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Il Giornale Rassegna Stampa
04.01.2009 Analisi, cronaca, commenti. Con, alla fine, una frase di Moshe Dayan . Da imparare a memoria
Fiamma Nirenstein, Maria Giovanna Maglie, Salvatore Scarpino, Luciano Gulli

Testata: Il Giornale
Data: 04 gennaio 2009
Pagina: 6
Autore: Fiamma Nirenstein, Maria Giovanna Maglie, Salvatore Scarpino, Luciano Gulli
Titolo: «Forza sproporzionata, Campagna d'odio, il Duomo, L'invasione di Gaza»

Un GIORNALE ricco di interventi, quello di oggi, 04/01/2009.

Fiamma Nirenstein - " Gli ipocriti dell' uso speoporzionato della forza "

Nessun paradigma fra quelli usati oggi per dimostrare che Israele deve affrettarsi verso una tregua e’ piu’ ambiguo e moralmente dubbio di quello della “forza sproporzionata” usata a Gaza. Che la garanzia di pietas, per favore, non si creda proprieta’ di chi parla di sproporzione,  che il senso di responsabilita’ non venga scambiato per insensibilita’. Sara’ bene ricordare, in primo luogo che hamas dal 1994 ha fatto col terrorismo suicida, di cui e’ il maggiore responsabile, piu’ di mille morti israeliani. Israele protegge con sforzo enorme, non minore di quello bellico, la sua popolazione da parecchie decine di missili al giorno: Kassam, Katiusha e Grad. Un comando speciale (Pikud ha Oref), tutti i mezzi di comunicazione, l’esercito, migliaia di volontari si occupano solo dei rifugi, ne spiegano e favoriscono l’uso, li puliscono, li riforniscono per bambini e vecchi, e dove non esistono insegnano varie tecniche per proteggersi quando suona la sirena. Non ci si riunisce in edifici esposti, le scuole, le sinagoghe vengono chiuse se c’e’ pericolo. Niente che non sia una struttura militare dichiarata viene usato per lo stoccaggio di armi o come caserme. I missili palestinesi cadono su strutture evacuate alla sirena: infatti molti sono gli edifici distrutti, comprese le scuole, ma pochi caduti. Hamas dice “noi amiamo la morte mentre Israele ama la vita”. Vero. Per questo la protegge. Invece Hamas piazza le strutture militari dentro quelle civili o in mezzo alle citta’, usa le famiglie come scudi umani: la societa’ di Hamas e’ jihadista, la vita umana e’ uno strumento a fine di conquista e distruzione del nemico, e a questo scopo si serve parimenti di militari e civili. Tutti, per Hamas, qualunque sia l’eta’ o il ruolo, sono possibili shahid.

 

La forza di Hamas e’ notevole e sostenuta da un piu’ grande esercito jihadista, quello iraniano e siriano, degli hezbollah. E il suo scopo dichiarato e’ distruggere Israele.

 

Dal 2001 ha preso di mira la comunita’ israeliana con 4000 missili e con migliaia di mortai. Dopo che ha preso il potere da 179 missili nel 2005 e’ passato a 946 nel 2006. Fino al 2008 ha acquisito missili che possono raggiungere Ashod, Ashkelon e Beersheba, e cosi’ tiene sotto tiro 800mila cittadini. Il rifiuto di proseguire la tregua ha sottolineato le sue intenzioni.

 

La presidente della corte internazionale di Giustizia Rosalyn Higgins inoltre nota che la proporzionalita’ “deve essere in relazione all’obiettivo legittimo di bloccare l’aggressione”. Cioe’, e’ proporzionale se ha effettivamente lo scopo di far cessare l’aggressione e non quello di far del male ai civili. Subito al primo attacco il 28 dicembre l’Associated Press ha scritto che la maggior parte dei colpiti erano parte delle “Forze di Sicurezza” di Hamas, e che l’attacco sia specifico e’ del tutto evidente: vengono presi di mira depositi d’armi, uffici, basi, reti di comando e controllo e i tunnel per importare le armi. Infine: nessuno ha mai neppure lontanamente immaginato che di fronte a un nemico che ti aggredisce, devi contare il numero dei suoi proiettili o dei tuoi morti e sparare e uccidere in proporzione: ognuno dei nemici mette in giuoco le sue forze, specialmente dopo aver ripetutamente richiesto al nemico una tregua e averne ricevuto minacce di totale distruzione. Minacce non peregrine, si noti bene. Hamas cerca da tempo un obiettivo spaventoso come una scuola piena di bambini, e sarebbe strano che per fermarlo Israele, come scrive il prof Dore Gold sul Jerusalem Post, aspettasse l’orrore per ottenere la legittimita’ internazionale. Ha aspettato cosi’ tanto per rispondere a qualcosa di impensabile, il bombardamento delle sue citta’, a cui tutti noi, Europei e Americani, non avremmo mai lasciato spazio. 

Maria Giovanna Maglie - " La campagna dell'odio" 

È partita la consueta logora campagna di odio contro Israele. La sinistra filo terrorista italiana la combatte nel modo abituale: bruciando bandiere israeliane e disegnando come una svastica la stella di David, come ha fatto ieri a Milano, rievocando massacri finti come quello di Genin, stampando titoli e foto truculente dalle quali si evinca che l’azione armata, invece di essere la risposta inevitabile a mesi di attacchi di missili Grad, sia preordinata strage di bambini, assoldando i peggiori pennivendoli della pseudo satira per dimostrare che a Gerusalemme comandano tiranni assetati di sangue e non rappresentanti di uno Stato democratico che difende il proprio diritto alla sopravvivenza. Non importa che questa volta anche tra i palestinesi ci sia una critica dura del terrorismo di Hamas, non conta che perfino Mahmoud Abbas, capo dell’Autorità palestinese, subito dopo l’inizio della rappresaglia israeliana, abbia trovato la voce per imputare a Hamas la rottura continuata della tregua e dunque la principale responsabilità della tragedia dei civili a Gaza, che vengono usati come scudi umani senza la minima remora. Non importa neanche che Hamas non riconosca il diritto di esistere a Israele, e che sia finanziato da Iran e Siria, come un tempo era finanziato da Saddam Hussein. Niente, le ragioni della cronaca e della storia non vengono prese in considerazione. Il copione dei cattivi guerrafondai contro il popolo armato solo di sassi e disperazione si replica sempre uguale a se medesimo.
A me Vauro non piaceva neanche quando si provava a far ridere, figuratevi oggi che fa il vignettista reporter di pace, comizieggia da Santoro, regge lo strascico a Gino Strada, e si è messo «Emergency» a stemma nobiliare sul biglietto da visita. È quello che enuncia pensoso che «purtroppo Obama non è Che Guevara», senza percepire di aver detto per una volta un’autentica frase spiritosa. Ma a rendere odiosa e infame la sua performance di ieri sulla prima pagina de il manifesto, che qui vedete ripubblicata, c’è qualcosa di più e di peggio, una sindrome maschilista volgare che ha già visto prodursi grandi firme come Andrea Camilleri e Lidia Ravera, quelli che Mariastella Gelmini non è un essere umano e cosa sia bisogna chiederlo a un professore di chimica, Condi Rice non è una donna, è una scimmia. Nella sinistra orba di voti e di idee rischia di diventare una nuova anche se vecchissima forma di polemica. Per i moltissimi che a ragion veduta quel giornale non guardano, mi provo a spiegare che la macellaia sanguinante è Tzipi Livni, ministro israeliano degli Esteri, e che a commento delle sue mani lorde il Vauro tira fuori nientemeno che la seguente frase, frutto sudato di reminiscenze letterarie: «Se questa è una donna...».Già, perché una donna, per questi signori, deve o stare a casa a fare la calzetta tra una poppata e l’altra, o vestire l’abito di vestale di pace e scendere in piazza contro i maschi cattivi. Intendiamoci, se fa la kamikaze e sotto il burqa si infila l’esplosivo, quella è pure una richiesta di pace, disperata ed estrema, ma in ogni caso nobile. Tanto è vero che velo e burqa, secondo loro, andrebbero consentiti anche in Italia, e sulle foto dei documenti di identità.
Intendiamoci, il pregiudizio anti israeliano è molto ben diffuso anche nel resto dei media italiani ed europei, e piaga le dichiarazioni di politici e diplomatici quando denunciano la presunta sproporzione della reazione, o piagnucolano sulla sorte di civili che proprio da Hamas andrebbero difesi. Ma nei toni dei cattivi presunti maestri della sinistra c’è ormai uno svaccamento, una disperazione che fa gettare loro la maschera del politically correct per ricorrere all’insulto sessista e razzista. Sono ridotti proprio male, ma sono ancora pericolosi.
 
Salvatore Scarpino - "Il Duomo diventa meta dell'oltraggio islamico "
 
Una brutta giornata, quella di ieri per Milano, Italia. Migliaia di palestinesi hanno invaso il centro per manifestare contro l'attacco israeliano ad Hamas nella striscia di Gaza. Hanno bruciato bandiere con la stella di David, hanno bruciato vessilli con stelle e strisce dell'Amerika odiata, con la interessata collaborazione dei comunisti di Rifondazione, spazzati dalla volontà popolare, ma sostenuti da un odio tenace che li collega all'esperienza infame di una dittatura condannata dalla storia.
La storia, quali delitti si compiono contro le sue lezioni. Striscioni e slogan dei manifestanti palestinesi paragonavano lo stato di Israele al Terzo Reich, una similitudine oltraggiosa che spiega a quali aberrazioni può condurre la predicazione dell'odio perseguita con la tenacia che le cause ignobili non meritano.
Ma c'è stato anche un altro oltraggio, un atto di prepotenza e di inciviltà che ci tocca direttamente, come italiani rispettosi di tutti e però consapevoli, si spera, dei nostri diritti e delle prerogative della nostra civiltà.
Una strategia precisa ha indotto i manifestanti palestinesi, più numerosi del previsto, con un rinforzo di militanti, italiani e arabi, entrati in campo all'ultimo momento, a forzare i limiti preassegnati alla manifestazione e ad irrompere sul sagrato del Duomo per una preghiera non preannunciata e tutto sommato intimidatoria. È comprensibile che le forze dell'ordine, in un delicato contestato politico-diplomatico, non abbiano contrastato la forzatura. Una preghiera, cosa volete che sia una preghiera? Ma si dà il caso che di fronte a quell'invasione si sono serrate le porte del Duomo. Per comprensibili motivi di sicurezza. Ve l'immaginate una processione di cristiani nella spianata davanti a una delle più importanti moschee dell'Islam?
Noi non siamo fermi alle Crociate, ma certi integralisti islamici sì. Credono ancora, vogliono credere che l'Occidente sia guidato da Goffredo di Buglione e cercano la rivincita in una jihad infinita. La preghiera sul sagrato del Duomo è un gesto dimostrativo, esemplare che i siti internet dell'integralismo islamico canteranno fino al più sperduto villaggio del Pakistan, dell'Ran, dell'Irak e dell'Indonesia, ovunque vigili l'occhio di Al Qaida.
Non siamo fermi alle Crociate e non esageriamo. Ma non possiamo sorvolare sul fatto che a guidare la preghiera sul sagrato sia stato l'imam Abu Imad, il predicatore della moschea di viale Jenner, già noto alla polizia e alla magistratura. Questo religioso, si fa per dire, ha avuto, il 20 dicembre del 2007, la condanna a 3 anni e otto mesi per associazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo internazionale. È stato ritenuto colpevole di avere collaborato a organizzare attentati in Italia e all'estero attraverso la costituzione di una cellula legata al «Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento». Condanna confermata in appello nel novembre scorso.
In quale Paese viviamo? A un simile cattivo maestro è consentito muoversi, forzare i cordoni delle forze dell'ordine, predicare nel segno dell'odio in uno dei luoghi significativi della tradizione cristiana, per negarla e intimidirla. Siamo democratici, ma la scelta convinta di questo sistema non comporta essere imbelli e indifesi.
 
Luciano Gulli - " Ore 20: scatta l'invasione di Gaza "
 

È la guerra. Quella vera. Quella che si combatte sul terreno. Che costa sangue, sudore e lacrime anche a chi attacca. Che sollecita il Consigliodi Sicurezza dell’Onu a convocare una riunione d’emergenza. Ieri, dopo il tramonto, alla fine dello Shabbat, Israele ha rotto gli indugi. Il défilé di Nicholas Sarkozy, e degli emissari Ue previsto per l’inizio della settimana, rischia di essere sepolto dalla polvere alzata dai cingoli di Tsahal. A centinaia, carri armati, blindati, camion pieni di riservisti richiamati per la bisogna, bulldozer corazzati sono entrati col favore delle tenebre nella Striscia di Gaza lungo tre direttrici: a nord, nel centro e a sud.

«Il nostro obiettivo», dice al Tg della sera il portavoce militare Avi Benayahu «è di dare ad Hamas un colpo durissimo, di rafforzare il potere di dissuasione di Israele e di ridare una quiete di lunga durata alla popolazione israeliana nel sud». Non sarà una cosa breve, ha aggiunto il portavoce. Compito dichiarato, è quello di scalzare dalla Striscia le «aree di lancio» dei razzi.

Era cominciata a metà pomeriggio, con il classico, intenso fuoco d’artiglieria di preparazione del terreno. Oren Rottenberg, 48 anni e 5 figli ha girato il trattore, ha fatto cenno ai suoi lavoranti curvi nel vigneto che la giornata era finita, ed è rientrato alla fattoria, non lontana da Netivot, una dozzina dichilometri dal confine con Gaza. Vogliamo chiamarla prudenza? «Ma no, si figuri, volevo sentire le notizie alla tele», protesta mentre un convulso di risa gli scuote la pancia che spinge sotto la felpa. Uno come Oren, fisico da pescatore di merluzzi, occhi azzurri, capelli a spazzola, in puro fil di ferro, cresciuto amitra sotto il letto e razzi Qassam nell’aia, ci vuol altro per mettergli addosso un po' di ansia. Alla moglie, che per la fine dello Shabbat cucina polpette stufate in una guazza di cavolfiore, Oren ha raccontato che sulle prime aveva pensato a un temporale. «Poi ho capito, e mi sono detto che sarà la notte delle volpi e dei lupi».

Nelle campagne intorno a Netivot, cittadina in cui è sepolto il celebre kabbalista marocchino Baba Sali, le chiamano così. Notti buie, buone per i commando israeliani e le loro incursioni.

«Non abbiamo intenzioni aggressive», dice il ministro della Difesa Ehud Barak. L’operazione sarà circoscritta, nessuno pensa a rioccupare Gaza è il senso. Le granate dell’artiglieria israeliana cadono senza posa nel nord della Striscia, su Beit Hanun e a Jabaliya, su quel nord della Striscia che dopo il tramonto sembra inghiottito nel nulla. Buio totale, niente elettricità, il terrore degli intrappolati senza rifugi, senza bunker. I lampi delle esplosioni, le sirene delle ambulanze.

Nella notte fra sabato e domenica, l’intelligence israeliana chiude la partita con un altro capataz delle brigate Ezzedine Al Qassam, Abu Kakaria Al Jamal, fulminandolo nella sua abitazione. Un missile partito da un aereo ha invece colpito al tramonto una moschea affollata di fedeli, uccidendo 11persone e ferendone oltre 50. Gabi Ashkenazi, comandante in capo di Tsahal, picchia duro. Non ha alcuna voglia di vedersi crocifisso sui giornali come toccò al suo predecessore Dan Halutz dopo i deludenti risultati della campagna contro l’Hezbollah libanese, a luglio 2006. Le truppe stavolta sono preparate a dovere. Stavolta sarà un rullo compressore.

«Pochi giorni,ma chissà...» dice da Tel Aviv un portavoce del governo. A lungo ventilata, promessa, minacciata, rinviata, la guerrasul terreno ora è qui. E non sarà comunque facile. In Libano Israele imparò a sue spese che l’obiettivo di gettare in ginocchio Hezbollah ricorrendo alla sola arma aerea era in realtà illusoria. Come Hezbollah, anche Hamas dispone di vaste reti sotterranee che servono da rifugi per i miliziani, war rooms e depositi di armamenti. Bisogna andarci di persona, per neutralizzarli. Inutile nascondersi l’alto costo, in termini di vite umane, che un’operazione di questo genere rischia di comportare.

Il mordi e fuggi della guerriglia, le trappole esplosive, ikamikaze: loro sono lì, aspettano. «Ma non abbiamo scelta - dice Oren, l'agricoltore di Netivot - non l'abbiamo mai avuta». E racconta del padre che un giorno di oltre 50 anni fa partecipò qui vicino, nel kibbutz di Nahal Oz, al funerale di un giovane ebreo che era stato rapito, torturato e ucciso dai palestinesi. «Venne il generale Moshe Dayan, se lo ricorda? Quello con la benda nera sull'occhio sinistro. Fu lui a pronunciare l'elogio funebre».

Le parole di Dayan, il vincitore della Guerra dei Sei Giorni, sono qui, su questo quadernetto dalla copertina celeste che Amir ha ereditato dal padre. Dayan disse così: «Noi siamo una generazione di coloni. Senza l’elmetto e senza il cannone non avremmo piantato un albero, costruito una casa. Non illudiamoci sull’odio che infiamma le menti e il cuore delle migliaia di arabi che ci circondano. Il nostro destino è segnato: dobbiamo essere pronti, armati, forti, duri». 

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