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Il Giornale Rassegna Stampa
05.01.2009 Analisi e cronache sul conflitto
Con Fiamma Nirenstein, R.A. Segre, Gideon Meir, Luciano Gulli, Emanuela Fontana, Felice Manti, Souad Sbai

Testata: Il Giornale
Data: 05 gennaio 2009
Pagina: 1
Autore: Nirenstein, Segre, Meir, Fontana, Manti, Gulli
Titolo: «Chi gioca con i terroristi»

Sul GIORNALE di oggi, 05/01/2009, le analisi di Fiamma Nirenstein e di R. A. Segre. L'intervista all'ambasciatore israeliano in Italia Gideon Meir, l'intervista con il ministro La Russa, con Souad Sbai la coraggiosa deputata di origini marocchine, la cronaca di Luciano Gulli al confine con Gaza.

Fiamma Nirenstein - " Pacifista o a spasso coi terroristi la sinistra va in crisi di identità

È strano come i toni della ragionevolezza, quelli della saggezza antica, confortevole e insipida come l’acqua calda, alle volte nascondano invece un abisso di confusione, un vuoto di idee che può diventare un pericolo per il mondo. Viene da chiedersi con quale senso della responsabilità la sinistra italiana, l’Europa, l’Onu, parte della stampa internazionale, fingano di non capire che limitare il proprio commento alla richiesta di fermare la guerra contro Hamas giochi la credibilità del mondo occidentale, li metta in ridicolo presso il mondo islamista, rovini i Paesi arabi moderati che tacciono cauti, distrugga la deterrenza di fronte alla jihad islamica, danneggi Abu Mazen e anche la prospettiva di «due Stati per due popoli». Quale richiamo della foresta conduce un raziocinante moderato come Walter Veltroni a chiedere con estrema urgenza un cessate il fuoco fra Israele e Hamas? Per un moderato in politica internazionale come Veltroni, che certamente non approva la linea di Massimo D’Alema che, non pago della lezione degli Hezbollah, ripropone una trattativa con Hamas, la richiesta di fermare subito tutto sembra una risposta automatica. Israele affronta con sofferenza e determinazione l’impresa di terra, uomini come Shimon Peres e Ehud Barak spiegano come proprio il bisogno di pace costringa a combattere Hamas fino a ottenere risultati tangibili. Intanto, anche gli occhi della nostra sinistra moderata scorgono che le manifestazioni anti-israeliane si infittiscono, diventano razziste e furiose, manifestazioni bruciabandiere. A queste, davvero, non dovrebbe essere dato neppure un appoggio collaterale.
Mentre si ricominciano a ritrarre sui giornali di estrema sinistra i dirigenti israeliani come mostri assetati di sangue, guai a avallare l’idea che la guerra contro Hamas sia peregrina, dettata da ybris, che sia una guerra da fermare subito. Si dà semplicemente prova di non aver capito come stanno le cose, i loro sviluppi, le novità che contengono, i nessi geopolitici basilari di questo conflitto, che non è un episodio dello scontro israelo-palestinese ma un episodio fondamentale dello scontro col terrorismo. Per fermare lo scontro deve rompersi l’asse iraniano che fornisce le armi a Hamas; deve crearsi una supervisione autentica della frontiera di Rafah; deve tornare a casa il caporale Gilad Shalit; deve finire per sempre la pioggia di missili e, soprattutto, si deve cambiare la testa di Hamas, che deve sapere, con i suoi compari assassini, che Israele può agire anche di fronte alle più terribili minacce.
Non dimentichiamo che Israele ha avuto il coraggio di entrare a Gaza mentre l’Iran lo minacciava di morte se avesse osato. Vogliamo essere noi, di fronte al coraggio di Israele, a dare ragione all’Iran? La tregua, la trattativa, la mano tesa hanno avuto pessimi risultati in questi anni: l’esitazione nel mostrare un volto duro all’Iran, politica di cui la nostra sinistra è paladina, la predilezione per le armi della politica piuttosto che per le sanzioni, ha portato allo sviluppo delle potenzialità atomiche del regime degli ayatollah; una telefonata di Prodi a Bashar Assad, ne ricordo in particolare una del settembre di tre anni fa, lo portò a vantarsi della promessa di Assad di bloccare gli armamenti iraniani per gli Hezbollah: la promessa si è risolta in 42mila nuovi missili in mano a Nasrallah; lo stesso è accaduto della passeggiata di D’Alema a braccetto con gli Hezbollah, fatta per dialogare, per capirsi con una forza, diceva D’Alema, dopotutto eletta democraticamente. Anche Hitler lo fu, l’argomento è sepolto nella storia, le folle plaudenti spesso inneggiano al delitto, e infatti Nasrallah, adorato dai suoi, è un pericolo per tutto il Medio Oriente, un feroce sceicco medioevale che impedisce al Libano di emanciparsi. Anche Hamas impedisce al suo popolo la via della libertà e della trattativa: odia ambedue questi concetti. La tregua lo aiuterebbe a inventarsi una “vittoria divina” e a ricostruire le armi per la sua politica d’odio.

Del resto, la questione dei civili di Hamas è complicata, essi sono il suo scudo umano designato, vi si mischiano innocenti ma anche soldati senza divisa. Persino il Manifesto non ha potuto fare a meno di chiamare “criminale” Hamas. Eppure i riflessi pavloviani sulla questione mediorientale obnubilano la mente, il ritornello “pace contro terra” risuona gioioso e vano nella testa della sinistra: la pace la si otterrebbe contro Hamas, e non con esso. Le vecchie armi della politica sono arrugginite di fronte alla jihad, la sinistra metta in moto un po’ di orgoglio intellettuale per affrontare il problema.
 
R. A. Segre - " La posta in gioco non è soltanto la pace, ma l'esistenza stessa di Israele "
 
Churchill diceva: «In guerra, risolutezza; in vittoria, magnanimità». Sono i due principi su cui Israele sta giocando la sua esistenza e - in caso di successo - la pace. La posta è enorme e il volto teso del ministro della Difesa Barak nell’annunciare sabato sera al Paese la decisione di inviare l’esercito a Gaza lo dimostrava. Cerchiamo di capire ciò che sta succedendo.
1. Lo scopo strategico di Israele non è solo la garanzia della sicurezza fisica - con o senza ausilio internazionale - di un milione di civili che vivono nel sud del Paese. È la rottura dell’immagine di potere di un fondamentalista islamico convinto di aver scoperto nell’attaccamento alla vita dell’avversario (ebrei, europei, americani, indù) l’arma segreta della vittoria. Israele viene visto come un baluardo numericamente insignificante, ma decisivo per l’imperialismo islamico, come Cipro veneziana lo fu per i turchi sulla strada della conquista di Vienna (e di Roma) nel XVII secolo. Non è detto che la cacciata (improbabile) di Hamas da Gaza dia a Israele molto più di una lunga tregua. Certo è che un Hamas sopravvissuto, anche se malmenato, all’offensiva terrestre di Israele, rappresenterebbe la probabile fine dello Stato ebraico democratico come di quello di un futuro Stato palestinese non fondamentalista.
2. La logica di questa situazione spiegherebbe la contraddittoria posizione del mondo arabo che in sordina accetta Israele come baluardo militare (quello economico è il prezzo del petrolio al ribasso) contro l’Iran sciita nemico giurato dell’islam sunnita (maggioritario). Spiega, in barba alla volontà della «strada araba» il «tradimento» egiziano, saudita, giordano, libico, algerino, marocchino e palestinese di al Fath senza parlare dell’appoggio di Washington. In Europa, che non sembra ancora guarita dal complesso di Monaco, i due governi che hanno compreso il significato di questa guerra sono paradossalmente i due gradi nemici di ieri: Germania e Cechia.
3. La stessa logica potrebbe aiutare a comprendere il comportamento di un triumvirato debole e riottoso composto da un premier sfiduciato, ma tecnicamente al potere (Ehud Olmert), un capo del partito Kadima e ministro degli Esteri Livni (onesta ma considerata incapace) e un ministro della Difesa laburista, Ehud Barak, militarmente abile ma politicamente fallimentare, uniti di fronte a una decisione politicamente non meno gravosa di quella presa da Ben Gurion nel proclamare lo Stato nel 1968. Agiscono assieme e col sostegno del Paese perché.
Prima di tutto perché, come Ben Gurion, non poteva non reagire; in secondo luogo, perché contrariamente a Ben Gurion hanno dietro di sé una macchina militare rimessa a nuovo a seguito della guerra del Libano e che dal 1967 politici corrotti, generali tronfi di vittoria e intellettuali poveri di ideali avevano lasciato arrugginire nell’illusione di poter creare una specie di California israeliana nel Medio Oriente e sulle spalle dei palestinesi. Perché, contrariamente alla guerra del Libano, disponevano di un piano operativo preciso con due scopi apparentemente precisi. Uno massimalista (auspicabile, ma probabilmente irrealizzabile con le sole armi) di evizione di Hamas da Gaza. Uno minimalista mirante a obbligare Hamas a chiedere il rinnovo della tregua (con aggiunte) che aveva orgogliosamente rotto inimicandosi il Cairo. Un successo del genere equivarrebbe per Hamas ammettere la sconfitta sul piano dell’immagine e della fede. In quanto mancanza (anche solo temporanea) di appoggio divino che per i «volontari della morte» rende la loro causa invincibile. 4) Un successo del genere non sarebbe una vittoria classica o definitiva, ma conquista di sufficiente spazio locale per vivere qualche anno in pace; di spazio internazionale per permettere alle lotte intestine islamiche di svilupparsi e per permettere alle potenze di ritrovare il coraggio di affrontare l’Iran.
Sarebbe errato credere che interessi personali ed elettorali non pesino sul comportamento di questa troika i cui membri non si amano particolarmente. Ma altrettanto errato pensare che di fronte alla comune responsabilità nazionale essi non antepongano patriottismo al particolarismo. Il Paese li sostiene perché comprende che da come si svilupperanno le operazioni terresti dipende non solo il loro futuro politico, ma quello della nazione.
 
Gideon Meir - " Bruciare bandiere è disgustoso, ma l'italia capisce le scelte di Israele "
 
«L’Europa deve capire che dobbiamo difendere la nostra popolazione», spiega al Giornale l’ambasciatore israeliano in Italia, Gideon Meir.
Ambasciatore, che cosa ne pensa della reazione europea all’operazione israeliana a Gaza? E di quella italiana?
«Siamo determinati a portare a termine la nostra missione: fermare il lancio di razzi Kassam e Grad su Israele. In questo momento il 15% della popolazione israeliana vive in rifugi antimissile; questo non è iniziato oggi, ma otto anni fa. In otto anni ci hanno lanciato 8.000 razzi. L’Europa deve capire: dobbiamo proteggere la popolazione. Abbiamo un ottimo dialogo con la leadership italiana. Il ministro Tzipi Livni ha parlato con Franco Frattini. Il fatto che l’Italia capisca la necessità di proteggersi d’Israele è importante».
Che cosa si aspetta dalla visita del leader francese Sarkozy, oggi nella regione?
«Nicolas Sarkozy è un amico d’Israele. Penso che il messaggio israeliano al presidente sarà: dobbiamo portare tranquillità. Non si ottiene nulla attraverso il terrorismo. Sarkozy incontrerà anche quella leadership dell’Autorità nazionale palestinese che porta avanti negoziati per arrivare a una soluzione a due Stati».
Fra pochi giorni scadrà il mandato di Abu Mazen, unica controparte dialogante. Che cosa succederà?
«È una decisione che spetta soltanto ai palestinesi».
Qual è la sua reazione alle manifestazioni pro palestinesi in Italia in cui sono state bruciate bandiere israeliane?
«La maggior parte dei manifestanti era d’origine straniera, non c’erano italiani. Era ovvio in Italia e nel resto d’Europa. Bruciare la bandiera israeliana è disgustoso. Bruciare la bandiera di qualsiasi Paese è disgustoso. Si parte da questo e si finisce per bruciare le persone».
 
Emanuela Fontana - " La Russa : sotto i razzi faremmo tutti come Israele "
 
RomaMinistro La Russa, l’Italia è pronta a un eventuale invio di uomini nella Striscia di Gaza qualora l’Onu decidesse di intervenire in Medio Oriente con una forza internazionale di interposizione?
«Sono decisioni che appartengono ai governi. Posso dire che dal punto di vista tecnico e militare non ci sono problemi, i nostri soldati hanno apprezzamento ovunque. Dal punto di vista politico, non spetta a me prendere decisioni di questo tipo, ma non mi sembra che in questo momento ci siano segnali, ipotesi di invio di truppe internazionali, almeno nel contesto attuale di non cessate il fuoco».
È questo il momento della diplomazia e basta?
«Un intervento prima del cessate il fuoco è una decisione che non spetta al ministro della Difesa ma agli organismi internazionali. Il ministero in questo caso è un semplice esecutore. I nostri uomini sono in grado di fare qualunque cosa. È un problema di opportunità e di scelta».
Come valuta la reazione italiana al conflitto? Ci sono molte critiche al governo per una posizione giudicata troppo filoisraeliana e manifestazioni in cui si bruciano bandiere di Israele.
«Mi sembra grave che alcune formazioni politiche di sinistra partecipino a manifestazioni contro Israele che hanno portato a bruciare vessilli. È una pratica che ho sempre condannato. Anche quando l’Unione Sovietica invadeva l’Ungheria non ricordo bandiere russe bruciate da noi ragazzi che avevamo diritto di manifestare per la libertà di quei popoli. Questa manifestazione di antiamericanismo e antisraelismo è un’offesa anche agli italiani, per un accostamento di quei simboli alla bandiera italiana».
Invece proprio l’Italia potrebbe essere il luogo del dialogo tra Israele e Palestina anche per la contemporanea presidenza G8. È ambizioso proporlo come ha fatto il ministro Frattini?
«Noi siamo sempre stati il terreno del dialogo naturale tra israeliani e palestinesi. Certo è che finché ci saranno estremisti palestinesi che rifiutano l’idea che Israele debba avere la sua esistenza e rifiutano di cancellare dai loro propositi di uccidere più israeliani possibile, l’azione diplomatica è dura».
Crede che la mediazione italiana sarebbe stimata da entrambe le parti, nonostante la vicinanza dichiarata di questo governo a Tel Aviv?
«Il nostro contingente in Libano che si frappone tra israeliani e palestinesi ha l’apprezzamento degli uni e degli altri, me lo conferma sempre il generale Graziano. Il nostro obbiettivo è la libertà e la serenità di Israele e uno Stato indipendente per i palestinesi. Il presupposto però è che entrambi accettino il punto finale, la coesistenza equilibrata. Alcuni gruppi terroristici palestinesi non accettano questo punto finale. Chi ha rotto la tregua è stata Hamas con i razzi. Mi chiedo cosa succederebbe se nelle nostre città piovessero razzi. Una risposta armata sarebbe invocata».
Isolare Hamas è necessario?
«I primi nemici della possibilità di dare uno Stato ai palestinesi sono coloro che rifiutano che Israele possa esistere, coloro che pensano che uccidere un ebreo per il fatto che sia ebreo sia una cosa giusta. Sono i primi nemici della soluzione diplomatica».
Veltroni vi accusa di non aver chiesto il cessate il fuoco.
«Ma certo che lo chiediamo e lo abbiamo chiesto. Lo hanno fatto anche le commissioni esteri riunite, chiedendo il rispetto dell’incolumità dei civili. Nel caso del conflitto in corso bisogna sottolineare però che civili palestinesi vengono spesso usati come scudo».
Quindi cosa risponde a Veltroni?
«Chiediamo il cessato il fuoco, vogliamo il cessate il fuoco, ma comprendiamo le ragioni che hanno spinto Israele a non soggiacere al lancio di razzi. Non si può non parlare delle responsabilità di Hamas, e non capire la situazione di pericolo di uno Stato in cui piovono razzi. Ha fatto bene il ministro Frattini a porre l’eventualità dell’Italia come sede del dialogo, indice della nostra volontà di trovare una soluzione pacifica al conflitto che contrappone due popoli, una soluzione che gli estremisti stanno rendendo irrisolvibile da molti anni».
Cosa pensa delle contrapposizioni europee?
«Anche nella Ue l’Italia si pone come punto di mediazione. Si può porre come voce mediana convergente con un forte lavoro diplomatico del presidente Berlusconi e del ministro Frattini».
È in corso un’offensiva di Israele, come dice il presidente francese Sarkozy, o una difesa di Israele?
«È una risposta a una situazione offensiva di Hamas. C’è chi la può chiamare offensiva e chi difensiva, ma è una risposta a una situazione che doveva cessare. Israele ci ha abituato a risposte anche offensive, senza le quali però, bisogna ricordarlo, sarebbe scomparsa dalle carte geografiche. Possiamo gridare al cessate il fuoco con la diplomazia, ma se la minaccia continua...».
È preoccupato per un’ondata antisraeliana che potrebbe crescere in Italia?
«Incentivare tutte le forme di contrapposizione e bruciare la bandiera israeliana allontana la pace e aggiunge odio a odio. Per questo c’è una grossa responsabilità morale da parte di quei gruppi politici che appoggiano queste manifestazioni».
 
Felice Manti - " Souad Sbai : altro che dialogo, cacciamo gli estremisti "
 
«Non aspettavano altro per muoversi». La parlamentare Pdl Souad Sbai è ancora sconvolta per quelle immagini rimbalzate da giornali e tv. Il sagrato del Duomo di Milano, San Petronio a Bologna, e ancora le sfilate a Roma e Torino.
È preoccupata?
«Sì. Solo qualche mese fa mi sono detta: “Mi spaventa questo silenzio”. Ed eccoli qua. Non aspettavano altro per muoversi, persino gli immigrati di prima generazione. Quello che ho visto a Milano, quelle bandiere bruciate davanti a donne e bambini non è stato solo vergognoso. Di più».
Chi e che cosa c’è dietro quelle manifestazioni?
«Non certo l’islam moderato, che da tempo fa continui richiami al dialogo e alla pace. Ci sono gli integralisti. L’estremismo avanza in modo spaventoso. D’altra parte qualcuno li guida...».
C’era anche l’imam del centro islamico di viale Jenner, Abu Imad...
«C’era chi vuole alimentare altro odio, come l’Ucoii».
Nei giorni scorsi l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi ha fatto un appello alla libertà di culto, per le moschee...
«E ha fatto male, malissimo. Abbiamo i nemici in casa. Si è chiesto come mai a Milano c’era l’imam e a Roma la moschea non ha manifestato con loro? E Firenze, dove vogliono fare la moschea a Colle Val d’Elsa. Che fine ha fatto l’imam? È sparito, e nessuno si è chiesto dove sia finito».
Che cosa può fare la politica?
«Intanto io non avrei mai autorizzato quella manifestazione. L’Ucoii, ad esempio, non ha mai firmato la Carta dei valori, non riconosce la Costituzione, né l’uguaglianza uomo-donna, la lotta al terrorismo. Questa gente va allontanata, bisogna revocare la cittadinanza a chi fiancheggia il terrorismo».
Qualcuno da sinistra la accuserà di razzismo...
«Chi non rispetta le regole va cacciato. Quegli estremisti andavano fermati ieri, anzi 10 anni fa. Altro che mantenere i fiancheggiatori del terrorismo in galera. A casa loro, con il primo volo. La sinistra buonista e quelli che ancora sono scettici dovrebbero farsi un esame di coscienza».
E il dialogo?
«Con l’islam moderato sì. Con i radicali non si dialoga. Quella di Milano è stata una sfida all’Occidente, al musulmano moderato. Il messaggio è: “Noi ci siamo, voi state attenti”».
E l’Occidente non reagisce...
«Siamo deboli. Deeeboli. Questa gente se ne sbatte dei diritti umani, dell’uguaglianza della donna. Se ne sbatte di tutto. Bisogna educarli alle regole, appena mettono piede. Ma così passiamo per razzisti, contro un debole che non è debole. Loro invece mandano fatwe (sentenze di morte, ndr) a tutti noi moderati, minacciano le famiglie in Marocco, in Tunisia. E noi che facciamo? Dialoghiamo con questa gente? Nooo. Assolutamente no».
Neanche coi giovani islamici?
«Alcuni integralisti si sono infiltrati in posti importanti. E sono pericolosissimi. Sono educati alla scuola dell’estremismo, vengono dalle famiglie dell’Ucoii ma fanno finta di essere moderati. Attenti a chi gli dà spazio e voce. Spero che il ministro dell’Interno Maroni riparta dalla bozza Amato. Chi non rispetta le regole, chi non firma la Carta dei valori è fuori».
 
Luciano Gulli - " Battaglia a Gaza City, i carri circondano la città "
Le radio a bordo degli automezzi militari parcheggiati sotto gli eucalipti hanno preso a trasmettere all’improvviso un beep bitonale in crescendo, come se segnalassero cinture slacciate. «Tseva Adom», colore rosso, urla un tenentino. Fine delle chiacchiere. Tutti si fiondano all’interno dei propri automezzi, calzano gli elmetti e aspettano il fischione in arrivo. «È quello delle 2. Però è un po’ in ritardo», ironizza gelido Amir soffiandosi tra i peli del polso sinistro per scoprire il quadrante dell’orologio, che segna le 14.10.
Amir è il proprietario del campo di grano che si stende qui davanti. Cioè: era un campo di grano, prima che i cingolati di Tsahal glielo trasformassero in una specie di campo di patate arato da una squadriglia di cinghiali a digiuno. Ma Amir dice che non gliene importa; che «oggi è il giorno della vendetta», e infatti gongola sprezzante alzando i pugni al cielo e dimenando il sedere come il «colonnello Hathi», l’elefante di Mowgli nel “Libro della giungla”.
Chi non ha niente di meglio con cui proteggersi dal fischione in arrivo si aggatta tenendosi le mani o un giornale sulla testa. Ridicolo? Sì, ridicolo; ma si fanno tante cose ridicole, incongrue, in guerra. Forse bastava guardare Amir, che è di qui, ed è l’unico rimasto in piedi, per capire che il pericolo era alquanto relativo. Il razzo Qassam, uno dei venti e più sparati da Gaza in quest’altra giornata di «Piombo fuso», cade infatti a un paio di chilometri alle nostre spalle, verso Sderot.
Vista da Nismit, dal confine nordoccidentale della Striscia, la skyline ossuta, sgarrupata di Gaza balugina in una controra allagata di sole. Un howitzer da 120 millimetri nascosto da qualche parte qui intorno suona la sua campana a morto. Una cannonata al minuto. Sullo sfondo, a cinque-sei chilometri da qui, si levano ampie volute di fumo. Forse è partito da qui l’obice che a Beit Lahiya ha fatto 12 morti in un colpo solo. Alle bombe intelligenti di Tsahal, Hamas risponde sparando le sue frecce avvelenate, questi razzetti fabbricati nelle officine degli elettrauto e nei sottoscala di periferia. Una sorta di voluttà di suicidio comprensibile solo alla voce fanatismo.
Oltre Nismit non si va. La polizia militare ha ordini precisi. Pinete, palmeti, eucalipti, distese di campi che verdeggiano di broccoli, cavolfiori, lattughe, erba medica da cui spunta ogni tanto una torretta d’avvistamento, come in un film di cow boy e di indiani. Esplosioni di bouganvillee, all’ingresso dei kibbutz che punteggiano questa campagna pettinata col pettine fino. Difficile, guardandosi intorno in questa giornata di sole spavaldo, benigno, immaginare che a una manciata di chilometri da questi trattori rossi che incrociano nei campi, e da lontano sembrano giocattoli, si sta consumando una battaglia feroce; che un milione e mezzo di sventurati sono in trappola senza cibo, senza elettricità, senza speranza. Poi guardi i due palloni aerostatici armati di telecamere, sospesi nel cielo; osservi la piccola colonna di Tir che trasportano carri armati e immensi caterpillar che vanno a riposizionarsi verso gli aranceti più a valle; guardi le ambulanze che arrivano correndo da sud, le sirene rabbiose che accoltellano il cielo, e rimetti insieme i frammenti del dramma.
Ma non è agli abitanti di Sderot, di Tarqumya, di Sha’ar Hanegev, di Mefallesim, che bisogna chiedere comprensione, oggi. Occhio per occhio, dente per dente, dicono gli sguardi di chi per otto anni se l’è dovuta vedere con l’artiglieria stracciona, ma micidiale, di Hamas. Occhio per occhio, dente per dente, cantano le bandiere biancazzurre con la stella di David che sventolano da ogni palo della luce sugli spartitraffico dei viali delle città e dei kibbutz o dai sellini posteriori delle moto.Sulla collinetta da cui i cronisti televisivi recitano i loro stand up arrivano i ragazzi e le ragazze di “Noam”, un movimento giovanile conservatore che a giudicare dalle divise delle signorine e dei giovanotti deve avere qualche parentela con gli scout. Ariella Kraus, 23 anni, Adi Crespi, Debby Greenberg, rabbi Mauricio Balter hanno portato cibo, bevande, calzettoni e manicotti di pile per i soldati. «Questa operazione è un passo verso la pace. Non possiamo vivere tutta la vita nei rifugi. E non c’era modo di intendersi con questa organizzazione terroristica che tiene in ostaggio la sua stessa gente». Dice così, a cantilena, anche David Boushkila, 52 anni, sindaco di origine marocchina di Sderot. Il bunker sotterraneo in cui riceve, accanto al Centro per i disabili di Sderot, sembra la sala comando di un sommergibile. Va e vieni febbrile di funzionari, di soldati, di volontari; computer a dozzine, telefoni, fax.
Il Qassam delle 2 è caduto sulla casa di Mezadi Dayan, 70 anni, origini marocchine (a Sderot o sono marocchini o russi), un modesto abituro che si affaccia sulla Harimon lane, due file di casette popolari col giardinetto e la verandina, il barbecue e i panni stesi. Però a giudicare dal macello in cui è ridotta la casa doveva essere qualcosa di più di un Qassam. Il tetto sfondato, le pareti spazzate via, il divano e i materassi del letto coperti di mattoni forati e detriti, un mazzo di fiori di plastica che spuntano accanto al quadretto di un vecchio rabbino. Ci sono i ragazzi dell’organizzazione “Lev Echad”, un cuore che stanno raccogliendo le povere cose della donna rimasta ferita dall’esplosione del razzo, quando arriva un altro allarme. Dor, 18 anni, si accuccia sui talloni, si tiene le mani incrociate dietro la nuca. Quando l’allarme cessa Dor si rialza, mi guarda un po’ vergognoso, forse perché io sono rimasto in piedi, come avevo visto fare ad Amir, arrossisce di collera e mi dice che non vuol più farsi vedere in ginocchio da nessuno nella vita. Dice proprio così: «Mai più».
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