Dal FOGLIO di oggi, 06/01/2009, riprendiamo le analisi di Carlo Panella e di Daniele Reineri, da pag. II dell'inserto.
Carlo Panella - "Se l'Europa studiasse la storia delle tregue
non ne chiederebbe più"
L’irrilevanza politica dell’Europa si misura in pieno in queste ore drammatiche, con un di più: tutti i protagonisti mediorientali sono costretti a sottoporsi al grottesco obbligo di incontrare due delegazioni europee, che chiedono le stesse cose e che con ugual fervore e cortesia sono invitate a tornarsene a casa al più presto perché le loro proposte non sono “viables”, come si diceva un tempo nelle cancellerie. Sia la delegazione ufficiale dell’Unione europea, capeggiata dal ceco Karol Schwarzenberg, sia quella stile “second life”, che un irruento Nicolas Sarkozy si è inventato per far capire al resto d’Europa che chi conta è soltanto la Francia, si presentano con una richiesta così fuori dalla dinamica dei fatti, che in altro contesto sarebbe tragicomica: una tregua. Le due delegazioni europee fanno finta di ignorare che si è arrivati alla guerra proprio e soltanto perché la tregua è stata dichiarata unilateralmente fallita da Hamas ben ventuno giorni fa, che tutti i tentativi israeliani ed egiziani di riproporla sono andati avanti per due settimane – dal 15 al 28 dicembre – e che l’Ue e Sarkozy per primo si sono disinteressati di quel passaggio cruciale. Per questo intervento così “fuori tempo”, Sarkozy è stato gentilmente pregato di occuparsi d’altro da Tipzi Livni durante i loro colloqui parigini e la stessa sorte è toccata alla delegazione europea a guida ceca. In realtà, né Sarkozy né i dirigenti dell’Unione europea sono realmente interessati all’ottenimento effettivo della tregua – se lo fossero, avrebbero anticipato questi loro viaggi e appelli al 15 dicembre scorso – perché quel che loro preme è il consenso interno delle loro opinioni pubbliche nazionali e il gioco degli schieramenti sulla scacchiera internazionale. La riprova di questo giudizio impietoso su un’Europa ormai oltre l’agonia politica è proprio nella storia delle “tregue” di Gaza degli ultimi due anni, storia da cui l’Europa si è ben tenuta alla larga, dopo avere effettuato un primo, disastroso intervento. La prima tregua tra Hamas, l’Olp e Israele fu siglata appunto con un forte intervento dell’Ue che – col pieno appoggio del segretario di stato americano, Condoleezza Rice – impedì all’allora premier, Ariel Sharon, di escludere Hamas dalle elezioni politiche del 26 gennaio 2006. Errore mortale, perché Hamas non riconosceva il processo negoziale di Oslo che aveva portato alla nascita dell’Anp, era contrario a riconoscere l’esistenza di Israele e ha uno statuto di marca teocratico- nazista-antisemita che nega ogni istanza democratica. Quella tregua mal nata bloccò comunque soltanto per pochi mesi la guerra civile strisciante tra le fazioni palestinesi, iniziata dopo la morte di Arafat (Abu Mazen scampò per un soffio ad un attentato quando si recò per la prima volta a Gaza), soprattutto dopo che Gaza fu abbandonata, nell’estate del 2005, da Israele. Nell’autunno del 2006, dopo che il rapimento del caporale Shalit ad opera di Hamas aveva reso incandescenti i rapporti con Israele, i morti nelle nuove stragi interpalestinesi furono circa cinquecento. Allora la Lega araba e l’Arabia Saudita giocarono tutto il loro peso per ottenere una tregua. Tregua, si badi bene, nei macelli tra palestinesi, non con Israele. Tregua che fu siglata l’8 febbario del 2007 a Riad e che fu subito definita “storica”, ma che durò per pochi mesi. Nel giugno del 2007, Hamas effettuò infatti quel che Abu Mazen definì un “golpe” e uccise quasi tutta la dirigenza di al Fatah a Gaza (col pieno appoggio dell’Iran di Mahmoud AhAhmadinejad). Da allora iniziarono i contatti tra Omar Suleiman, capo dei servizi segreti del Cairo, e Israele, tra Hamas e Israele, tra Hamas e al Fatah, due percorsi interdipendenti, dal momento che ormai Abu Mazen è considerato affidabile da Gerusalemme. La tregua tra Hamas e Israele (cinquemila erano stati i razzi tirati da Gaza su Sderot e Ashkelon dal 2005) fu siglata il 19 giugno 2008. Quella tra Hamas e al Fatah era pronta per la firma il 20 novembre in Qatar. Ma il 20 novembre Hamas denunciò ogni ipotesi di accordo con Abu Mazen, e poi con Israele. Da allora, il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha tentato con ogni mezzo di ritessere – grazie a Omar Suleiman – il filo di una tregua, nel totale disinteresse europeo – ma il 28 dicembre ha dovuto prendere atto della sua impraticabilità. Nella logica jihadista di Hamas, la tregua – “hudna” – non è preludio all’accordo di pace, ma soltanto un interludio per acquistare forze e armi e sferrare l’attacco definitivo, come fece Maometto con i meccani nel 630 d.C. a Hallabijah. Come fa da anni Hamas a Gaza.
Daniele Raineri - " Israele lavora a un accordo a quattro mani contro un altro riarmo "
Roma. Cancellare il potere politico e militare di Hamas dalla Striscia con una campagna infernale, combattuta palmo a palmo, fin sui tetti e giù dentro le cantine, è possibile. E dopo? Israele ha alcune opzioni davanti, alcune più realistiche altre meno. La meno desiderata è l’amministrazione militare permanente. Il governo di Gerusalemme guarda con orrore a un’occupazione a lungo termine della Striscia e ha già escluso questa strada più volte e a chiare lettere. L’ultimo a farlo è stato il presidente Shimon Peres. “Il nostro obbiettivo non è l’occupazione di Gaza”. Anche lo stato maggiore è d’accordo, per ragioni concrete – e agli israeliani non servono altre ragioni in più. Accettare il controllo del territorio significa accollarsi la madre di tutti i problemi di sicurezza, un rettangolo allungato affollato da un milione e duecentomila persone, in cui ogni civile che si presenta davanti a un checkpoint è un potenziale terrorista inmissione suicida. Restare a Gaza più del necessario sarebbe fare l’opposto di quanto ha fatto Israele fino a oggi: tagliare fuori gli estremisti, cercare di isolare le fonti di guai, consegnare i duri alla loro solitudine. Resta il dilemma politico – “Chi comanderà adesso?” – che poi è il centro di tutte le guerre contro il terrore. Gli americani in Iraq possedevano molte volte il potenziale militare necessario a cacciare Saddam Hussein dai suoi palazzi di Baghdad: ma hanno fallito a redistribuire il potere politico a partire dalla fine delle ostilità, e ci hanno messo quattro anni per recuperare. A Gaza City non arriverà un improbabile Paul Bremer israeliano. Il governo lavora sull’ipotesi più solida: l’operazione Piombo fuso dovrebbe concludersi con un accordo politico fondato su un nuovo sistema di controllo del territorio, più stretto, e di prevenzione del contrabbando di armi attraverso il confine fra Gaza e l’Egitto.pagina) Un accordo politico con chi, con Hamas? Nemmeno per idea. “Noi non riconosceremo Hamas come interlocutore – dice al telefono Miri Eisin, colonnello dell’esercito, analista nella direzione dell’intelligence militare – non tratteremo con Hamas, un’organizzazione di terroristi che ha preso il potere a Gaza con la violenza”. L’obbiettivo è il regime change, sradicare il potere di Hamas e sostituirlo con quello di Fatah, che dimostra di essere più disposta a trattare? “No, niente regime change con l’Anp – dice Eisin – Israele con Hamas ha soltanto un obbiettivo militare: bloccare la sua capacità di esportare il terrore con i razzi, gli attacchi suicidi, il contrabbando di armi e militanti attraverso il confine sud”. Eppure, il nuovo sistema di controllo su Gaza sarà diretto da un comitato già esistente, con rappresentanti di Israele e dell’Autorità nazionale palestinese, e anche di Egitto e Stati Uniti. Hamas non sarebbe ovviamente rappresentata all’interno del comitato, ma l’aspettativa – realistica – è che continuerebbe per ora a mantenere il suo controllo sulla Striscia di Gaza. Secondo Martin Kramer, analista mediorientale solitamente ben informato, la guerra contro Hamas aprirà anche la strada al cambio di potere politico. “L’obiettivo di Israele è riportare Gaza sotto il controllo dell’Autorità palestinese, anche se in modo graduale: il messaggio ai palestinesi è chiaro, ‘Hamas è un vicolo cieco’”. I modi per favorire il cambiamento sono tanti. Per esempio l’Anp può essere di nuovo incaricata di controllare il valico di Rafah con l’Egitto, come già richiesto dal Cairo. Il nuovo accordo di controllo avrà come obbiettivo più importante proprio il sud della Striscia, il lato che confina con l’Egitto. Oppure – sostiene ancora Kramer – all’Anp potrebbe essere dato il controllo esclusivo sul budget per la futura ricostruzione di Gaza, per riparare i ministeri, le infrastrutture, le case e le moschee danneggiate: nella Striscia non ci sono materiali per la ricostruzione, e anche il cemento deve essere trasportato su camion da Israele. Se dopo la guerra Gerusalemme volesse sollevare le sanzioni economiche oggi in vigore, potrebbe infine decidere di farlo soltanto attraverso i canali dell’Anp. Secondo i giornali di Gerusalemme questa soluzione politica – il comitato a quattro, Anp inclusa – è stata proposta dal primo ministro Ehud Olmert fin dalla fase preparatoria dell’operazione e poi è stata approvata durante lo stesso incontro – partecipanti il ministro della Difesa, Ehud Barak, e il ministro degli Esteri, Tzipi Livni – che ha dato il via all’offensiva di terra cominciata sabato sera. Per ora il piano è nelle mani dell’ufficio del primo ministro, con uno staff misto di funzionari di Esteri e Difesa. L’Amministrazione Bush si tiene in contatto con telefonate e mail, ma rifiuta di mandare rappresentanti anche soltanto di basso livello nell’area. Ovviamente, lascia il compito di nominare i rappresentanti di parte americana al presidente entrante Barack Obama. L’accordo in lavorazione assomiglia all’intesa che governava il cessate il fuoco tra Israele e il Libano dopo l’operazione militare “Grapes of Wrath” della primavera del 1996. Un gruppo di controllo che includeva israele, Libano, Siria, Francia e Stati Uniti fu formato per decidere su ogni violazione dell’accordo che proibiva il fuoco sui civili. Hezbollah, la versione nord di Hamas, non era parte dell’accordo, ma tutti erano tacitamente d’accordo nel considerare la Siria come patrono ufficiale. Oggi, a Gaza, Israele non vuole una risoluzione del Consiglio di sicurezza che obblighi le parti a una tregua forzata – come è accaduto con la 1.701 dell’agosto 2006 nel sud del Libano – perché non vuole dare ad Hamas il rango di avversario legittimo permettendogli di essere firmatario di un patto. Piuttosto, a Gerusalemme vogliono che l’Anp impersoni il ruolo del Libano nel 1996 – ovvero quello di comunità più grande che ha la sfortuna di ospitare un gruppo estremista e belligerante al suo interno – e torni a rappresentare tutti i palestinesi. Per questo, per bloccare il ritorno di Fatah dopo la guerra, Hamas ha dichiarato la “terza intifada” contro Abu Mazen in Cisgiordania e sta chiedendo alle ali più intransigenti di unirsi alla lotta. Chi non ci sta, è ucciso, o ferito, come negli ultimi dieci giorni è accaduto ad almeno un centinaio di uomini di Abu Mazen a Gaza.
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