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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Vasilij Grossman - Vita e destino

Vita e destino                                         Vasilij Grossman

 

Traduzione di Claudia Zonghetti

 

Adelphi                                                    Euro 34

 

 

 

Vasilij Grossman, nato all’inizio del ‘900 in Ucraina da una famiglia di origine ebrea, è il primo dissidente sovietico, precursore di Solženicyn. Il suo “Vita e destino” esce ora da Adelphi.

 

 

 

Vita e destino, opera unica nella letteratura russa dei nostri tempi, che esce in Italia da Adelphi nell’ottima traduzione di Claudia Zonghetti, ha rischiato di non esistere. Il suo autore, Vasilij Grossman, nato all’inizio del XX secolo in Ucraina da una famiglia di origine ebrea, negli Anni Trenta abbandona la professione di ingegnere chimico e si afferma come scrittore ufficiale sotto l’egida di Gorkij. A partire dal 1941, con lo scoppio della guerra, entra nell’Armata Rossa come giornalista e diventa ben presto uno dei corrispondenti di guerra più popolari e più amati della stampa sovietica, grazie alla sua capacità di descrivere la guerra in prospettiva umana ed essere sempre il più vicino ai luoghi dove si svolgono i combattimenti. Nel 1943 entra a Treblinka ed è il primo a scrivere sui campi di sterminio nazisti: il suo saggio letterario “L’inferno di Treblinka” servirà da testimonianza al processo di Norimberga.

 

Dopo la morte di Stalin, all’epoca del disgelo, Grossman porta a termine la grande epopea sulla guerra, “Vita e destino” iniziata anni prima, e la invia al direttore di una prestigiosa rivista. Da lì il manoscritto arriva direttamente ai vertici del KGB, dove l’importanza del romanzo viene subito riconosciuta. Tutti gli esemplari del manoscritto e tutti i materiali che lo riguardano (persino la carta carbone e i nastri della macchina per scrivere) vengono requisiti e sigillati in un sacco di canapa. Il romanzo viene “arrestato”, come una persona: solo il romanzo, non il suo autore.

 

All’autore il principale ideologo del partito, Michail Suslov, dice che non si sarebbe potuto pubblicare il romanzo prima che fossero passati duecento o trecento anni. Ma il suo destino era già segnato e il romanzo uscì all’estero, grazie a un microfilm clandestino, dopo vent’anni e non dopo duecento, anche se Grossman non lo seppe mai. Il destino è sempre lineare, “fatto di corridoi dritti come un fuso e di porte”, mentre la vita è contorta, “un intrico di sentieri, fossi, paludi, ruscelli, polvere della steppa e grano non trebbiato”.

 

Grossman è il primo dissidente all’interno del sistema ideologico sovietica, precursore di Solženicyn, e il suo romanzo all’epoca destò tanto sconcerto perché al posto dell’incrollabile fermezza del realismo socialista recuperava la “dialettica dell’anima” di Tolstoj, proponendo l’affresco della vita di una grande famiglia in cui si rispecchiano come in “Guerra e pace” i momenti cruciali della storia.

 

I personaggi sono tutti legati, anche se spesso non si incontrano, la vicenda naviga dall’uno all’altro con polifonia dantesca narrando il loro destino attraverso gli anni 1941-42. Le scene di guerra e di pace sono ugualmente importanti; l’azione si svolge a Mosca e nella sperduta provincia, nelle retrovie e sulla linea del fronte, nel quartiere generale di Hitler e in quello di Stalin, nelle camere a gas tedesche e nelle camere di tortura della prigione Lubljanka. L’epicità del romanzo si percepisce fin dalle prime parole, “la nebbia copriva la terra”, che suonano come un requiem per la libertà nella regolarità perfetta dell’enorme lager nazista in cui sono reclusi esseri umani di tutti i paesi d’Europa.

 

La monotona melodia del requiem per la perduta libertà si diffonde lentamente oltre il filo spinato fino a raggiungere nella lontana taiga siberiana la stessa fame, la stessa violenza e disperazione in un campo di lavoro sovietico. Ogni epoca ha una città che la rappresenta e ne costituisce l’anima: Grossman percepisce con esattezza visionaria che la capitale del mondo in guerra è Stalingrado, scenario della più grande vittoria e, al tempo stesso, della più grande sconfitta dell’umanità, simbolo della crisi spirituale dell’Europa moderna. Memorabile come la “Leggenda del Grande Inquisitore” di Dostoevskij è il dialogo che si svolge ad Auschwitz tra Liss e Mostovskoj, l’onnipotente capo delle SS e il vecchio “bolscevico russo che puzza di lager”, una partita a scacchi politica che diventa oggettivazione di un dialogo interiore come la discussione di Ivan Karamazov con il diavolo.

 

Grossman non crede nella grande visione totalitaria del “bene” che fa di comunismo e nazismo

 

due ipostasi della stessa sostanza, perché “chi vuole il bene dell’umanità non è in grado di arginare il male”. Grossman crede solo nella piccola bontà di tutti i giorni, nella bontà senza regime che appare in certi atti isolati: per esempio, nello straordinario episodio in cui una donna, la più cattiva, la più laida della folla scatenata contro un tedesco sconfitto gli dà il suo ultimo pezzo di pane; scene di bontà in un mondo disumano, capace di mandare in una camera a gas il piccolo David  che porta con sé ancora il mondo del latte del mattino. Allora, come Strum, lo scienziato accusato di “astrazioni talmudiche” perché si rifiuta di sottomettere la matematica e la fisica all’ideologia, pensiamo ai versi di Mandel’štam: “Mi incalza alle spalle il secolo-canelupo, ma non ho sangue di lupo nelle vene”.

 

 

 

 

 

Nadia Caprioglio

 

Tuttolibri – La Stampa

 


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