Battistini,Frattini, Mazza, Caretto, Ferrari, buona informazione ti credo, mancava Sergio Romano ( e Farina)
Testata: Corriere della Sera Data: 30 dicembre 2008 Pagina: 10 Autore: Francesco Battistini, Davide Frattini, Viviana Mazza, Ennio Caretto, Antonio Ferrari Titolo: «Vari»
Anche oggi, 30/12/2008, un CORRIERE della SERA denso di servizi sulla guerra contro Hamas. La cronaca è affidata a Francesco Battistini, più una breve sulle condizioni di Gilad Shalit. Dallo spagnolo Mundo, una intervista a Tzipi Livni. L'inviato Davide Frattini riferisce sulla strategia militare d'Israele e riferisce le opinioni di Haaretz ( così Miche Farina è soddisfatto, leggere la sua lettera ai redattori del Corriere su IC di oggi). Viviana Mazza informa sulle reazioni nel mondo arabo, mentre da New York Ennio Caretto intervista il filosofo della politica Michael Walzer. Sulle due bambine palestinesi uccise da un razzo di Hamas ritorna Francesco Battistini, mentre l'analisi è affidata a Antoni Ferrari. Nell'ordine, ecco tutti gli articoli:
Francesco Battistini - " Gaza, oggi vertice Ue a Parigi, Israele: distruggeremo Hamas "
Nella Striscia il 47% della popolazione vorrebbe una tregua. Abu Mazen convoca a Ramallah anche le fazioni rivali DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME — E il terzo giorno resuscitò la diplomazia. Sepolta da 72 ore di bombardamenti su Gaza e da un massacro di palestinesi senza precedenti negli ultimi quarant'anni, ammutolita dai duecento razzi lanciati su Israele e da un tiro al bersaglio che durava mesi, la ragione prova a dire la sua. I ventisette dell'Unione europea si trovano oggi pomeriggio a Parigi, penultimo giorno della presidenza francese. Un tavolo per chiedere l'unica cosa possibile, almeno adesso: una tregua. E preparare il primo, vero incontro: l'invito all'Eliseo (accettato) della ministra degli Esteri israeliana, Tzipi Livni, per il fine settimana. Le dichiarazioni di propaganda lasciano spazio alle telefonate che contano. Condoleezza Rice in un solo giorno parla col premier israeliano Olmert, in scadenza come lei, e col segretario dell'Onu, Ban Ki-Moon, col libanese Siniora, coi colleghi europei, egiziano, turco, saudita, tunisino... Abu Mazen convoca a Ramallah tutte le fazioni palestinesi, compresi gli uomini di Hamas, mentre l'Autorità palestinese e l'Egitto domandano che il Consiglio di sicurezza dell'Onu ammonisca Israele. Ci si muove anche dall'Italia: Napolitano allerta il vecchio amico Peres, presidente israeliano; Berlusconi, Sarkozy e Putin; Frattini, il leader della Lega araba Amr Moussa. Cercasi tregua disperatamente. Anche perché l'aria non è certo di pace: raid notturni, colpi anche dalle navi in rada. Israele colpisce l'ufficio vuoto del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, l'università islamica, la moschea di Jabaliya. Venti bersagli, dopo i trecento dei primi due giorni. Muoiono due capi militari della Jihad, compreso l'inventore delle brigate al-Kassam che lanciano i razzi, Ziad Abu-Tir, 35 anni, saltato in aria col figlioletto e due guardie del corpo. Muoiono altri innocenti: cinque sorelle, la strage più impressionante. L'Onu dice che le vittime palestinesi sono salite a quota 360, e 62 erano civili (almeno 21 bambini, 7 donne). «Stiamo cercando d'evitarlo — dice Tzipi Livni —. Ma in guerra, purtroppo, muoiono anche i civili». Dimostrazione viene pure dai razzi che continuano a cadere: i morti israeliani sono tre, adesso, decine i feriti. Inquietante il raggio di gittata, sempre più lungo: i katiuscia islamici piovono su Ashkelon (e uccidono un arabo), Sderot, i kibbutz. Sulla Striscia stanno calando anche i rinforzi: sui siti iraniani, dopo l'appello dell'ayatollah Khamenei, si sono già registrati 3.350 aspiranti «martiri», pronti a combattere nella Striscia. E questo nonostante un sondaggio on line, organizzato dalle Brigate al-Kassam, dica che il 47,2% degli abitanti di Gaza voglia la stessa cosa delle diplomazie: una tregua. L'ipotesi è esclusa dalla Livni: «Hamas non è pronta». Ma anche gli obbiettivi israeliani, forse, sono altri. Il vicepremier Ramon lo dice chiaro: «Lo scopo è buttarli giù. Cesseremo il fuoco solo se qualcuno s'assumerà la responsabilità di governare Gaza. Chiunque, meno Hamas».
Francesco Battistini - " Shalit colpito negli attacchi, no, cerchiamo di salvarlo"
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME — «Gilad Shalit è stato colpito dalle bombe dei suoi amici». Il primo soldato israeliano ferito è quello che, più di tutti, dovrà tornare a casa sano e salvo. Hamas lo sa. E nella sua controffensiva mediatica, fa uscire la voce su un sito web amico: il caporale della Galilea, ostaggio a Gaza dal 25 giugno 2006, sarebbe uno dei «danni collaterali» dell'attacco aereo di questi tre giorni. Come esca la rivelazione, non si sa. E' una tv egiziana che la rilancia, virgolettando un anonimo capo islamico per il quale «si stava facendo di tutto per salvaguardare l'incolumità di Shalit». La prima reazione in Israele è il no comment. Il vicepremier Haim Ramon: «Non sappiamo se la notizia sia vera, ci aspettavamo che sarebbe stato usato per manipolazioni politiche», e «malgrado tutto ciò, siamo molto preoccupati per la situazione». Una mezza risposta: «Sono convinto che Hamas farà di tutto per tenerlo in vita». E' la controguerra dei nervi. La stessa che fa arrivare ai soldati israeliani messaggi radio del tipo: «Se avete coraggio scendete da quegli aerei. Vi bruceremo vivi». Secondo fonti militari, c'è solo la prova che Gilad sia vivo, non se sia sano. Sarebbe stata offerta una taglia, 200mila euro, a chiunque da Gaza dia informazioni sulla prigione. Poche settimane prima dell'attacco, i servizi avevano chiesto ai leader di Hamas una testimonianza video. La risposta, due domeniche fa, fu l'esibizione pubblica d'un attore in divisa che impersonava Shalit in ginocchio. «Uno spettacolo feroce — dice un ufficiale israeliano — ma un modo per dirci che Gilad era ancora vivo». Tutto cambia, ora. Papà Noam è per forza ottimista: «Sono preoccupato, ma credo ci sia molta gente interessata a tenere Gilad vivo, anche a Gaza».
Sal Emergui - " Livni, cambieremo la situazione di sicurezza nel Sud "
«Facciamo di tutto per evitare vittime civili. Se vogliono una vita migliore nel loro Stato, i palestinesi hanno una sola scelta: allontanarsi dalla strada terrorista di Hamas e dialogare ». Così il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni, in un'intervista concessa poco prima di una riunione con il responsabile della Difesa Ehud Barak. Quali sono gli obiettivi di questa operazione a Gaza? «Ridare sicurezza a centinaia di migliaia di cittadini nel Sud di Israele che da sette anni vivono in un incubo, alla mercé dei terroristi che hanno lanciato più di 12.000 razzi e proiettili. Questo implicherà una maggior sicurezza anche per gli abitanti di Gaza, le principali vittime del terrore di Hamas». Avete esplorato ogni altra possibilità per arrivare a una tregua? «Israele ha annunciato diverse volte il suo interesse a estendere la tregua. L'Egitto ha fatto pressioni su Hamas perché accettasse la continuazione del cessate il fuoco. Altri Paesi e personalità internazionali si sono adoperate in questo senso. Hamas ha reagito con superbia, proclamando la fine della tregua e aumentando gli attacchi contro le nostre città: 80 razzi in un solo giorno. Non ci restava altro da fare. Dovevamo porre fine alla pioggia di missili e dire basta al terrorismo». Molti Paesi considerano la vostra operazione «sproporzionata» e condannano il numero di vittime, civili compresi... «Ogni vittima civile è un dolore. Ma dobbiamo ricordare che quando Israele attacca Hamas, cerca di evitare le perdite tra i civili. Mentre loro cercano intenzionalmente di uccidere i bambini. Sparano agli asili, alle scuole, seguendo un'ideologia estremista. Noi attacchiamo solo obiettivi militari. Hamas si nasconde dietro agli abitanti, collocando tra le case depositi di armi ed edifici logistici. A Hamas non importa della popolazione di Gaza. I missili dei terroristi venerdì scorso hanno ucciso due bambine palestinesi a Beit Lahia». Lei ha ricevuto telefonate di molti leader che chiedevano la fine immediata dell'offensiva. Come ha risposto? «Abbiamo ascoltato voci molto diverse. Molti Paesi riconoscono il diritto di Israele a difendersi e si rendono conto della situazione insopportabile creata dall'estremismo di Hamas. Non conosco nessun Paese che avrebbe accettato impassibile per anni che i suoi abitanti fossero attaccati da missili e attentati. Tutti avrebbero usato la forza militare come ultimo strumento, rendendosi conto, come abbiamo fatto noi, che i mezzi politici non sortiscono alcun risultato». Dite che l'offensiva «non sarà breve». Anche via terra? «Non posso entrare nei dettagli tattici. Quello che posso dire è che abbiamo deciso di cambiare radicalmente la situazione della sicurezza nel Sud di Israele e ridare tranquillità ai cittadini, Per questo obiettivo faremo tutto quanto sarà necessario». Non teme l'allargamento del conflitto? «Israele vuole la pace e per ottenerla deve lottare contro Hamas, che a ogni passo nel processo di pace ha sempre reagito uccidendo. La loro visione è una guerra interminabile. Attaccano gli israeliani e i palestinesi che non sono d'accordo con loro. Noi portiamo avanti i negoziati con l'Autorità Palestinese all'interno del quadro negoziale previsto dagli accordi di Annapolis (del 2007, ndr). Chi vuole l'esistenza di uno Stato palestinese di fianco a Israele deve capire che il nostro dovere è lottare contro il terrorismo». Sal Emergui El Mundo
Davide Frattini - " Intelligence e obiettivi mirati: il piano di Barak "
GERUSALEMME — Poche ore prima che i jet decollassero, Ehud Barak se ne stava in televisione, ospite d'onore del programma satirico «Eretz Nehederet» (Un Paese meraviglioso). «I capi di Hamas avranno pensato che se il soldato più decorato d'Israele ha tempo da buttare per lasciarsi prendere in giro, i bombardamenti non dovevano essere imminenti». Yossi Verter, analista del quotidiano Haaretz, ha ricostruito i momenti che hanno preceduto l'inizio di «Piombo fuso». Da detective ha individuato le impronte digitali di Barak su tutti i piani operativi: il gusto per il bluff e la diversione, l'effetto sorpresa e le mosse studiate nei minimi dettagli. Il leader laburista lo ha confermato ieri, in un intervento davanti al Parlamento. «I preparativi sono stati seri e meticolosi. Abbiamo sfruttato i mesi della tregua per raccogliere informazioni sul terreno, per addestrare l'esercito e preparare il fronte interno». In meno parole: vi prometto che non sarà un altro Libano. Eppure i primi giorni delle due guerre si somigliano molto. «Come nel conflitto contro Hezbollah — scrive Ben Caspit su Maariv — lo scontro è cominciato con una cooperazione perfetta tra intelligence e aviazione. Sessantaquattro aerei hanno lasciato cadere simultaneamente 108 bombe su obiettivi strategici a Gaza, subito dopo sono stati colpiti cinquanta basi di lancio per i Qassam». Queste postazioni avrebbero dovuto garantire la rappresaglia di Hamas in caso di un'offensiva israeliana. Erano state scavate in tutta la Striscia, ognuna conteneva un lanciarazzi. Non hanno potuto sparare. Da sabato mattina i jet hanno effettuato oltre 300 bombardamenti. Nella notte nuove esplosioni e lampi di fuoco a Gaza City. Morti saliti a 360, almeno 62 civili, secondo i dati raccolti dall'Unrwa, l'agenzia per i rifugiati palestinesi dell'Onu. I generali israeliani vogliono centrare i simboli del movimento fondamentalista. Ieri distrutta una casa vicino al palazzo dove abita la famiglia Ismail Haniyeh, il premier deposto dal presidente Abu Mazen, che vive nascosto come gli altri leader. Un palazzo di 5 piani nel cortile dell'università islamica raso al suolo, abbattuti le caserme e i campi di addestramento della forza esecutiva. Un raid ha bersagliato la moschea dove andava a pregare Ahmed Jabari. Il giovane comandante delle Brigate Ezzedin Al Qassam — sostiene il Jerusalem Post — sarebbe rimasto ucciso. E' il capo di stato maggiore di Hamas e in questi mesi aveva preparato i piani di risposta a un'eventuale azione israeliana. Barak promette che non sarà un altro Libano, Ehud Olmert vuole dimostrare di aver imparato la lezione. Durante il Consiglio di sicurezza che ha votato l'intervento, il premier ha chiesto ai ministri di pensarci anche tre volte. Il premier definisce in modo diverso gli obiettivi: non parla più di «strategia d'uscita» (troppo lontano), ma di «successi strategici». «Israele deve punire Hamas e spingerlo a esitare prima di colpirci ancora — commenta Ofer Shelah, autore del libro "Prigionieri in Libano: la verità sulla guerra" —. Il compito principale del governo in questo tipo di operazioni è capire quando la punizione perde efficacia e comincia a creare frustrazione perché i combattimenti vanno avanti». Tzipi Livni, ministro degli Esteri, sta preparando un piano per una soluzione diplomatica. Israele esclude l'idea di una forza internazionale, come quella dispiegata nel Sud del Libano alla fine del conflitto. «Non prevediamo una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu» hanno spiegato alcune fonti ad Haaretz. «L'esercito vuole per ora continuare con i raid per raggiungere altri obiettivi, dopo discuteremo delle opzioni politiche». Barak si era opposto a un attacco per settimane. Perché temeva di indebolire il controllo di Abu Mazen in Cisgiordania, perché non voleva (e non vuole) che i militari occupino la Striscia. «Tutte queste obiezioni — conclude Shelah — rimangono vere ancora oggi».
Viviana Mazza - " E' scontro Egitto Hezbollah "
Il leader libanese istiga gli egiziani contro Mubarak, in difesa di Gaza. Il Cairo replica puntando sul patriottismo «Che c'è scritto sulla mia scarpa? », chiede un manifestante nel suo poster, a Beirut. «Hosni Mubarak è deplorevole». Da giorni il presidente egiziano si sente dare del traditore nelle piazze del mondo arabo. Le proteste continuano al Cairo, Beirut, Amman, Tripoli. Le accuse: è il «secondino » di Israele, perché tiene chiuso il confine con Gaza (difeso da 10.000 guardie armate), contribuendo a schiacciare economicamente Hamas e affamare i palestinesi; e avrebbe dato luce verde ai raid (Livni era al Cairo 48 ore prima). Ieri il governo egiziano ha replicato risentito, prendendo di petto uno dei principali accusatori: il leader di Hezbollah, il libanese Hassan Nasrallah, che ha invitato gli egiziani a ribellarsi contro Mubarak perché apra il valico di Rafah, infrangendolo se necessario «con i propri petti» (ieri passavano feriti — con il contagocce — e alcuni aiuti; ad Hamas non basta). Il ministro degli Esteri egiziano Ahmed Abul Gheit, in visita in Turchia (meglio rinsaldare le alleanze visti i tempi duri), ha definito le parole di Nasrallah una «dichiarazione di guerra»: «Vuole il caos in Egitto come quello che ha provocato nel suo Paese». Ha aggiunto: «Quest'uomo ha nominato le nostre forze armate. Le onorate forze armate egiziane sono capaci di difendere la patria da gente come lui». Se Nasrallah fa perno sulla solidarietà araba con i palestinesi (e sulla propria popolarità di eroe della guerra del 2006 in Libano contro Israele), il governo egiziano si fida del patriottismo dei cittadini. «Qui c'è grande commozione per i palestinesi ma allo stesso tempo un forte nazionalismo — dice al Corriere Gamal Abdel Gawed Soltan del Centro studi politici e strategici Al Ahram —. A gennaio ci fu forte pressione perché l'Egitto aprisse il confine. Gli egiziani appoggiavano i palestinesi, finché non accadde». Quando centinaia di migliaia di palestinesi si riversarono nel Paese, «gli egiziani passarono dall'altra parte e chiesero al governo di far rispettare la legge », spiega Soltan. Solidarietà o patriottismo? Non a caso, la Fratellanza musulmana, in testa a molte proteste anti-Mubarak, cerca di sfruttarli entrambi: «Non ci servono i consigli dell'Hezbollah — dice al telefono un membro di spicco, Essam El Erian —. Sin dall'inizio abbiamo criticato il modo in cui il governo egiziano ha gestito la crisi di Gaza. Non lavoriamo con Hezbollah né con Hamas, appoggiamo i palestinesi perché è nell'interesse nazionale egiziano». Il mini-confronto tra Hezbollah ed Egitto «per i cuori e le menti» degli egiziani si inserisce, secondo gli esperti, nel più ampio scontro di potere tra Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Autorità nazionale palestinese da una parte e Hamas, Hezbollah e Iran e Siria (che finanziano e appoggiano i primi due) dall'altra. A Teheran e Damasco vi sono state proteste anti-Mubarak. Il Cairo ha convocato l'ambasciatore siriano osservando che «non sarebbero state possibili senza il permesso del regime » e criticando Damasco perché non esercita un'influenza positiva su Hamas. L'Egitto, mediatore tra Fatah e Hamas, non ha mai nascosto la scarsa simpatia per quest'ultimo, visto come alleato dell'Iran. Lo ha additato come responsabile per i raid a Gaza. Viste le piazze in rivolta, ha moderato i toni, ma non ha soddisfatto Hamas. Il premier turco Erdogan andrà in settimana a Damasco, Amman, Riad e Il Cairo in cerca di un accordo per la pace — tra gli arabi prima che tra Hamas e Israele.
Ennio Caretto - " Governi paralizzati dalla piazza "
WASHINGTON — Michael Walzer teme che a breve termine «Hamas sia un problema insolubile». Il filosofo politico, autore di «Guerra giusta e ingiusta», lo attribuisce alla spaccatura formatasi in alcuni Paesi arabi, in particolare sunniti, tra il governo, «che in privato sembra propendere per Israele», e la folla «che appoggia Hamas nelle strade». Per ragioni di stabilità interna, questi governi, quello egiziano in testa, depreca Walzer, «non riescono a prendere posizione in pubblico contro Hamas, pur rendendosi conto che minaccia di destabilizzare l'intera regione». E senza di essi, aggiunge Walzer, «non vedo proprio come si possa neutralizzare in fretta Hamas ». Il filosofo spera in una soluzione a lunga scadenza «sotto la Presidenza Obama », tramite negoziati con l'Iran e la Siria, «ma non ne ho la certezza», ammonisce. C'è qualche maniera di influire sul mondo arabo in questa escalation della tensione? «Come si può fare cambiare atteggiamento all'uomo della strada in pochi giorni? È impossibile. La guerra a Gaza produce l'effetto contrario a quello da noi desiderato. In certi Paesi arabi, il pubblico dà l'impressione di voler ribellarsi al suo governo». Ritiene insanabile la spaccatura governo- pubblico nei Paesi chiave mediorientali? «Al momento sì. I governi sunniti sono ostili ad Hamas: Il Cairo a esempio, dopo aver fallito la mediazione tra di esso e Israele, ha rafforzato le proprie difese ai confini con Gaza. Ma non ha ancora bloccato l'afflusso di missili ad Hamas. Mi pare che Israele rischi il bis del Libano di due anni fa». In che senso? «In Libano l'Hezbollah, a mio giudizio una forza sciita terrorista come Hamas, fu avversato dall'Egitto e l'Arabia Saudita, che però non intervennero. Insieme con l'America e l'Europa, i Paesi arabi sunniti hanno tentato di isolare Hamas, ma di nuovo senza intervenire, perciò senza alcun successo. Hamas non provvede ai palestinesi, non dà loro speranza, crea anzi scontento, eppure rimane al potere come ci è rimasto l'Hezbollah». Lei pensa che Hamas abbia seguito il modello Hezbollah in questa crisi? «Sicuramente lo sta seguendo adesso. Ha freddamente messo termine alla tregua e provocato Israele con una pioggia di missili. Crede che se dopo gli attacchi israeliani restasse in piedi potrebbe proclamare vittoria come fece l'Hezbollah dopo l'invasione israeliana del sud del Libano. Agli occhi del mondo arabo, soprattutto di quello più radicale, non avrebbe tutti i torti». Ma Israele è deciso a sconfiggere Hamas. «Non capisco la sua strategia, non la capirei nemmeno se invadesse Gaza. Che cosa succederebbe se arrivasse a fare mille morti palestinesi, e Hamas continuasse a lanciare i missili? Forse, anziché qualche giorno di devastazione, era meglio un ricorso graduale alla forza sorretto da costanti inviti a cessare il fuoco. Avrebbe reso tutto più facile ai governi arabi moderati». Vede qualche via d'uscita? «Bisogna stroncare l'afflusso di missili ad Hamas, che ne dispiega di sempre più potenti e sta diventando una vera minaccia per Israele, e bisogna concordare una tregua. L'Egitto, l'Arabia Saudita dovrebbero premere dietro le quinte sui suoi sponsor, l'Hezbollah e l'Iran, ma non mi risulta che lo stiano facendo». Lei pensa che Obama negozierà con l'Iran e la Siria dalle prime settimane? «Lo auspico. La Siria è disponibile, lo ha dimostrato con i suoi contatti con Israele e il piano congiunto con la Turchia. E prima o poi l'America dovrà aprire un dialogo con l'Iran, la cui disponibilità però è dubbia. Sospetto che se Obama fosse già stato al potere Hamas non avrebbe generato questa crisi, ha approfittato del vuoto lasciato da Bush, che ormai è evanescente». Obama ha promesso di visitare un Paese islamico entro tre mesi e tenervi un discorso programmatico. «Penso che abbia pronto un piano di pace per il Medio Oriente e l'Asia centrale, Afghanistan, Pakistan e India. Ma una cosa è enunciarlo, un'altra è realizzarlo. Ripeto, per risolvere la questione israelo-palestinese ci vuole il contributo della Siria e dell'Iran».
Francesco Battistini - " Sepolte le bambine uccise da Hamas: nessuno si è scusato "
GERUSALEMME — C'è troppa storia, nella storia di nonno Hasan. Un vecchio che la vita ha condannato a vedere tutto: «La mia prima guerra è stata nel 1956. Ci sparavano coi fucili di legno. Era brutta. Ma li vedevamo, riuscivamo a nasconderci. L'ultima è questa. Mostruosa. Arriva un'esplosione, ammazzano, non hai nemmeno il tempo di capire. Non puoi scappare. Puoi solo piangere i morti». Dopo il '56, il vecchio Hasan Abu Khusa s'era già fatto la guerra dei Sei giorni. E la prima intifada. E la seconda intifada: «Mi hanno ferito a una gamba ». Non ci crede, a chi gli dice che le bombe in guerra non cadono mai nello stesso posto. A lui è successo: quattro giorni, due crateri. Venerdì, le brigate al-Kassam hanno lanciato un razzo difettoso, che s'è acceso male e gli ha distrutto mezza casa, ammazzato due nipotine. Ieri, l'aviazione israeliana: otto esplosioni, una sul suo campo di patate, che senza sbagliare hanno ucciso un vicino, capo militare di Hamas. Al telefono, il cellulare d'un suo genero che va a cercarlo — «ti vogliono intervistare, digli che siamo poveracci, che ci aiutino!» —, Hasan è una voce spossata: «Sessant'anni, cinque guerre: che cos'ho fatto a Dio?». Che cosa gli hanno fatto gli uomini, forse. Si può arrivare all'età della saggezza e avere paura di protestare. «Io non sto con nessuno, non odio nessuno. Né Hamas, né gl'israeliani, né gli arabi...». Quel che resta della sua casa è a Beit Lahya, nel quartiere di Atatra: «Quando non bombardano, usciamo e cerchiamo d'aggiustare qualcosa: il muro, il tetto... Viviamo in quindici, qui dentro. Se piove, i grandi coprono i bambini per non farli bagnare». Hasan era lì, venerdì, alle tre del pomeriggio: «Ho sentito una decina di scoppi e sono uscito. Anche le mie nipotine l'hanno fatto, pochi secondi prima di me. Le ho trovate per terra, una con la testa mezza staccata». Sabah e Hanin, 13 e 5 anni, sono morte subito: avevano in mano un libro di scuola, un pupazzetto. Palestinesi uccise dal Kassam palestinese. Partito male, caduto peggio: «Ma io non so chi l'ha lanciato — è terrorizzato il nonno —. Non ho le prove per dire che sia stato Hamas o Israele...». Non ha il coraggio d'accusare, perché a Gaza basta poco per finire accusati: «Hamas ha il diritto di lanciare i suoi razzi. Israele deve riconoscere i diritti dei palestinesi». Dove abita lui, lo chiamano Kassamistan: il regno dei Kassam. Nord della Striscia, proprio a ridosso del muro, un buon posto per lanciare il più lontano possibile i razzi destinati a Israele. È su quest'area che gli ultimi attacchi aerei insistono. E la seconda volta di Hasan, ieri, è stato il colpo di grazia. A trecento metri dalle sue macerie abitava Mahir Zaqut, leader militare della Jihad, addestratore di terroristi. «Ci è arrivato addosso di tutto. Noi siamo fra due fuochi, colpiti da tutt'e due le parti. Ma siamo civili, non c'entriamo niente con la politica: perché dobbiamo pagare noi?». Se i Kassam gli hanno aperto i muri, le bombe israeliane gli hanno incenerito il campo, l'orto di fragole, l'angolo dove teneva i meloni e i melograni. Danni collaterali, per i generali. Il danno d'una vita, per lui: «Tutta la mia famiglia vive di questo. Coltiviamo la terra, portiamo la roba al mercato. Ma anche il mercato è stato distrutto, è morta molta gente sabato. Non so dove vendere. Non so che cosa vendere». Circolano sul web le foto di bancarelle piene di merci, ma sono vecchie: ora i prezzi sono altissimi a Gaza, il cibo introvabile. Perché i tunnel sono stati distrutti, i canali d'approvvigionamento chiusi. L'Algeria ha inviato 60 tonnellate di viveri, una goccia. L'Egitto ha fatto entrare qualche container, un nonnulla. «E l'Italia? Che cosa ci manda l'Italia?», elemosina Hasan: «Dio ci aiuti, siamo povera gente». Le due bambine sono state sepolte al cimitero del paesino, di fretta, la mattina del primo attacco. C'erano il nonno, il papà, gli zii. La mamma no: una sorellina, quindici mesi, è ferita all'ospedale. Ma Hamas ha fatto le condoglianze? «Non s'è scusato nessuno. Nessuno ha fatto nulla. Siamo poveracci, noi».
Davide Frattini - " I dubbi della sinistra: così non vinceremo mai "
GERUSALEMME — «Operazione chirurgica ». Akiva Eldar ha scelto di scriverlo tra virgolette, nell'editoriale pubblicato dal quotidiano Haaretz. «Perché in realtà non è possibile in un'area così densamente popolata come la Striscia — spiega —. Prima o poi ci sarà un incidente, com'è successo in Libano, a Qfar Qana, nel 1996 e ancora dieci anni dopo. Una Qfar Qana 3 a Gaza, un singolo bombardamento che fa strage di civili». Il Financial Times ha parlato di uso sproporzionato della forza per rispondere alle «punture di spillo» dei razzi palestinesi. Lo storico Tom Segev sostiene che Israele stia commettendo gli stessi errori del passato («l'idea di dare una lezione ai palestinesi si è sempre rivelata sbagliata»). Dice Eldar: «Una guerra come questa, tra un grande esercito e un movimento di guerriglia, non può essere vinta. In ogni caso, devi ritrovarti al tavolo a trattare, devi raggiungere un accordo. Anche se uccidiamo cinquecento palestinesi, la situazione non cambia. Le nostri opzioni restano quelle che avevamo all'inizio: ritirarci dal ritiro da Gaza e quindi rioccupare la Striscia (non mi sembra perseguibile) o raggiungere un nuovo cessate il fuoco». Dubita che i bombardamenti massici aiutino a raggiungere gli obiettivi militari e politici che il governo israeliano si è posto. «Non puoi vincere questo conflitto dal cielo. Ripeto: alla fine bisognerà sedersi e trattare. I raid avrebbero dovuto al massimo durare un giorno: all'inizio la comunità internazionale ti dà il via libera, il secondo giorno il semaforo diventa già giallo e il terzo è rosso». Lo preoccupano le implicazioni per i Paesi arabi moderati. «Bisogna tenere conto delle ripercussioni. Anche se dovessimo dichiarare vittoria, il danno causato dalle immagini trasmesse su Al Jazeera è enorme. Questo è un governo che dice di voler raggiungere un accordo di pace, allora non può indebolire la posizione dell'Egitto o di Abu Mazen in Cisgiordania. E' fare il gioco di Hamas e degli estremisti, significa dimostrare che un'intesa non è possibile».
Antonio Ferrari - " La solitudine di Abu Mazen "
Mentre a Gaza si muore e un milione e mezzo di palestinesi, sotto le bombe israeliane, combattono per la sopravvivenza in un clima da incubo, un uomo, un anziano leader consumato dall'ansia, da troppe speranze e troppe promesse tradite, vive in disperata solitudine. Perché Mahmoud Abbas, che tutti conosciamo come Abu Mazen, non è soltanto il legittimo presidente di tutti i palestinesi, compresi coloro che nella Striscia dei senza terra hanno abbracciato Hamas o ne sono stati irretiti dal suo spietato strapotere, intriso di fanatismo ideologico e coercizione. E' anche un uomo che nel tribolato cammino verso la pace, che tutti dicono di volere ma nessuno è riuscito a realizzare, ha investito la propria credibilità politica. Un uomo che seguì, silenzioso e collaborativo, il suo leader Yasser Arafat nel tessere quel potenziale capolavoro che furono gli accordi di Oslo, ma che fu pronto a farsi da parte quando la condotta e gli atteggiamenti del suo capo stavano tradendo gli impegni presi assieme. Credibilità di Abu Mazen oggi vacillante, perché il presidente corre il rischio di diventare la vittima sacrificale di una situazione senza sbocchi. La pazienza e la costante richiesta di soccorso all'amato «metodo critico» non gli bastano più. Tenere assieme un popolo fragile e diviso dal muro d'odio che separa i laici del Fatah dai fondamentalisti di Hamas, responsabili della tragedia di Gaza, è diventato un esercizio proibitivo. Era convinto, Abu Mazen, di poter convincere i meno intransigenti della necessità di trovare punti condivisi, magari aggrappandosi a quella tregua con Israele, da lui fortemente voluta, che era l'unica possibilità di evitare il disastro. Che in questi giorni si è materializzato. Chi è vicino al leader palestinese, costretto a rinviare per assoluta impraticabilità le elezioni presidenziali del 9 gennaio, parla di un uomo in crisi. Per anni è stato elogiato e blandito dal mondo occidentale, la Casa Bianca lo ha accolto con il tappeto rosso, l'Ue lo considera un partner quasi insostituibile; il premier israeliano Ariel Sharon e il suo successore, Ehud Olmert, lo hanno trovato controparte attenta e realista. Però la verità è che ad Abu Mazen è stato concesso quasi nulla. Aveva bisogno di un forte aiuto per consentirgli di curare le ferite palestinesi, offrendo in alternativa alla cieca violenza almeno una concreta speranza di riscatto. Ha ottenuto, in sostanza, soltanto il denaro per pagare gli stipendi e garantirsi la fedeltà delle forze di sicurezza. Poco. Troppo poco. A fronte di un processo di pace che nessuno riesce a far decollare, all'illusione di giungere entro il 2008 alla creazione dello Stato palestinese, promesso dal presidente Bush, alle concessioni necessarie per alleviare le sofferenze di Gaza, dove — secondo tutti i sondaggi — il movimento Hamas stava perdendo consensi. Almeno fino alla fine della tregua. Una mano ad Abu Mazen, in verità, l'aveva data il premier dimissionario Olmert, con un'intervista-testamento nella quale spiegava con franchezza quali siano i passi obbligati per giungere alla pace: con i palestinesi, con la Siria, con l'intero mondo arabo, ritenendo velleitario chiunque la pensi diversamente dalla necessità di compiere gesti coraggiosi. Ma se il coraggio si esprime, su una linea realistica, a fine mandato, quando si sta per uscire di scena, allora le dichiarazioni, moralmente più che nobili, rischiano di essere inutili e persino dolorose. Per tutte queste ragioni, Abu Mazen è il sofferente ostaggio di troppe contraddizioni. E' pur vero che la sua linea non si discosta da quella degli altri leader sunniti moderati, come l'egiziano Mubarak e il re giordano Abdullah. Ma la rabbia che cresce fra le masse arabe e l'aggressivo cinismo di Hamas, che poco si cura del popolo che sostiene di rappresentare, sono per Abu Mazen colpi micidiali. Nella sua solitudine c'è tutta l'impotenza di un uomo che non può più nutrirsi di sola speranza.
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