La rappresaglia israeliana nella striscia di Gaza, preceduta da un colloquio al Cairo col presidente egiziano Mubarak della candidata Tzipi Livni, mostra che Israele è deciso a indebolire Hamas in vista di futuri accordi con Fatah e Abu Mazen. Ma poiché quest'ultimo si è rifugiato al Cairo, anziché in Cisgiordania, si ha l'impressione che l'attacco di Israele sia stato portato più per questioni politiche interne, come le prossime elezioni politiche, che per effettiva necessità di rappresaglia. L'attacco terminerà sicuramente entro il 20 gennaio, data dell'insediamento del futuro presidente degli Stati Uniti Obama, il quale astutamente tace. Il che mostra che nella politica estera Usa non vi sarà alcun cambiamento. Guido Bocchetta guidobocchetta@tiscali.it
Caro Bocchetta, Vi è certamente un rapporto fra i tempi dell'operazione militare nella striscia di Gaza e quelli della politica israeliana. Il premier Olmert, il ministro degli Esteri Tzipi Livni e il ministro della Difesa Ehud Barak hanno agito ora perché temevano che la moderazione sarebbe stata interpretata da molti elettori come una manifestazione d'impotenza e avrebbe regalato una trionfale vittoria a Benjamin Netanyahu, leader del Likud, nelle elezioni che si terranno il 10 febbraio. Gli ultimi sondaggi sembrano dimostrare che il calcolo era giusto. Kadima (il partito di Olmert e Livni) è salito di qualche punto e i laburisti di Barak stanno riconquistando una parte del terreno perduto dopo la loro sconfitta nelle elezioni del 2001. Non è escluso, tuttavia, che la scelta dei tempi sia stata dettata anche dal calendario istituzionale americano. Se occorre agire (così hanno probabilmente ragionato i triumviri della politica israeliana) è meglio farlo finché vi sono alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato persone che hanno sempre sostenuto Israele e su cui è possibile fare affidamento. Barack Obama ha visitato nello scorso luglio Sderot (la città maggiormente colpita dai missili di Hamas) ed è parso avallare una eventuale reazione israeliana. Ma certe sue dichiarazioni, soprattutto agli inizi della campagna elettorale, hanno suscitato a Gerusalemme qualche preoccupazione. Mentre Bush ha categoricamente rifiutato di trattare direttamente con i leader degli «Stati canaglia» e dei «movimenti terroristici», Obama sembra disposto a parlare con tutti. È troppo presto quindi per sostenere che la politica estera del nuovo presidente non sarà diversa da quella del predecessore. Il suo silenzio di questi giorni potrebbe essere dovuto a una sorta di calcolata prudenza. Il presidente eletto non ha ancora i poteri della sua carica e sa di non potere prendere alcuna iniziativa. Ma non ignora, d'altro canto, che la guerra di Gaza avrà l'effetto di rimescolare ancora una volta le carte del Medio Oriente e di lasciare sul terreno nuovi rapporti di forza. Cercherò di spiegarmi con qualche esempio. Israele ha un obiettivo strategico, la liquidazione di Hamas, che è condiviso, anche se nessuno degli interessati osa dirlo esplicitamente, da alcuni fra i maggiori governi sunniti della regione (Egitto, Arabia Saudita, Giordania) e dalla dirigenza palestinese della Cisgiordania. Se il risultato verrà raggiunto in tempi relativamente brevi, Israele sarà più forte, Abu Mazen riprenderà in mano il controllo di Gaza e i governi sunniti saranno lieti che l'Iran di Ahmadinejad abbia perduto una delle due pedine (l'altra è Hezbollah) di cui dispone nella regione. Lo scenario sarebbe alquanto diverso, invece, se l'operazione militare di Israele non desse rapidamente i risultati desiderati e la guerra di Gaza finisse per assomigliare a quella libanese del 2006. Il triumvirato israeliano ne sarebbe fortemente indebolito. I governi sunniti subirebbero la crescente pressione delle loro opinioni pubbliche. Gli arabi israeliani scenderebbero in piazza per protestare ancora più vigorosamente contro il trattamento subito dai loro connazionali. L'Iran e Hezbollah canterebbero vittoria. Ho descritto due fra i molti scenari possibili. Comunque vada, la guerra cambierà la geografia politica della regione. Oggi un presidente senza poteri, come Obama, può soltanto attendere la nuova realtà che dovrà affrontare dalla Casa Bianca.
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