Sulla STAMPA di oggi, 04/01/2009 in prima pagina due editoriali, il primo di Igor Man(zella), il secondo di Maurizio Molinari. Man(zella) rifrigge la solita aria, anche se la posizione dei media internazionali verso Israele non gli consente gli abituali, eccessivi, sbilanciamenti in favore della parte palestinese. Certo, l'inizio non è promettente, la difesa di Israele diventa " spedizione punitiva ", Nizar Rayan, lo spietato capo Hamas eliminato a Gaza, specializzato nel forgiare kamikaze, diventa secondo Man(zella un " giuresperto ", Tzhal diventa " l'esercito di Tel Aviv", Hamas bombarda da anni, ma per il nostro "specialista" pare che Israele abbia attaccato solo per motivi elettorali. Scrive poi che " Israele è dal 1947 che fa guerre ", mentre la verità storica che il nostro manipola è che Israele si difende dalle guerre scatenate contro il proprio Stato, esattamente l'opposto di quanto lo "specialista" scrive, per finire con il solito richiamo alla Pace, che Rabin voleva, ma che non arrivò per colpa del suo uccisore. Arafat, che maleodorava tutti gli articoli di Man(zella) quando era in vita, adesso che non c'è più, scompare dallo schermo, dalla storia, come usava nell'Enciclopedia sovietica. La pace che Rabin voleva se n'è andata non perchè Arafat l'ha rifiutata, e perchè adesso c'è Hamas che vuole la distruziione di Israele, il nostro raccontaballe però non lo scrive.
Per fortuna che accanto allo specialista, c'è l'analisi di Maurizio Molinari, che in poche righe racconta com'è e come è andata. A pag. 2-3 i servizi di Baquis e Paci da Israele, da Bruxelles Zatterin.
Igor Man - " Sangue senza fine "
E’ un momento grave. L’anno nuovo, segnato dalla spedizione punitiva di Israele a Gaza, cavalca l’incognita del «dopo» - e cioè tutto finirà quando Hamas sarà in ginocchio ovvero il blitz accenderà un nuovo fronte, in Libano, dove Hezbollah sarebbe in pre-allarme? L’interrogativo verosimilmente cadrà nelle prossime quarantott’ore, allorché sarà possibile capire se l’operazione «Piombo fuso» avrà raggiunto l’obiettivo fissato dallo stato maggiore di Tzahal, obiettivo oggi difficile da individuare. Al Cairo quegli esperti puntano l’attenzione sul consenso popolare in Israele, alto.
L’80% della popolazione appoggia «Piombo fuso», solo il 4 per cento si oppone. Detto una volta ancora che Israele s’è mosso per difesa davvero legittima, sarà utile ricordare che gli accadimenti mediorientali non possono misurarsi col metro occidentale. C’è una «previsione» sul risultato del blitz israeliano sulla quale occorre per altro riflettere. A formularla è stato un leader di Hamas, il giuresperito Nizar Rayan, esattamente quattro giorni fa. Dopo aver dettato la «previsione» alle agenzie di stampa, il dottor Rayan è morto: nelle macerie dell’Università islamica rasa al suolo dall’aviazione israeliana. «Qualsiasi cosa faccia Israele ad Hamas, Hamas vincerà. E questo perché se ci uccideranno diventeremo martiri - se non ci uccideranno consacreranno la nostra vittoria». Ipse dixit uno dei più popolari uomini di Hamas. Se le sue parole saranno percepite dai miliziani, sarà estremamente difficile per Israele bonificare Gaza. Certamente i soldati di Israele potrebbero distruggere (nel senso di tabula rasa) Hamas magari in pochi giorni ma l’esercito di Tel Aviv non è un esercito di lazzaroni. Ci sono regole che solo banditi di passo potrebbero violare; c’è un’etica che va rispettata ancorché sia fatta di sangue e odio. Va detto altresì che gli uomini di Hamas sapevano che la pazienza di Israele si era esaurita, la pioggia di razzi sulle città israeliane invalidava un Paese intero. Israele è territorialmente piccolo, è una sorta di «piccola provincia» dove un po’ tutti si conoscono, come da noi nel Sud; ogni persona o soldato ha nome cognome e indirizzo. Tutto il Paese chiedeva da tempo che finisse l’incubo dei razzi di Hamas. Va detto ancora che le formazioni politiche sono sul piede di guerra in vista di prossime elezioni. Ed è possibile che la dura reazione israeliana alla sistematica provocazione dei «guerriglieri di Dio» sia stata anticipata in vista, appunto, della consultazione elettorale.
C’è, poi, un risvolto interno nella tragedia. La guerra è sempre una tragedia e non risolve: è dal 1947 che Israele ha fatto, fa guerre. Per resistere al crescente stillicidio di colpi di mano, conflitti e tregue, insomma per sopravvivere. Israele, oggi, è una minuscola nazione nucleare, ha l’aviazione più forte del mondo e ci precede nel campo della ricerca. E’ diventata un Paese piccolo e felice che tuttavia non ha saputo rassegnarsi a considerare il dramma di un altro popolo, quello palestinese. C’è stato un momentum che la pace con l’eterno nemico sembrava possibile: sul tema della pace ad ogni costo, Rabin, e con lui il partito laburista, vinse le elezioni proponendo agli israeliani un futuro «normale». Ma un giovinetto forse pazzo volle leggere nella Torah che Rabin era un «rinnegato», e come tale passibile di morte. E lo uccise. Da quel momento Israele ha camminato su due piani: la pace ma non ad ogni costo - la pace con tutti i nemici, quindi anche con Hamas, con Hezbollah. Queste due opzioni han finito con l’annullarsi ed oggi, paradossalmente, Israele a dispetto della sua potenza è in difficoltà.
Rimane solo da augurarsi che gli innocenti che fatalmente questo blitz frantuma non siano morti invano. I morti non risolvono il dramma dei vivi: la guerra è un vicolo cieco. Ma la Storia ci dice che sempre dal grembo insanguinato della guerra è nata la pace.
Maurizio Molinari - " In attesa di Obama "
L’invasione di terra delle truppe israeliane nel Nord della Striscia di Gaza ripropone la tattica militare adoperata dal governo di Gerusalemme nel Libano del Sud nell’estate del 2006 e si propone obiettivi simili: porre al sicuro dal lancio dei missili i civili israeliani che risiedono in un’area di 20-30 chilometri di distanza dalla frontiera.
Il Nord di Gaza assomiglia al Sud Libano di allora per tre motivi. Primo: è da qui che Hamas lancia razzi contro le città di Sderot, Ashdod e Ashkelon come Hezbollah faceva con Kiryat Shmona, Nahariya e Haifa. Secondo: è qui che Hamas ha costruito una capillare rete di bunker sotterranei.
Ha costruito fortini mimetizzati e punti d’osservazione per difendere le postazioni dalle quali vengono lanciati i missili proprio come Hezbollah aveva fatto a Sud del fiume Litani. Terzo: i missili più sofisticati che Hamas sta lanciando dal Nord di Gaza arrivano da una frontiera porosa come quella di Rafiah con l’Egitto nella stessa maniera con cui Hezbollah ne riceveva di ancora più potenti attraverso la frontiera aperta siro-libanese lungo la Valle della Bekaa.
Se a ciò aggiungiamo che Hamas condivide con Hezbollah la rigida disciplina dei miliziani, il disprezzo per gli accordi di pace con Israele firmati da Yasser Arafat e Abu Mazen, il sostegno finanziario-militare dell’Iran e un’ideologia basata sulla distruzione dello Stato ebraico non è difficile comprendere che lo scenario geo-strategico dell’invasione di terra di Gaza è molto simile a quanto avvenne nel 2006 nel Sud Libano.
Da qui l’ipotesi, di cui si discute in queste ore a porte chiuse a Washington come al Palazzo di Vetro, che l’interruzione delle ostilità possa essere ottenuta oggi come avvenne allora quando a prevalere fu un compromesso: Israele fermò gli attacchi e ritirò le truppe in cambio dello schieramento di una forza internazionale che ha finora impedito ad Hezbollah di tornare a bombardare la Galilea, consentendo però ai suoi miliziani di continuare ad operare ed armarsi. Il compromesso libanese, sancito da una risoluzione dell’Onu, resta una tregua tanto vulnerabile quanto precaria, ma ha comunque consentito da due anni la sospensione delle ostilità lungo il rovente confine internazionale Libano-Israele.
Resta da vedere se la diplomazia internazionale può essere in grado di ottenere adesso un simile risultato: il dispiegamento di osservatori internazionali nel Nord di Gaza unito al necessario rafforzamento delle poche unità dell’Unione Europea già a Rafiah per riuscire ad impedire il perdurante contrabbando di armi e missili dall’Egitto.
A rendere più difficile da percorrere la strada diplomatica è la temporanea debolezza degli Stati Uniti. All’attuale presidente George W. Bush sono rimasti appena sedici giorni alla Casa Bianca, troppo pochi per condurre in porto un negoziato Onu che nel 2006 durò tre settimane, mentre il successore Barack Obama si insedierà a fine mese trovandosi da subito alle prese con una crisi economica galoppante al punto da far dire al suo consigliere David Axelrod che «quando non si ha né un lavoro né una casa è difficile pensare al Medio Oriente». Se a ciò aggiungiamo la prevedibile intenzione dei maggiori rivali degli Stati Uniti - Russia e Cina - di approfittare della transizione americana per rafforzarsi sul piano strategico, non resta che guardare verso l’Unione Europea e la Lega Araba, accomunate dall’interesse di voler spegnere l’incendio di Gaza per ragioni umanitarie senza voler però legittimare Hamas che rimane il principale ostacolo ad un accordo definitivo di pace fra Israele e Autorità palestinese.
Saranno i prossimi giorni a dire se dopo i segnali mandati da Nicolas Sarkozy e Hosni Mubarak - l’uno dicendosi a favore degli osservatori internazionali, l’altro impedendo l’arrivo di rifornimenti militari a Hamas - i Paesi europei ed arabi riusciranno a suggerire una via d’uscita diplomatica alla guerra di Gaza. In caso contrario saranno le armi a stabilire il nuovo equilibrio di forze fra Israele e Hamas. In attesa di Obama.
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