mare.
Il resto è storia di questi giorni. La vittoria del partito islamico radicale Hamas alle elezioni palestinesi del 2006 e l’embargo internazionale capitanato da Europa e Stati Uniti che considerano il partito islamico un’organizzazione terrorista. La guerra civile del 2007 con i fratelli coltelli di al Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, che in pochi giorni fece oltre un centinaio di morti. L’influenza trasversale dell’Iran, grande armatore di Hamas, e la profonda islamizzazione della società dove resiste solo uno 0,7 per cento di cristiani. Lo scontro frontale con Israele combattuto dai militanti di Hamas e della Jihad islamica a colpi di razzi lanciati sulle città del Negev fino all’invasione dei tank con la stella di David sabato notte. Tutti contro tutti per il possesso di Gaza, strategica ma poverissima, o per il suo definitivo abbandono.
La terra bruna è fertile e generosa ma in mancanza di macchinari agricoli l’attività principale dei gaziani è la pesca, fortemente limitata dal controllo israeliano del mare. Le famiglie sono numerose e più della metà della popolazione vive con gli aiuti dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi.
«La maggior parte sono profughi del 1948 che vivono di ricordi, sognano Haifa, Tel Aviv, quello che oggi è lo Stato ebraico», continua il professor Baram. Quando Gaza era «israeliana» andava spesso da quelle parti per i suoi studi: «Ho incontrato ragazzi di vent’anni che non erano neppure nati all’epoca della guerra del 1967 e dicevano di voler tornare a casa a Jaffa, nella terra dei nonni, dei bisnonni». Il mito dell’eterno ritorno. Per tutti. C’è anche chi sostiene che Gaza dovrebbe ridiventare egiziana, come l’ex ambasciatore americano all’Onu John Bolton che ieri, dalle colonne del Washington Post, suggeriva l’ipotesi creativa di una soluzione «tre popoli tre stati». Un nuovo giro di roulette.
«Peccato, a noi Gaza non dispiaceva affatto». La voce di Aharon Cruz, ufficiale di fanteria impegnato in prima linea nell’ennesima guerra di Gaza, arriva da lontano, assai più lontano della trincea di Jabalya, al di là delle linee nemiche e del tuono dei cannoni. Aharon viveva a Netzarim, il maggiore degli insediamenti ebraici evacuati nel 2005 da Sharon. Ora si ritrova a sparare tra le rovine della vecchia casa di famiglia, condannato, come i miliziani che prende di mira, a una eterna coazione a ripetere la stessa strada nel labirinto di Gaza.
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