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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Benny Morris- Gli indegni eredi di Ben Gurion 05/01/2009

Pubblichiamo un articolo di Benny Morris, apparso domenica 4 gennaio a pagina 29 nell’inserto culturale del Sole 24 Ore, intitolato “Indegni eredi di Ben-Gurion” sul libro di Avraham Burg “Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico” (traduzione di Elena Loewenthal, Neri Pozza, Euro 19,00).

 

Si tratta di un saggio che fa molto discutere, contiene “critiche condivisibili ma anche molte assurdità e sfocia nell’antisionismo di maniera”.

 

 

 

 

“Proprio mentre si trova di fronte alla nuova sfida alla sua esistenza posta dal procedere del programma nucleare militare iraniano, Israele è alle prese con una profonda crisi di leadership. Le elezioni politiche sono in calendario per il 10 febbraio e all’orizzonte non si vede nessuna guida autorevole. Anzi, di fatto il panorama politico è proprio desolato.

 

Tutto ciò segna una profonda distanza dai primi cento anni del sionismo, quando al timone c’erano uomini determinati e votati alla causa. Durante la prima crisi in cui Israele vide in gioco la propria sopravvivenza, nel 1948, quando il nuovo Stato ebraico (che aveva 650mila abitanti) venne attaccato dagli arabi, David Ben-Gurion lo guidò con mano sicura (provate a fare un confronto con l’ottusa ed esitante leadership di Olmert durante la Seconda guerra del Libano, nel 2006) e lo condusse con fermezza alla vittoria e al riconoscimento internazionale. Uomo ideologico ma al contempo anche pragmatico, Ben-Gurion, facendo mostra di scaltrezza e di una travolgente volontà di potenza, lavorava ventiquatt’ore su ventiquattro (i suoi figli non lo vedevano quasi mai) e non accumulò nessuna ricchezza personale (morì in una baracca nel kibbutz di Sdeh Boqer, nel deserto del Negev).

 

I suoi immediati successori, nonostante le loro manchevolezze, erano mossi come lui dall’ardore sionista e dalla ricerca del bene comune. Moshe Sharett (laburista), Levi Eshkol (laburista), Golda Meir (laburista) e Menachem Begin (del Likud) morirono tutti senza ricchezze e, in vari modi, schiacciati sotto il peso delle circostanze avverse e delle loro pesanti responsabilità.

 

I politici di oggi sono tutta un’altra razza: Olmert, Netanyahu e Barak hanno trascorso anni interi ad ammassare ricchezze, sfruttando enormemente i contatti garantiti dai loro lunghi periodi in carica.

 

Avraham Burg è il miglior esempio della costante erosione dell’ethos sionista a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Con lui, però, tale erosione non si è limitata a percorrere il tragitto dalla ricerca del bene pubblico a quella dell’interesse privato, ma si è spinta oltre, fino a sfociare in una posizione apertamente antisionista.

 

In questo vi è un’ironia davvero sorprendente: come presidente dell’Agenzia ebraica e dell’Organizzazione sionista mondiale (1995-1999) e come portavoce del parlamento israeliano, la Knesset (1999-2003), Burg è stato per anni l’incarnazione e il simbolo stesso del sionismo.

 

Ma poi la disillusione ha avuto il sopravvento. In “The Holocaust is Over (tradotto in Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico), che racconta la sua evoluzione intellettuale, Burg cita le parole di sua madre: “Questo Paese (Israele, intorno al 2000) non è quello che abbiamo costruito. Nel 1948 avevamo fondato un Paese diverso, ma non so che fine abbia fatto” (pagina 49).

 

E la madre di Burg aveva certamente ragione. L’Israele del 1948 era un Paese più egualitario, aveva una società ebraica (essenzialmente ashkenazita) più unitaria, più convinta del proprio destino e di come la propria causa fosse sostanzialmente vera e giusta. L’Israele di oggi è multiculturale, liberale e tollerante, più democratico e più prospero.

 

Ma Burg si scaglia sia contro l’Israele del 1948, sia contro quello (ebraico) di oggi. Il nocciolo del suo discorso è semplice. Hitler ha vinto (pagina 6); Israele è una società malata, “un ghetto di bellicoso colonialismo” (pagina 35), “paranoico” e “schizofrenico” in conseguenza dell’Olocausto (pagina 23). Egli parla dell’”assoluto monopolio e il predominio della Shoah su ogni aspetto delle nostre vite” (pagina 17), delle “reazioni tra ebrei e arabi, religiosi e laici, sefarditi e ashkenaziti” che sono tutte governate dalla Shoah (pagina 23). Come Norman Finkelstein, anche Burg parla dell’”industria dell’Olocausto” (pagine 4-5) e, spingendosi un passo oltre, dell’”epidemia della Shoah”. Stendendo un velo su queste assurdità, non ci possono essere dubbi sul fatto che l’Olocausto abbia lasciato una profonda cicatrice sulla psiche ebraica e che ciò abbia poi influito, nel corso dei decenni, sull’atteggiamento di Israele (la nuclearizzazione del paese, il suo attacco a Beirut nel 1982, gli esagerati timori di un lancio di armi chimiche da parte di Saddam Hussein nel 1991 e nel 2003, sono tutti comportamenti che hanno in parte le loro radici nella Shoah).

 

Tuttavia, quello che è un singolo elemento del pensiero e dell’atteggiamento di Israele diventa per Burg l’unico elemento. Lo Stato ebraico d’Israele è convinto – afferma – che “l’intero mondo è contro di noi” (pagina 14). “Restiamo aggrappati a quella tragedia ed essa diventa la nostra giustificazione per ogni cosa” (pagina 9). Burg paragona Israele a un bambino maltrattato che diventa a sua volta un violento, il bullo del quartiere. “Noi oggi capiamo soltanto il linguaggio della forza” (pagina 24), (Israele ha tradizionalmente affermato che “gli arabi capiscono solo la forza”; Burg capovolge questa accusa). Per dimostrare le proprie tesi, Burg fa violenza alla storia. Egli porta avanti il mito della propaganda araba secondo cui, prima del 1948, gli ebrei vivevano “in pace a fianco degli arabi” (pagina 32). Basta una semplice occhiata a qualunque opera storica seria (The Jews of Arab Lands di Joseph Stillman, o Gli ebrei nel mondo islamico di Bernard Lewis) per mostrare al lettore l’inconsistenza di simili affermazioni.

 

Burg procede a briglia sciolta anche con fatti più recenti. “Le Forze aeree israeliane stavano bombardando e uccidendo persone innocenti sulle spiagge e per le strade di Gaza e nei villaggi e nelle città del Libano” scrive (pagina 7), quasi come se parlasse dei bombardamenti a tappeto anglo-americani sulla Germania o delle incursioni aeree dei tedeschi sull’Inghilterra (che causarono circa sessantamila morti). Nel corso della Seconda Intifada (2000-2004) sono stati uccisi complessivamente circa quattromila arabi, quasi tutti durante scontri a terra, e due terzi dei morti erano combattenti (le vittime israeliane sono state millequattrocento, e nei due terzi dei casi si trattava di civili).

 

Burg sembra non conoscere il vecchio detto di Kissinger secondo cui a volte capita che i paranoici abbiano dei nemici reali (nel caso di Israele, la maggior parte degli arabi all’interno e all’esterno della Palestina, oltre a centinaia di milioni di musulmani non-arabi). E sembra anche ignaro del fatto che gran parte delle azioni di Israele – a volte eccessive e spregevoli, occasionalmente brutali – hanno avuto e hanno luogo in un contesto di guerra e di assedio, di fronte a un atteggiamento arabo di delegittimazione, demonizzazione e rifiuto di ogni compromesso. Egli dedica a malapena una frase ai veri nemici reali di Israele, ai loro obiettivi e alle loro azioni, indicandoli come la causa del comportamento israeliano, anche se a un certo punto raccomanda a Israele di non temerli, perché questa volta “non siamo soli di fronte alla minaccia di un potente nemico” (pagina 9). Questa volta il mondo proteggerà Israele. Burg non spiega però su che cosa si fonda questa sua certezza. Egli continua – a mio parere in modo osceno – a paragonare Israele alla Germania di Hitler, ribadendo al contempo di non avere nessuna intenzione di fare un simile paragone. Scrive: “ Oggi in Israele ci sono terribili strati di razzismo che non sono sostanzialmente diversi da quel razzismo che ha causato lo sterminio di molti dei nostri avi” (pagina 198). O ancora: “Certo, noi non siamo come la Germania (….) al culmine della Soluzione finale. Ma (…) non sempre sono in grado di distinguere tra il primo nazionalsocialismo e alcune teorie nazionali (che circolano in Israele)” (pagina 192). A un certo punto, egli definisce il razzismo israeliano come “ipocrita e viscido” (pagina 198). Stando alle ultime notizie che ho sentito, Burg sta ora cercando di fare un ritorno politico entrando nel nuovo movimento di sinistra costruito attorno al vecchio partito sionista Meretz. Mi hanno detto che Amos Oz, A.B. Yehoshua e gli altri “fondatori” di questo movimento lo stanno tenendo a distanza. Forse lo ritengono “ipocrita e viscido”.

 

 

 

Traduzione di Daniele Didero


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