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La Stampa Rassegna Stampa
22.12.2008 Siria: Un titolo avventato sui rapporti con Israele
e un reportage che ignora la dittatura

Testata: La Stampa
Data: 22 dicembre 2008
Pagina: 0
Autore: Francesca Paci - Claudio Gallo
Titolo: «Siria-Israele c'è la pace dietro l'angolo - Un tè a Damasco che profuma di storia»

Da La STAMPA del 22 dicembre 2008, riportiamo il corretto articolo di Francesca Paci "Siria-Israele c'è la pace dietro l'angolo".
Il titolo ci sembra decisamente troppo ottimista, considerando che, come viene ricordato  nel testo, Olmert è oggi  un leader debole e di transizione, visto l'avvicinarsi delle elezioni politiche israeliane, che si terranno il 10 febbraio.

Discutibile l'uso del termine "refusenik" per indicare gli israeliani residenti nel Golan favorevoli alla sua cessione alla Siria.
Refusenik erano gli ebrei dissidenti dell'Unione Sovietica, che in genere finivano nei gulag. Se già appare improprio applicarlo, come spesso viene fatto, a chi rifiuta il servizio  militare in uno Stato democratico come Israele, andando incontro a miti pene detentive, estenderlo anche a chi ha un'opinione politica presumibilemente impopolare tra i suoi vicini di casa è decisamente fuori luogo.


Ha cominciato Sarkozy invitando il presidente siriano Assad al vertice euromediterraneo di Parigi. Il segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha fatto capire più volte che la soluzione del puzzle mediorientale passa da Damasco, interpretando anche la nuova linea dell’amministrazione Obama. Ora ci prova Israele. La scommessa del 2008 è la pace con la Siria. Stamattina il premier dimissionario Olmert ne parlerà direttamente con il primo ministro turco Erdogan che da mesi lavora alla mediazione facendo leva sulla dipendenza economica della Siria da Ankara. È l’ultima palla di Olmert ai calci di rigore. Tre giorni fa, a margine delle conferenza nazionale sulla sicurezza, ha ribadito il suo impegno diplomatico perché «la Siria è matura per la pace».
«Ancora con questa storia di restituire il Golan? Sarebbe come rinunciare a Tel Aviv o Gerusalemme». Ruti ha 42 anni, 7 figli, il viso tondo incorniciato da un fazzoletto a fiori. Dal 1978 vive qui, in una piccola comunità agricola vicino al kibbutz Ein Ziwan, sulle alture conquistate dall’esercito israeliano nel 1967 e annesse 14 anni dopo in barba al dissenso internazionale. Il confine siriano dista meno di dieci chilometri. Ogni mattina Ruti prende la Renault 4 arrugginita e va a controllare le sue api nelle scatole gialle accatastate nel campo a ridosso del tracciato minato. Al di là della frontiera, fatta di trincee e cumuli di terra, c’è la fascia di sicurezza dell’Onu e Quneitra, la città fantasma che Damasco considera simbolo dei 130 villaggi arabi cancellati dalla guerra e per cui ha giurato vendetta. Lei però, non teme i carri armati di Assad: «Mi preoccupano molto di più i nostri politici e la loro smania di negoziare».
L’indiziato numero uno è, ovviamente, Olmert, giunto alla convinzione che «sottrarre Damasco all’influenza dei radicali è una delle priorità d’Israele». Costi quel che costi, compresi «sacrifici duri». Certo, l’aiuto degli Stati Uniti è indispensabile. Ma qualcosa si muove. Secondo una «fonte araba ben informata» citata da Ynet, la versione online del quotidiano Yedioth Ahronoth, i contatti sarebbero così avanti che il presidente Assad potrebbe annunciare a breve la volontà d’incontrare Olmert: «Se la Siria si convince che Israele è disposto a ritirarsi dal Golan non c’è da escludere una sorpresa prima dell’insediamento di Obama alla Casa Bianca».
A Merom Golan e negli insediamenti vicini ci credono in pochi. O forse ostentano scetticismo per scaramanzia. Naftali, 50 anni, proprietario del Franguk caffè, una specie di baracca sulla strada per Majdal Shams, il villaggio druso dove è stato girato il film «La sposa siriana», pianta un albero appena sente parlare di ritiro: «Sarà infantile, ma finora ha funzionato». L’amico Avi, ex benzinaio di Ashdod trasferitosi qui con i tre figli nel 2004 ha aperto un forno, «la pizza khoser più buona del nord», e non ha intenzione di mollare: «Quando ero militare in Libano mi ero convinto che il dialogo fosse l’unica chance. Poi ho visto come sono andate le cose con Sadat: gli egiziani ci odiano nonostante la pace. A che serve tendere la mano? Così sono diventato più estremista». Levare le tende? Neppure per idea.
Avi può dormire sonni tranquilli, sostiene il professor Eyal Zisser, docente di storia del Medio Oriente all’università di Tel Aviv e tra i massimi esperti di Siria e Libano. L’ipotesi ritiro, per ora, è fantapolitica: «Non c’è nulla di realistico in questi retroscena. Sono voci diffuse dall’ufficio di Olmert affinché il suo premierato lasci un segno». Damasco, spiega Zisser, guarda oltre: «Se Assad ha davvero deciso di fare un passo indietro lo farà con Obama, dunque non prima del 20 gennaio. Inoltre non avrebbe senso firmare l’accordo con un premier israeliano uscente sapendo che il successivo potrebbe stracciarlo in un momento».
In ambienti dell’intelligence però, la percezione è diversa. Tra timide aperture e repentini passi indietro, un occhio al partito islamico al potere a Gaza che ieri il ministro degli esteri Tzipi Livni a minacciato direttamente («se diventerò premier rovescerò il regime di Hamas») e l’altro all’Iran, Israele tasta il terreno consapevole di avere una chance. «La pace conviene», ammette Yigal Kipnis, leader del Golan on the Way to Peace, il Golan sulla via della pace, un piccolo gruppo di refusenik disposti a rinunciare all’investimento di una vita per la normalizzazione dei rapporti con la Siria. Dal ‘78 vive in un moshav, un comunità agricola di Maale Gamla, coltivando mele rosse come quelle di Biancaneve. Tredici anni fa però, si è persuaso che il benessere di 30 mila abitanti del Golan non valesse la sicurezza del Paese: «È ora di andar via».
L’attivismo di Olmert consegna un’eredità impegnativa al successore, primo premier israeliano dell’era Obama e del rinnovato softpower americano. Bibi Netanyahu avrebbe accettato la linea internazionale. Ehud Barak era propenso a cedere altra terra in cambio del cento per cento del lago di Tiberiade, principale bacino idrico d’Israele sebbene agli sgoccioli. Lo stesso Barak che oggi, ministro della difesa, ascolta i tamburi di pace ma avverte che «in caso di guerra con la Siria Israele è sufficientemente forte per rovesciare il regime di Assad». Ma anche tra i suoi c’è chi lascia intendere che non sarà necessario.

L'articolo di Claudio Gallo "Un tè a Damasco che profuma di storia"è un lungo elogio della Siria, che prescinde totalmente dal fatto che questo paese è oppresso da una feroce dittatura:

Una legge crudele nasconde talvolta le residue tracce della bellezza del mondo dietro l’arretratezza economica o l’isolamento politico. Ma è un attimo, orde di esteti scoprono gli stessi ultimi paradisi, vecchie case diventano maison de charme e il gioco ricomincia sempre più difficile. Sarebbe ridicolo mettere la Siria tra i luoghi da scoprire: Aleppo era abitata nel 5000 a. C. e quando i siriani, molti secoli dopo, divennero cittadini dell’impero romano, avevano già visto arrivare e poi sparire fenici, egiziani, assiri, sumeri, babilonesi, ittiti, persiani e i macedoni di Alessandro. Oggi, però, l’incerto onore di essere annoverata tra le capitali dell'Asse del Male (sebbene la meno maligna) secondo l’antica dottrina Bush, la pace mai siglata con Israele e gli inestricabili legami con il mattatoio libanese addensano attorno a Damasco un gigantesco luogo comune che come un cane ringhioso tiene alla larga i viaggiatori. È quasi impossibile, al ritorno dalla Siria, non sentirsi chiedere: «Ma non era pericoloso?». Molto più pericoloso è camminare di notte nel centro storico di una metropoli italiana che per i vicoli della vecchia Damasco, grande tre volte Milano. Gli stranieri che passano poche settimane nel Paese avvertono distrattamente il ferreo controllo politico del regime baathista ma apprezzano la relativa assenza di microcriminalità.
Impossibile in Siria sfuggire alla storia. Come una vecchia casa araba, il Paese è disposto a strati: le stanze appena sotto il tetto sono state ricostruite nello stile più moderno, inventato dal secolo delle lotte per l’indipendenza, delle utopie generose e sanguinarie. La parte di mezzo ha linee sinuose e potenti nel gusto ottomano, poi spuntano le mura bizantine e giù in cantina si aprono profondi gli archi romani e i lucernari. Sotto ancora, pietre annerite, accatastate da qualcuno sperduto nel passato assiro o fenicio. La parte moderna della capitale è gradevole ma anonima, potrebbe essere Ankara, con i grattacieli, il palazzo dell’Opera e i viali larghi che si arrampicano sulla schiena del Qasyun, la montagna sopra i mille metri dove nella torrida estate la gente sciama di notte a prendere la brezza fresca e vedere le luci senza fine della città. Fuori dei soliti giri, incastonata di fianco al Qasyun, non lontana dall’ospedale italiano, c’è la moschea dov’è sepolto, in un’ampia cabina di vetro, Muhyiddin Ibn Arabi, il grande filosofo sufi del XII secolo che viveva a Damasco. «Da sempre, quando qualcuno della mia famiglia ha un problema - racconta Yasser al Jabi, urbanista dell’Università di Damasco - veniamo qui e silenziosamente chiediamo aiuto a Shaikh al Akbar, il Grande Maestro. Di solito funziona».
Vista dal Qasyun, la vecchia Damasco con le sue mura è un bastimento in mezzo a un mare di cemento, sfrecciato da scintillanti pesci di metallo che gemono e sbuffano ossido di carbonio. Al posto dell’albero maestro, il minareto della grande moschea degli Ommayyadi. Per arrivarci si può passare da Bab Tuma, la porta di Tommaso, oppure entrare nella Via Recta, la strada greco-romana che ne percorre l’asse. Entrando dalla parte del quartiere cristiano si trova il muro da cui in una cesta calarono San Paolo per sottrarlo agli ebrei ostili alla sua predicazione. Poco più in là c’è la chiesa di Anania, il vescovo che battezzò l’apostolo dei Gentili. Tra i Paesi del Medio Oriente che videro la prima predicazione del Vangelo e ora assistono al declino delle comunità cristiane, spesso ostacolate se non perseguitate, la Siria è il più ospitale: croci di tutte le confessioni, cattoliche, ortodosse e armene, si stagliano nello stesso cielo dei minareti sunniti e sciiti.
La bellezza della vecchia Damasco si nasconde nei cortili delle antiche casa arabe. Poche conservano sontuosi frontespizi. Come a Istanbul, le meravigliose facciate di legno con i bovindi arabescati sono sparite, crollate o bruciate. Restano gli interni che si aprono umbratili: un labirinto di cortili, col gorgoglio dell’acqua che zampilla dalle fontane, i balconi fioriti, le nicchie e il tetto aperto da cui entra prepotente la luce del cielo. Nel dopoguerra i vecchi proprietari si sono quasi tutti spostati nei palazzi moderni della parte nuova della città, abbandonando le vecchie case a un rapido declino. Oggi quelle meglio conservate sono diventate alberghi, come il Beit Zaman che si affaccia sulla via Recta. Marwan Arcouche, famiglia cristiana, francese impeccabile, per anni direttore del Méridien, ha da poco aperto il suo nuovo hotel. Il vecchio marmo e i tavolini di ottone risplendono come una volta, il rumore dei passi torna a riempire il silenzio ovatto dei cortili. «E’ stata una scommessa - dice monsieur Arcouche -. L’ambasciata francese ci ha mandato i primi ospiti. La gente è incantata da queste vecchie pietre».
Soltanto Aleppo prova a rivaleggiare con Damasco: la muscolosa cittadella fortificata, l’immenso suk coperto dove si compra il vero sapone fatto con l’olio d’oliva e le foglie di alloro (ma il più pregiato è quello all’olio di sesamo), i pistacchi verdi e i datteri. Al leggendario Hotel Baron, oggi parecchio scalcinato, dietro la sfarzosa fortezza postmoderna dello Sheraton, Lawrence d’Arabia lasciò un conto da pagare che è ancora lì, incartapecorito dentro una vetrina. Ad Aleppo, oltre la ferrovia, c’è la chiesa di San Giorgio, dove gli ortodossi fuggiti da Urfa (l’antica Edessa) ai tempi di Ataturk conservano i canti sacri più antichi della cristianità.
Lasciando Aleppo in direzione dell’Iraq, si prende la via delle antiche carovane dirette in Persia e s’incontra il più importante gioiello archeologico siriano: Palmyra. All’inizio del primo secolo, la città della regina Zenobia, morta nel 275 a Tivoli nell’agiato esilio romano, era una possente città mercantile lungo le rotte carovaniere dall’Oriente al Mediterraneo. Eclettica, a metà tra il mondo iranico e quello greco, attirava intorno ai negozi del suo superbo colonnato una folla brulicante di mercanti e viaggiatori. Saccheggiata da Tamerlano, nel 1600 era ridotta a una guarnigione ottomana. Archeologi francesi, italiani e americani lavorano dal secolo scorso al suo recupero. È indimenticabile, al tramonto, lo spettacolo del sole che cola come miele sull’arenaria rosa delle colonne ioniche del tempio di Baal Shamin. Aphamea, Bosra, i castelli crociati, la basilica di San Simeone lo Stilita, le città bizantine fantasma: la Siria è ricca di straordinarie rovine ma nessuna è paragonabile a Palmyra.
Quando i fratelli Tharaud la videro nel 1923, asini e cammelli pascolavano ancora tra mucchi di pietre. Fu un beduino che spiegò loro la sorte di quelle struggenti rovine: «Sono stati i Jinn, gli spiriti: loro hanno costruito la città e loro l’hanno distrutta». Così è il destino della Siria, dove le civiltà muoiono una addosso all’altra e gli invasori di oggi diventano i profughi di domani, fino ai nostri giorni tormentati, in cui la storia sembra essersi smarrita.

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