Su LA STAMPA di oggi, 31/12/2008, a pag. 6-7 le cronache di Aldo Baquis da Israele, Antonella Rampino da Roma sull'audizione del Ministro Frattini (nella quale D'Alema ha riaffermato che con Hamas si deve dialogare), mentre da Parigi riferisce Domenico Quirico, con la dichiarazione del ministro degli esteri ceco Schwarzenberg " noli siamo filoisraeliani". A pag.43, un commento di Riccardo Barenghi, una vita trascorsa da comunista, e si vede. Per lui Israele e Hamas sono sullo stesso piano, l'unica soluzione è che devono andare d'accordo. Sembra che Barenghi non conosca la storia, nemmeno quella recente. Cita Arafat, ignorando qhe questa di oggi è l'eredità della sua politica, non tenendo conto che se Hamas cessasse di essere una entità terrorista, Israele non avrebbe problemi a trattare, così come sta facendo da anni con l'Anp. Ma invano, e non certo per volontà dello stato ebraico. Barenghi, la smetta di fare il trinariciuto, si legga lo statuto di Hamas e poi ci dica come è possibile seguire il consiglio di D'Alema. Ecco l' articolo, dal titolo, chissà perchè, " Hamas, dilemma italiano":
Se fossi un ebreo che vive a Gerusalemme non so se tratterei con Hamas, e se fossi un palestinese che vive a Gaza non so se tratterei con Israele. Forse, se fossi l’uno farei la guerra all’altro, e viceversa. Anche sapendo che quella guerra non porterebbe a nulla, anzi peggio: porterebbe, come ha portato finora e continuerà a portare nel futuro, ad altre guerre, morti, feriti, distruzioni, odio su odio. E però, neanche i periodi di pace, o meglio di tregua che si sono succeduti in questi decenni hanno mai portato a una soluzione definitiva, decente, concordata, accettabile per tutti. C’è sempre stato qualcuno, da una parte o dall’altra, che ha ricominciato a sparare, ad ammazzare ammazzandosi, a bombardare postazioni militari e case di civili. E così via, in un circolo infernale dal quale non s’è mai usciti nonostante i tentativi di alcuni leader (Rabin e Arafat) di farla finita con la guerra infinita. E allora, che fare?
Facile parlare da lontano, schierarsi, criticare quello o quell’altro, invocare il cessate il fuoco. Facile, e sacrosanto, sostenere che Israele ha diritto a vivere in pace senza subire una minaccia perenne che gli pende sulla testa dall’interno dei Territori palestinesi e dai Paesi arabi che lo circondano. Facile, e sacrosanto, battersi perché i palestinesi abbiano la loro terra dove possano circolare liberamente, lavorare, insomma vivere senza oppressioni militari. Facile ma inutile finché non saranno i protagonisti dello scontro a decidere se vogliono continuare all’infinito a scannarsi oppure tentare un’altra strada.
E qui nasce la questione che in queste ore fa discutere il mondo: trattare o non trattare con Hamas. In altre parole: Israele deve accettare che Hamas sia anche un interlocutore politico oppure è solo un nemico da abbattere con la forza, costi quel che costi? Il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, propende per la seconda ipotesi, seppur invocando la cessazione dei raid. Secondo lui, Hamas è un’organizzazione terroristica, quindi nessuna trattativa. Diversa l’opinione del suo predecessore, Massimo D’Alema, il quale ricorda che Hamas ha vinto le elezioni, che gode di consenso tra i palestinesi, che è un’organizzazione non solo militare ma anche sociale. Di conseguenza, «non ci si può illudere di arrivare a una pace senza negoziare con Hamas». (Analogo discorso fece in Libano, e la sua foto a braccetto col ministro Hezbollah in mezzo alle macerie provocò parecchie polemiche).
Si tratta di un problema che il mondo politico ha dovuto affrontare decine, centinaia di volte dall’antichità ai giorni nostri. Dando naturalmente risposte diverse caso per caso, perché è ovvio che se uno dei due contendenti ha la certezza di sconfiggere militarmente il nemico, procede su quella strada. E alla fine, dopo averlo battuto, lo costringe ad arrendersi. Giulio Cesare lo fece con i Galli, gli alleati lo fecero con Hitler e Mussolini, gli algerini con i francesi, i vietnamiti con gli americani. Può essere una soluzione, lo è stata nel passato.
Ma non può esserlo oggi. Per la semplice ragione che nessuno può cacciare via il nemico, perché il nemico non è questo o quel governo, questo o quel dittatore, non è un esercito invasore che si può costringere al ritiro. Ma è un popolo, anzi due, che vivono uno accanto all’altro, sullo stesso territorio, nel medesimo Paese. E nessun cittadino ebreo accetterà mai di vivere una vita nel terrore, come nessun palestinese accetterà mai di vivere sotto un’umiliazione perenne. E più sono umiliati, bombardati, uccisi, più i palestinesi diventano integralisti, terroristi, cattivi. Hamas non è uno scherzo del destino, una coincidenza, un fungo spuntato per caso. È il prodotto di una storia provocata da entrambi i nemici. Nessuno è così stupido da sostenere che la colpa sia solo di Israele, degli americani o di tutto l’Occidente. La colpa è anche di quei palestinesi che si sono arresi all’odio, quindi all’integralismo e infine al terrorismo. E che si sono via via moltiplicati, per dieci, cento, mille. Ma oramai è evidente che per ogni miliziano, dirigente, capo militare o semplice simpatizzante di Hamas ucciso (per non parlare dei civili) ce n’è un altro o due o tre pronti a prendere il suo posto. Questo è il circolo mostruoso che si può spezzare forse - forse - solo trattando col nemico: vent’anni fa si chiamava Arafat, oggi si chiama Hamas.
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