venerdi 01 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Giornale Rassegna Stampa
31.12.2008 L'Europa non si inganni, a Nablus tra i palestinesi, e a sinistra Israele rimane il male
Fiamma Nirenstein, Luciano Gulli, Salvatore Scarpino

Testata: Il Giornale
Data: 31 dicembre 2008
Pagina: 8
Autore: Fiamma Nirenstein-Lucioano Gulli-Salvatore Scarpino
Titolo: «L'Euriopa capisca, è una guerra al terrorismo-Tra i palestinesi di Nablus. Hamas costruisce il potere sul sangue del suo popolo- E a sinistra Israele rimane il male»

Sul GIORNALE di oggi, 31/12/2008, tra i vari servizi, segnaliamo l'analisi di Fiamma Nirenstein, l'articolo di Luciano Gulli da Nablus e il commento di Salvatore Scarpino suller reazioni della sinista italiana.

Fiamma Nirenstein - " L'Euriopa capisca, è una guerra al terrorismo ":

Perché Israele ci mette tanto a decidere quale strada prendere? Per quale ragione i suoi uomini oliano i motori dei tank sul confine ma non li mettono in moto per cercare di tagliare la Striscia così da impedire ai Kassam e ai Grad di transitare? Perché Israele, salvo che per tre personaggi non di primissimo piano, non ha scelto subito la strada delle eliminazioni mirate dei leader di Hamas, come invece accadde dopo l’ondata terrorista dello Sceicco Yassin e di Abed el Aziz Rantisi? Semplicemente perché è difficile guardare nel futuro di Gaza. Hamas ha giurato di distruggere Israele, e non ha nessun interesse a trattare. Ogni tregua è solo un regalo perché si riorganizzi. Occorre uscire da Gaza con risultati che non consentano a Hamas di proclamare,come fecero gli hezbollah nel 2006, una vittoria divina. Sarebbe un’incitazione sconsiderata per tutti i terroristi del mondo. Occorre una conclusione che abbia il carattere della chiusura di un’epoca ma anche che salvaguardi la possibilità per i Paesi Arabi moderati come l’Egitto di apparire salvatore dei palestinesi.

Si spera che Abu Mazen possa prendere Gaza, ma si deve lasciare che appaia un patriota non sospetto di collusioni con Israele… E soprattutto, occorre concludere le cose in modo che Hamas non possa più sparare 100 missili in un giorno su Sderot, come ha fatto mercoledì. In genere, prima una tregua e poi un accordo certificano la sconfitta di uno dei due contendenti, e la speranza di pace del vincitore. Così è andata fino ad ora: Israele è stato sempre il vincitore che cede terra contro pace.

Dalla prima Intifada uscì col riconoscimento dell’esistenza e dei diritti dei palestinesi e poi venne l’accordo di Oslo. Dalle guerre, sempre vittoriose, uscivano prima tregue e poi accordi che restituivano terra all’Egitto e alla Giordania in cambio di pace. Interlocutori razionali, con cui è andata abbastanza bene. Con i palestinesi come anche con gli hezbollah in Libano la cedevolezza di Israele ha avuto cattivi risultati: con Oslo, fino all’ultimo soldato uscì dalle cittadine palestinesi, lasciando il 98% dei palestinesi sotto Arafat. Ma a Camp David Arafat, ormai preda dell’islamismo dilagante, fece scoppiare l’accordo. Con il Libano, Israele seguì la strada dello sgombero unilaterale ritrovandosi poi con gli hezbollah che sparavano sul nord del Paese.

Dalla seconda Intifada, dopo avere sconfitto il terrorismo, decise di sgomberare Gaza. E Hamas ne ha fatto una macelleria per Fatah e una rampa dimissili contro Israele. Che ora pondera come differenziare il suo comportamento odierno da quello, evidentemente errato, del passato.Mubarak ha avvertito più volte: Hamas vuole consegnare il Medio Oriente arabo nelle mani degli iraniani. L’Egitto ne è consapevole, così come Abdullah di Giordania. Israele ha il difficile compito di affrontare Hamas per quello che è, ovvero lo spigolo irriducibile della minaccia iraniana. D’altra parte la sua sostituzione è difficile: è chiaro che il candidato ideale è Abu Mazen che, in ogni caso, non puòfarvi ritorno sul vento di guerra israeliano.

Che fare dunque? Procedere all’eliminazione del gruppo dirigente? Tutto è sospeso in una guerra amille sfaccettature di cui però si può dire che è diversa dal vecchio conflitto israelo-palestinese, quello in cui Israele poteva puntare alla pace, ai trattati. Sarebbe bene che l’Europa imparasse dunque, la nuova lingua di questoc onflitto che è quellodell’Occidente che si difende dal terrorismo con coraggio, e abbandonasse l’idea sbagliata, dopo sette anni di missili su Sderot, di un conflitto «sbilanciato».  Sbilanciati siamo noi che per il nostro terzomondismo non sappiamo distinguere l’aggressore da colui che si difende. E un buon risultato da una mera tregua. Il buon risultato è quello in cui Hamas perde; in cui il fronte arabo moderato non si vergogna di proclamare la sua moderazione anche a costo di dare ragione a Israele. Questo è un nuovo gioco, quello della guerra contro il terrorismo internazionale in cui i cittadini sono usati come scudi umani.

Luciano Gulli - " Tra i palestinesi di Nablus. Hamas costruisce il potere sul sangue del suo popolo "

Una coda di un'ora, al check point di Nablus, nei Territori occupati, sotto il cielo arruffato di questa fine d'anno. La solita ressa di taxi gialli e di pullmini collettivi, su un fondale sonoro di clacson fiammeggianti, che fanno avanti e indietro sotto gli occhi arcigni dei giovanissimi soldati di Tsahal. Il solito marasma di uomini e donne che per entrare e uscire dalla città devono sottoporsi a umilianti attese e altrettanto umilianti perquisizioni, tra zaffate di gas di scarico che sporcano questa triste spianata di sassi, di copertoni di camion e di desolante plasticume multicolore.
Quasi un'ora e mezzo di viaggio per coprire la sessantina di chilometri da Gerusalemme, tra olivi, cipressi e fichi spogli, in un paesaggio che spesso somiglia a un teschio spolpato. Ma il viaggio valeva la pena. Perché è qui, nei Territori, quattro giorni dopo l'inizio dei bombardamenti a Gaza, che si riesce a cogliere tutto intero un fenomeno che all'inizio sconcerta, disorienta. Parlo della netta distanza psicologica, perfino sentimentale, che esiste fra i palestinesi della West Bank e quelli di Gaza; tra chi ha scelto di farsi rappresentare dalle barbe incendiarie di Hamas, e ora sta laggiù, a sfangarsela nel carcere a cielo aperto della Striscia arato dai caccia con la stella di David, e quelli di Al Fatah che ha tra queste lande ossute la sua roccaforte. È la “maggioranza silenziosa“, borghese, pacifista, consumista, che con Israele ha firmato la pace da anni, in cuor suo, anche se nessuno lo dice perché è politicamente maleducato dirlo.
Non c'è negozio di elettrodomestici, nel convulso centro cittadino dominato dall'immensa cattedrale in cui si officiano i soliti riti di tutti i centri commerciali del mondo, che non ostenti impennate di tv color sintonizzati su Al Arabya o su Al Jazeera. Sugli schermi, nelle dirette sterminate che impiombano mattine, pomeriggi e sere, passano e ripassano le immagini delle devastazioni compiute dai cacciabombardieri israeliani; le facce delle donne, dei bambini travolti dal mostro della guerra. Ma le facce di chi osserva sono neutre, inespressive. Non ci sono pugni chiusi, non slogan minacciosi, non striscioni, non cortei, per le strade di questa città che è il cuore commerciale della West Bank e che dopo il lutto cittadino di rito, a serrande abbassate, si è rituffata con la solita vorace libidine nel business. Basta col sangue, basta con gli ammazzamenti e i kamikaze e le lotte tra fazioni a base di sventagliate di mitra. Basta soprattutto con quelli che vogliono tenere in vita un sistema di potere che sulla legittima aspirazione di un popolo ad avere una terra e uno Stato ha costruito un sistema di potere fondato sul conflitto permanente. Questo dicono anche gli studenti che incontro all'università “An Najah“, un presepe di pietra bianca, moderno ed efficiente, formicolante di ragazzi e ragazze attesi dagli esami di fine anno.
E la “terza Intifada“? Che ne è stato della corale rivolta di popolo che partendo dalla Striscia di Gaza avrebbe dovuto mettere in ginocchio Israele? Possibile che stenti così tanto a partire?
«La terza Intifada, se la vogliono fare - mi risponde un po' imbarazzato Farag, 21 anni, studente alla facoltà di Giornalismo (ce n'è una anche a Nablus, ebbene sì)- possono farsela a Gaza quando vogliono. Qui abbiamo già dato. Nessuno vuole rinunciare al sacrosanto diritto di vedere gli israeliani fuori dalla nostra patria, sia chiaro. Ma la tattica del muro contro muro non funziona più. Se Hamas pensa di guadagnare consenso sul sangue di un popolo che già ne ha versato tanto, si sbaglia». Un gruppo di ragazze velate (le femmine sono il 56 per cento degli studenti) annuisce, sposando la linea di Farag.
Kherieh Kharouf, quarantenne direttrice della sezione Affari Internazionali dell'Università, si augura addirittura di «non vederla, questa terza Intifada». Bionda, i capelli raccolti sulla nuca, uno scialle bianco su un vestito nero, la dottoressa Kherieh è netta nei suoi convincimenti. Anche l'università di An Najah, l'anno scorso, è stata teatro di scontri tra fazioni avversarie di studenti, dice sedendo tra un grande ritratto di Arafat e uno di Abu Mazen, in quello che parrebbe il salone principale dell'Ammiragliato britannico ed è invece solo la sala riunioni del Rettorato. Da allora, è deciso. Niente più politica all'università. «Qui si viene per studiare. Condanniamo i fatti di Gaza così come condanniamo tutti i casi di violazione dei diritti umani - dice con sorridente fermezza la signora Kharouf -. Ma all'interno delle mura dell'università il linguaggio che abbiamo deciso tutti insieme di usare è quello dello studio, della riflessione, dell'educazione». Come dire: a Nablus, l'Intifada può attendere.

Salvatore Scarpino - "  E a sinistra Israele rimane il male "
La sinistra, quali che siano le sue gradazioni, non riesce a vincere le pulsioni ossessive che le vengono del passato e quando più acute diventano le crisi nell’area mediorientale rispolvera i suoi livori anti-israeliani. Per questa parte politica lo Stato d’Israele, quasi per una maledizione infinita, è condannato a subire in eterno violenze e soprusi, dagli attentati suicidi agli attacchi missilistici da Gaza, in una sofferenza mostruosa, in un’indicibile angoscia. E quando Israele reagisce, per riaffermare il suo diritto alla vita, per esprimere un millenario e legittimo istinto di sopravvivenza, la sinistra per ciò stesso l’indica come l’istituzionalizzazione del male. Hamas, coi suoi strumenti di morte, il suo fanatismo terroristico, i suoi apparati bellici scivola su uno sfondo opaco, in primo piano resta la violenza di Israele. Resta, insomma, una menzogna.
La lettura di certi giornali è illuminante. L’Unità gioca la carta della commozione (Gaza ci guarda, ancora raid ancora morti) senza il minimo accenno alle ragioni della reazione israeliana allo stillicidio di attacchi di Hamas. Il manifesto parla tout court di aggressione israeliana e in un commento, in prima pagina, bolla come eterna bugia la pretesa alla sicurezza di Israele. Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, si rivela più dietrologica: la reazione delle forze con la stella di Davide sarebbe stata dettata soltanto da interessi politici in vista delle elezioni di febbraio.
Sia chiaro, tutto il mondo civile, con la comprensibile esclusione delle organizzazioni fondamentalistiche dell’islam terroristico, auspicano che le operazioni militari cessino nella Striscia di Gaza, ma questo augurio non intacca le categorie morali che devono guidarci: Israele è l’aggredito, Hamas è l’aggressore, nessun torbido gioco illusionistico è possibile. Ed è singolare che a buttare fumo negli occhi in questa situazione tragica sia stato Gad Lerner, diventato, per fedeltà ideologica alla sinistra che l’ha nutrito, ipercritico nei confronti di Israele. Lerner è un posapiano, un compagno al rallentatore, e loda le azioni caratterizzate dalla lentezza. Secondo lui, errante in un articolo erratico su Repubblica, i dirigenti israeliani sono accecati dal mito della guerra lampo e, come un rabbino sapiente, cita Joseph Roth, facendo dire a Mendel Singer, impareggiabile Giobbe, che «tutto ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano». Già, ma quanto ancora dovrebbe aspettare Israele per respirare la pienezza di vivere in sicurezza? I raid non servono, cosa ci vorrebbe, l’infinita pazienza di Giobbe? Gad Lerner si arrampica sugli specchi delle sue contraddizioni, scisso fra la fedeltà alle origini e gli obblighi della militanza. Offre un pessimo servigio alle une e all’altra, dimenticando che il Giobbe di Roth non avrebbe parlato con lui né con Repubblica.
 
Per inviare la propria opinione al Giornale, cliccare sulla e-mail sottostante.

lettori@ilgiornale.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT