domenica 22 settembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
29.12.2008 A.B.Yehoshua, Hamas, Daniel Pipes
le loro opinioni, con gli articoli di Francesca Paci e Francesco Semprini

Testata: La Stampa
Data: 29 dicembre 2008
Pagina: 1
Autore: A.B.Yehoshua-Francesco Semprini-Francesca Paci
Titolo: «Tregua-Hamas»

Sulla STAMPA di oggi, 29/12/2008,tre servizi da segnalare. Il primo, l'analisi di A.B.Yehoshua, sempre più impegnato sul versante della politica. La sua valutazione non si discosta da quella di Amos Oz.  Una analisi realista, non pacifista, ma che, proprio perchè priva di ipocrisie, mira alla pace. Il secondo è l'intervista a Daniel Pipes di Francesco Semprini da New York.  La sua analisi si avvicina a quella di Fiamma Nirenstein, Hamas è oggi un problema per gli stati arabi. Il terzo, di Francesca Paci, racconta Hamas dall'interno, come si organizza, dove il terrorismo si impara, in Siria, sotto gli insegnamenti di Hezbollah e Iran. Pagine interessanti, purtroppo non così comuni sul quotidiano torinese.

A.B.Yehoshua: " Tregua subito":

Ciò che sta avvenendo in queste ore nella Striscia di Gaza era quasi inevitabile. La brutalità con cui Hamas ha posto fine alla tregua non ha lasciato altra scelta a Israele.

Se non quella di ricorrere alla forza per porre fine ai massicci lanci di razzi (una settantina al giorno) sulle comunità civili nel Sud del Paese.
Ma, per quanto la distruzione di centri di comando militari e l’eliminazione di alcuni capi di Hamas possa risultare efficace, la tranquillità non sarà ristabilita se Israele non proporrà subito generose condizioni per una nuova e prolungata tregua.
Oltre a trattative indirette per una rinnovata interruzione delle ostilità le autorità israeliane dovrebbero rivolgersi ai cittadini della Striscia di Gaza, lanciar loro un appello che provenga direttamente dal cuore. Dichiarazioni ufficiali non mancano, ma mai i leader israeliani si sono rivolti alla popolazione palestinese. Ciò che io propongo qui è un appello che il primo ministro Olmert dovrebbe rivolgere con urgenza proprio ora, mentre il fuoco divampa su entrambi i lati del confine, agli abitanti della Striscia di Gaza.
Mi rivolgo a voi, residenti di Gaza, in nome di tutta la popolazione israeliana. A voi, uomini e donne, commercianti, operai, insegnanti, casalinghe, pescatori. Gente di città e di paese, residenti in villaggi e in campi profughi. Prima che vi siano nuovi spargimenti di sangue, prima che altri, voi o noi, conoscano devastazione e dolore, vi prego di darmi ascolto. Vi chiedo di far cessare la violenza, di aiutarmi a convincere i vostri leader che ci sono altri modi per stabilire rapporti di buon vicinato.
Le nostre città sono contigue alle vostre. Dietro il reticolato che le separa vediamo operai e contadini che lavorano la terra, camion che trasportano merci, bambini che vanno a scuola. E lo stesso è per voi. Potete scorgere facilmente i nostri agricoltori nei campi, i bambini che vanno a scuola, le casalinghe che escono a fare la spesa.
Saremo vicini in eterno, le cose non cambieranno. Voi non riuscirete a cacciarci da qui, a cancellare la nostra esistenza, e nemmeno noi la vostra (e neppure lo vogliamo).
Per parecchi anni abbiamo mantenuto rapporti attivi. I vostri operai arrivavano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei nostri campi. Non solo in centri a voi vicini ma anche nelle grandi città - a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Natanya. I nostri commercianti e industriali si recavano da voi per acquistare prodotti agricoli, erigere nuove fabbriche alla periferia di Gaza. Per parecchi anni abbiamo mantenuto un articolato sistema di scambi che ha portato beneficio a entrambe le parti.
Tre anni fa abbiamo evacuato i nostri concittadini, smantellato le nostre basi militari e raso al suolo, su vostra richiesta, i pochi insediamenti che avevamo nella Striscia di Gaza. L’occupazione di quella regione è completamente cessata. Ci siamo ritirati oltre il confine internazionale riconosciuto da tutto il mondo: quello antecedente la guerra del 1967.
Credevamo che dopo questo sarebbe iniziato un periodo di sviluppo e di ricostruzione. Che avreste ricostituito un sistema amministrativo e che, un giorno, a tempo debito, vi sareste ricollegati, tramite un corridoio sicuro, ai vostri confratelli in Cisgiordania per creare uno Stato palestinese indipendente che noi tutti crediamo e vogliamo che sorga e che ci siamo impegnati a riconoscere in ambito internazionale.
Ma anziché l’agognata tranquillità sono arrivati razzi che hanno seminato distruzione e morte nelle nostre città e nei nostri villaggi.
Anziché opere di edilizia e di ricostruzione abbiamo assistito a un riarmo senza precedenti. E quelle armi sono state puntate contro di noi. C’è tra voi chi ci spara addosso razzi e granate in cambio di somme di denaro elargite da Stati e organizzazioni che vogliono la nostra distruzione. E voi, gente di Gaza, pagate le conseguenze delle nostre reazioni con la sofferenza e la distruzione delle vostre case.
Non vogliamo combattervi, non vogliamo tornare a governarvi. Ce ne siamo andati per non tornare più. Sappiamo che sarete voi, civili innocenti, donne e bambini, residenti dei campi profughi, operai e commercianti, a pagare il prezzo di un’eventuale, malaugurata guerra. Ma dovete capite che non abbiamo scelta. Non possiamo continuare a sopportare i lanci di razzi Qassam sui nostri cittadini indifesi.
Sta a voi, cittadini di Gaza, appellarvi ai vostri governanti perché mettano fine al lancio di razzi e accettino una vera tregua, prolungata, durante la quale verranno aperti i valichi di confine, sarà permesso il passaggio di merci e, col tempo, gli operai di Gaza potranno tornare a lavorare in Israele. Invece di manifestare a favore di irrealizzabili sogni di distruzione e di vendetta, uscite nelle strade e chiedete la fine della violenza, chiedete che i vostri figli, e i nostri, possano vivere sicuri su entrambi i lati del confine. Chiedete la vita e non la morte.
Traduzione di A. Shomroni

Francesco Semprini: " Hamas diventa un problema per i paesi arabi ", intervista a Daniel Pipes:

Il mondo arabo si dimostra meno compatto rispetto al passato sul conflitto tra Hamas e Israele a conferma che certi governi temono il movimento integralista palestinese e i suoi legami, specie con l’Iran». Daniel Pipes, tra i massimi esperti americani di Medio Oriente e Islam, e fondatore del Middle East Forum, è convinto che si stia consumando uno strappo ancor più netto tra Paesi arabi moderati e Islam radicale e che la questione mediorientale rappresenta la principale sfida di politica internazionale per Barack Obama.
Come considera la reazione del mondo arabo ai fatti di Gaza?
«E’ stata una reazione poco unitaria non solo fra Paesi ma anche all’interno dei vari Paesi, così come del resto si era visto anche se più velatamente nel 2006. L’Islam estremista condanna Israele, altri adottano cautela per il rischio di derive pericolose».
Alcuni governi arabi temono Hamas?
«Ci sono diversi Stati che hanno paura di Hamas come hanno paura della Siria, dell’Iran e dei movimenti islamici estremisti che sfornano militanti in casa propria. Anche quanto accade in Egitto dimostra che esiste una spaccatura: la gente manifesta per Hamas, mentre alcuni politici esercitano pressioni sul movimento integralista per fermare le ostilità».
C’è un filo conduttore che lega Egitto, altri Paesi moderati e Abu Mazen?
«Esisteva già da prima dell’attacco ma le pressioni su Hamas non hanno mai sortito effetti importanti».
La Siria ha sospeso i negoziati indiretti attraverso Ankara, ma Bashar al-Assad ha detto di sperare ancora in colloqui diretti con Israele. Che succede a Damasco?
«E’ difficile capirlo, Damasco spesso è protagonista di iniziative contraddittorie. Ritengo ci sia una divisione all’interno del governo siriano e che il presidente non sia in grado di imporsi».
Qual è la posizione dell’Arabia Saudita?
«Di basso profilo, da un certo punto di vista teme Hamas specie per la sua dipendenza dall’Iran il cui legame ne esce rafforzato».
Al Qaeda spesso ha criticato Hamas per il suo carattere laico, mentre ieri ha lanciato l’appello per una alleanza anti-sionista. E’ un’ipotesi credibile?
«Ne sarei molto sorpreso. Un alleanza con al Qaeda avrebbe così tante ricadute negative in termini di popolarità anche nel mondo arabo che lo stesso Hamas penso sia poco propenso a un’intesa».
Perché Hamas ha violato la tregua?
«Il movimento che fa capo a Khaled Meshaal parte dalla convinzione che può infliggere molti più danni a Israele con una guerra anziché con un negoziato, nonostante sia perfettamente consapevole che è molto più debole. Con un conflitto Hamas rafforza la sua popolarità a Gaza e in Cisgiordania, e l’alleanza con l’Iran».
Perché Israele ha risposto in maniera così dura?
«Per punire una volta per tutte la violazione del cessate il fuoco e per la frustrazione di subire attacchi così pesanti ogni giorno. Ma c’è anche un fattore temporale, il governo israeliano ha approfittato della transizione politica che l’America sta vivendo con la fine del mandato Bush per avere campo ancor più libero».
Si rischia un intervento di Hezbollah?
«Non lo escluderei».
Che differenza c’è tra questo conflitto e quello di due anni fa?
«Israele è molto più organizzato e ha preparato l’attacco minuziosamente, mentre Hamas è molto più debole di Hezbollah».
I fatti di Gaza sono la conferma del fallimento di Annapolis?
«Sì, non solo del summit, ma più in generale della strategia dell’amministrazione americana uscente. La dottrina sul Medio Oriente inaugurata da Bush nel 2002 non è mai stata realizzabile e questa guerra lo conferma».
Per Obama il Medio Oriente sarà più una sfida o un’opportunità?
«Una sfida difficile specie se associata a quella del nucleare iraniano. Certo per aver più successo del suo predecessore, oltre a condannare gli attentati di Hamas e dei movimenti integralisti, dovrà puntare sull’appoggio degli arabi moderati e soprattutto avere un approccio più severo con Israele».

Francesca Paci: " Hamas si prepara a combattere come Hezbollah ":

Se i carri armati israeliani dovessero entrare a Gaza troverebbero un altro Libano, abbiamo imparato a difenderci da Hezbollah». La voce di Nabil arriva disturbata da un appartamento di Tal As-Sultan, un quartiere di Rafah, a sud della Striscia di Gaza. A pochi chilometri di distanza l’aviazione israeliana ha appena bombardato 40 dei circa 600 tunnel scavati sotto il confine egiziano. Le sirene continuano a suonare, la gente scruta il cielo terso e complice dell’offensiva più sanguinosa degli ultimi quarant’anni. Nabil ha 19 anni, studia inglese all’università al Ahzar, adora i film d’azione come «Batman» e «Sfida senza regole» ma anche «Wanted» con Angelina Jolie. Suo padre lo vorrebbe insegnante, un giorno. Lui, per ora, preferisce la carriera «studentesca» tra le fila dei Comitati di Resistenza Popolare, formazione paramilitare fondata a Gaza nel 2000 da attivisti della Jihad Islamica e delle Brigate Martiri al Aqsa: «Ho fatto training in Siria alcuni mesi fa, cinque settimane in un campo d’addestramento. Gli insegnanti erano libanesi di Hezbollah e iraniani. Ero già andato in una base a sud di Teheran con altri venti compagni, tutti di Gaza. Sempre lo stesso itinerario, passiamo in Egitto e poi, attraverso il deserto, arriviamo all’aeroporto di Khartoum».
Hamas segue le orme di Hezbollah, avverte da tempo l’intelligence israeliana. Bastava vedere la parata oceanica organizzata due settimane fa per il ventunesimo anniversario del partito islamico radicale al potere a Gaza per capire la potenza simbolica della piazza tinta di verde, il colore delle moschee. Secondo gli esperti, Hamas sarebbe in una fase di «transizione dal terrorismo alla guerriglia» e potrebbe contare su 15 mila uomini, oltre mille razzi, alcuni dei quali con una gittata di 40 chilometeri, una rete di bunker pensata per arrestare l’eventuale avanzata della fanteria israeliana nel caso i tank ammassati al confine decidessero d’entrare in azione.
«Ci sono almeno 85 chilometri di tunnel sotto Gaza, sono stati scavati sul modello di quelli del Libano meridionale grazie ai quali Hezbollah ha ridotto il numero delle perdite nella guerra del 2006», spiega Ely Karmon, docente dell’International Institute for Counter-Terrorism di Herzliya, l’Olimpo dell’antiterrorismo. Sarebbe proprio la rete segreta di gallerie uno dei principali obiettivi del raid di queste ore, costato già quasi 300 morti e oltre un migliaio di feriti, alcuni gravissimi: «L’aviazione israeliana mira le uscite dei tunnel, punto di forza della nuova strategia di Hamas. Hezbollah è un modello militare almeno dal 1993, quando rientrarono in Israele i 400 membri di Hamas espulsi da Israele in Libano e portarono con sé gli insegnamenti dei guerriglieri del partito di Dio».
Una tattica che finora ha più o meno funzionato, sostiene l’analista Hillel Halkin: «Hamas crede che l’esperienza libanese del 2006, quando persero la vita 130 soldati israeliani, dissuaderà la Knesset dal lanciare un’invasione di Gaza su larga scala a meno di mettere in conto una risposta analoga». Eppure, la rapidità e la pesantezza dell’operazione Piombo Fuso sembra aver lasciato i miliziani spiazzati.
Amir F. vive con la famiglia a Zaitoun, il quartiere di Gaza City dove uno dei raid di ieri ha ucciso un bambino. Il padre, Mohammed, è un militante di Fatah. «Non lo riconosco più, non riconosciamo più i nostri genitori, Fatah e il presidente palestinese Abu Mazen ci hanno venduto agli israeliani», dice Amir sottolineando con ironia la parola «presidente», una carica «buona» fino al 9 gennaio prossimo, data di scadenza del mandato quadriennale e della fiducia accordata da Hamas ad Abu Mazen. Amir, vent’anni appena compiuti, preferisce la Jihad Islamica: «Gli unici che hanno sconfitto gli israeliani sono gli uomini di Hezbollah, siamo pronti a combattere come loro». E pazienza per i soldi e l’influenza dell’Iran, paese sciita e non arabo lontano anni luce dall’albero genealogico palestinese: «Cosa hanno fatto per noi i fratelli arabi? Grandi dichiarazioni d’amicizia, come l’Egitto che poi lascia fare il lavoro sporco agli israeliani». Alle sue spalle si sente una tv accesa, Al Jazeera, «l’unica che racconta la verità». Le immagini delle manifestazioni di solidarietà della popolazione egiziana, giordana, irachena, scesa in piazza per inneggiare agli shahid, i «martiri» palestinesi, stridono con la reazione dura ma protocollare dei governi del Cairo, Amman, Baghdad.

Per inviare al propria opinione alla Stampa, cliccare sulla e-mail sottostante.


lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT