Avvertenza: Le immagini riportate sono particolarmente crude e forti. Tratte da giornali dell’epoca, dimostrano la diversa sensibilità con cui venivano raccontati episodi di cronaca e tragedie. Anche questi aspetti servono a comprendere il clima di quegli anni.
Il 17 dicembre 1973 all’aeroporto di Roma-Fiumicino si consumò una delle stragi più sanguinose e vigliacche mai avvenute nel nostro pur martoriato Paese. Una strage però che, quasi inspiegabilmente, pare rimossa dalla memoria collettiva. Una strage per cui non vi sono “annuali commemorazioni” col seguito dei media, anche se, per noi, rappresenta uno snodo fondamentale per comprendere la storia degli ultimi decenni.
Quel giorno a Fiumicino, come vedremo tra poco, vennero uccise barbaramente 32 persone inermi. Passeggeri d’aereo, tecnici intenti alle loro mansioni e addetti alla sicurezza. Ci fu chi morì ucciso dallo scoppio di granate al fosforo, chi morì carbonizzato, chi venne assassinato a sangue freddo (Domenico Ippoliti, un tecnico della società Asa, sull’aereo Lufthansa ed un giovane finanziere di 20 anni, Antonio Zara, che aveva cercato forse di opporre una minima resistenza).
La doverosa rievocazione che ci sentiamo di compiere ci dà l’occasione per rifocalizzare l’attenzione su quanto già scrivemmo un anno e mezzo fa sempre su questo blog.
Ci riferiamo alla serie di articoli che dedicammo al cosiddetto “patto” o “accordo Moro”, recentemente definito sulla stampa nazionale dal presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga come “lodo Moro”.
Nell’estate 2007 diverse firme di questo blog si alternarono per provare a ricomporre uno scenario storico troppo colpevolmente ignorato e non ancora adeguatamente indagato.
Da Gian Paolo Pelizzaro ad Enrix, da François agli autori di questo scritto, ci cimentammo in una ricerca che oggi ci sentiamo di dover riprendere, ritoccare, integrare.
Pubblichiamo quindi questo articolo che dopo una prima parte di rievocazione del tragico evento di Fiumicino e di analisi delle reazioni politiche e della stampa, riprende il nostro precedente studio alla luce delle ultime dichiarazioni, ricerche e pubblicazioni occorse.
Settembre-dicembre 1973
Il 5 settembre 1973 il controspionaggio del SID (l’Ufficio D, diretto dal generale Gian Adelio MALETTI), grazie alle informazioni fornite dal Mossad, riuscì ad individuare ed intercettare una cellula palestinese, catturando, in un appartamento presso Ostia, cinque presunti terroristi: Ali AL TAYEB AL FERGANI, Ahmed GHASSAN AL HADITHI, Amin EL HINDI (che risulterà essere il numero due dei servizi di sicurezza di Al Fatah e braccio destro di Abu Ayad), Gabriel KHOURI, Mohammed NABIL MAHMOUD AZMI KANJ.
I cinque stavano preparando un attentato con lanciamissili terra-aria STRELA di fabbricazione sovietica, col quale avrebbero dovuto colpire un aereo della compagnia di bandiera israeliana EL AL.
Il 30 ottobre 1973, due di loro, Al Tayeb Al Fergani e Ahmed Ghassan, ottengono, su cauzione, la libertà provvisoria. Vengono ospitati in un appartamento messo a disposizione del SID a Roma e il giorno successivo dopo essere stati accompagnati a Ciampino vengono imbarcati e trasportati segretamente in Libia su un aereo militare, un bimotore Dc3 Dakota ‘Argo 16′, in uso alla struttura segreta Gladio.
Ad accompagnare i terroristi ci sono quattro ufficiali del SID: il colonnello Giovan Battista Minerva, il capitano Antonio Labruna, il colonnello Stefano Giovannone e il tenente colonnello Enrico Milani.
Gli altri tre palestinesi sono invece trattenuti in carcere e l’apertura del processo per loro è prevista proprio per il 17 dicembre.
17 dicembre 1973. Quel lunedì mattina, nell’aula del tribunale, mentre cominciavano a giungere le prime notizie di ciò che stava accadendo a Fiumicino, un funzionario dell’ufficio politico della questura di Roma, Domenico Spinella rilasciò una dichiarazione che l’ANSA riportò così: “Testimoniando oggi al processo contro i cinque arabi trovati ad Ostia in possesso di armi… (Spinella) ha riferito che circa due mesi fa era venuto a conoscenza attraverso alcune voci dell’eventualità di un clamoroso atto terroristico che doveva avvenire probabilmente a Roma. L’attentato sarebbe stato fatto per ottenere la liberazione degli arabi imputati nell’attuale processo. Il piano terroristico, secondo le informazioni riferite dal dottor Spinella (che ha così confermato quanto aveva detto in istruttoria) era denominato «operazione Hilton» ed era stato affidato ad un uomo di nome Wadi Haddad, chiamato anche Abu Hani, residente in Jugoslavia“.
17 e 18 dicembre 1973: due giorni di terrore nei cieli del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Nella tarda mattinata di lunedì 17 dicembre, da un volo proveniente dalla Spagna, all’aeroporto di Fiumicino scendono alcuni individui (cinque in totale malgrado le prime diverse testimonianze) con bagagli a mano contenenti armi. Alle 12,51 raggiunta la barriera di sicurezza al molo ovest, estraggono le armi dai bagagli e si dividono in due commando. Un gruppo con i mitra puntati prende in ostaggio sei agenti (Fortuna, Lillo, Muggiano, Tomaselli, Di Lattanzio ed Estrino) spingendoli verso la rampa 14; l’altro gruppo corre verso l’uscita 10, abbatte la vetrata a raffiche di mitra e scende in pista. Nelle piazzole prospicienti il molo ovest, si trovano in quel momento tre aeromobili: l’Air France volo 142 per Beirut-Damasco (partenza prevista alle 13,25), il Lufthansa volo 303 per Monaco (partenza prevista alle 12,35), il Pan American volo 110 per Beirut-Teheran (partenza prevista alle 12,45). Da notare la tragica casualità. Se i voli fossero partiti in orario, sulla pista sarebbe stato presente solo l’aereo dell’Air France che fu l’unico a non subire alcun danno dall’azione terroristica.
Il gruppo sceso in pista dall’uscita 10, si dirige sparando verso l’aereo della Pan Am, sale sulle scale mobili ancora appoggiate ai portelli di prua e di poppa e getta all’interno dell’aereo alcune bombe incendiarie al fosforo. L’aereo coi serbatoi pieni si incendia istantaneamente. All’interno ci sono 59 passeggeri e 10 membri dell’equipaggio. Moriranno carbonizzati 28 passeggeri e una hostess. Sedici persone verranno ricoverate negli ospedali romani. Una di queste, l’ing. Raffaele Narciso, morirà per le ustioni poco dopo.
Il secondo commando raccoglie lungo il percorso che li divide dall’aereo della Lufthansa, altri ostaggi: il caposquadra della società ASA, Domenico Ippoliti di 21 anni che verrà poi ucciso in aereo e lasciato ad Atene, la groundhostess della compagnia tedesca Hanel Hella e l’impiegato della stessa compagnia Rosenbusch Ubrich. Tentano di far salire a bordo anche il finanziere Antonio Zara che svolgeva il suo servizio di vigilanza doganale sotto la plancia del velivolo, ma forse per una sua reazione istintiva venne prima bloccato facendogli scendere il cappotto sulle braccia e poi, dopo avergli fatto segno di allontanarsi, venne freddato con una raffica di mitra. Aveva venti anni.
Saliti a bordo dell’aereo Lufthansa anche i componenti del primo commando, l’aereo si appresta a decollare. Alle 13,32, solo 41 minuti dall’inizio dell’operazione, l’aereo decolla con destinazione Atene.
Trattative col governo ellenico per la liberazione di due terroristi palestinesi in carcere in Grecia non danno esito. Dopo 16 ore di permanenza ad Atene e dopo aver scaricato sulla pista il cadavere di Ippoliti, l’aereo riparte.
Beirut e Cipro rifiutano l’atterraggio, così i terroristi ripiegano su Damasco. Dopo lunghe trattative l’aereo riparte per la sua ultima destinazione: Kuwait dove nella serata del 18 verranno liberati gli ostaggi sopravvissuti ed arrestati i terroristi.
Il 18 dicembre alle ore 14,30 il governo italiano venne chiamato in aula a riferire.
Le contestazioni al ministro dell’interno Paolo Emilio TAVIANI giungono soprattutto dai banchi occupati dai deputati del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale.
Il ministro riferisce che in data 17 settembre era pervenuta al Ministero una informazione circa un cosiddetto “piano Hilton” (come abbiamo già visto dalla testimonianza di Spinella), ma Taviani sostiene che la “notizia non riguardava in alcun modo l’ipotesi di aerei né di aeroporti… terroristi arabi avrebbero predisposto azioni di guerriglia con prospettive di tre ipotesi: una riguardante rapimenti di persone, una riguardante le carceri e un’ultima riguardante impianti industriali“.
Il deputato Giulio CARADONNA (MSI-DN) gli grida: “Avete dato ordine di proteggere i fedayn!”
L’onorevole Clemente MANCO (MSI-DN) aggiunge: “Sono protetti da voi!”
E Caradonna conclude: “I fedayn sono protetti da voi, e si sa anche con quali denari!”
In effetti la politica del governo italiano nei confronti del terrorismo arabo, che in quegli anni insanguinava tutta l’Europa, si prestava ad interpretazioni non tenere.
Abbiamo già visto il trattamento riservato ai palestinesi catturati ad Ostia (per la cronaca i tre ancora in carcere quel 17 dicembre, verranno liberati ed accompagnati a loro volta in Libia da personale dei servizi segreti nel marzo 1974), ma anche in altri episodi criminali si assisté a comportamenti del governo criticabili e criticati.
Le interrogazioni urgenti che seguirono le spiegazioni di Taviani sono una testimonianza a caldo particolarmente interessante.
Alberto GIOMO (Partito Liberale Italiano): «All’Italia non è servita neppure la lunga tolleranza dimostrata nell’accogliere arabi di ogni specie, lasciandoli liberi di cospirare e di tramare. Neppure il longanime trattamento giudiziario che i terroristi, individuati, arrestati e riconosciuti colpevoli, hanno trovato nella nostra Italia ci ha giovato».
Ernesto DE MARZIO (Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale): «…i ribaldi sanno che in Italia possono beneficiare di leggi indulgenti, quelle stesse leggi che, interpretate con liberale larghezza, hanno consentito la scarcerazione di due componenti del commando arabo che si proponeva di abbattere un aereo israeliano. Uno dei miei colleghi, interrompendo il ministro, ha detto poco fa qualcosa che da molte parti viene detto; e cioè che quella scarcerazione sarebbe intervenuta per pressioni del potere governativo. Si è parlato anche di pressioni per una definizione dell’istruttoria che permettesse la scarcerazione anche degli altri tre membri del commando arabo. Per fortuna la magistratura ha resistito a tali pressioni.
Signor ministro dell’interno, come mai è stato liberato il palestinese che era alla guida dell’auto colma di dinamite che scoppiò a piazza Barberini? Come mai furono liberati i due palestinesi che avevano portato a Fiumicino il mangianastri esplosivo? [si tratta di Ahem Zahid e Alì Ashen. Il 16 agosto 1972 avevano conosciuto due turiste inglesi alle quali avevano regalato un mangianastri pieno di esplosivo. Sarebbe dovuto esplodere in volo sull'aereo EL AL diretto a Tel Aviv con 148 passeggeri a bordo]. Dunque non veniteci a dire che il terrorismo si manifesta anche in altri paesi e che dovunque la polizia è impotente di fronte alla spregiudicatezza delinquenziale dei terroristi. Non veniteci a dire cose del genere, perché in altri paesi non si sono verificati episodi di indulgenza nei confronti dei terroristi, quali quelli che io ho indicati».
Oronzo REALE (Partito Repubblicano): «Sappiamo che nel nostro paese, in occasione di avvenimenti, di episodi che hanno simiglianza - anche se non sono riusciti allo scopo come questo - con quello che ha avuto il suo sbocco nell’eccidio di Fiumicino, gli imputati e i colpevoli di attentati, che sono stati impediti all’ultimo momento, hanno ricevuto dai nostri magistrati o dalle nostre autorità, diciamo genericamente, una comprensione superiore - questa si è espressa nella concessione della libertà provvisoria e nella mancata sorveglianza di coloro che erano stati posti in libertà provvisoria - nonché un trattamento privilegiato rispetto a quello che avrebbe avuto un qualunque cittadino italiano imputato di fatti anche meno gravi. Ebbene, anche qui noi domandiamo: ha pagato questa politica e in che moneta ha pagato, se i risultati sono quelli che noi abbiamo visto in questi giorni, abbiamo visto ieri, e se, d’altra parte, dobbiamo considerare che l’episodio di ieri si ricollega ad una catena di episodi consimili?».
«Però dobbiamo anche dire… che questo non è stato il primo attentato compiuto a Roma, che a Roma… si va svolgendo un processo nel quale sono imputati alcuni arabi accusati di quello che poteva essere un delitto forse di maggiori proporzioni (perché se il delitto si fosse perfezionato un aereo sarebbe caduto sulla città)…».
Dunque che il “patto” tra governo italiano e organizzazioni palestinesi fosse già “formalmente” operativo nel dicembre 1973 oppure no, i necessari passi preparativi erano già stati messi in essere dal governo e dai servizi segreti.
Una serie di episodi di incredibile indulgenza a fronte di efferati crimini compiuti o tentati, erano ormai di dominio pubblico e come abbiamo visto erano anche denunciati apertamente in Parlamento da deputati dei diversi schieramenti.
Anche sulla stampa cominciarono ad insinuarsi sospetti sull’atteggiamento morbido delle autorità italiane nei confronti dei palestinesi.
«Abbiamo interrogato a caldo, subito dopo il massacro, gli ambienti israeliani a Roma. Con enorme stupore abbiamo sentito questo discorso… I servizi segreti israeliani e anche, pare, quelli statunitensi avevano messo in guardia il governo italiano… Gli israeliani avevano offerto la loro collaborazione. Era stata rifiutata. Un rifiuto cortese ma pur sempre un ‘no’. E gli israeliani si lamentano ancora di un’altra cosa. Da almeno un mese a questa parte i loro agenti sul territorio italiano (controspionaggio e controterrorismo) erano stati messi nella pratica impossibilità di muoversi. I controlli sul loro operato si erano intensificati. In taluni casi si era addirittura arrivati ad una sorta di ‘marcatura’ dell’uomo sull’uomo, come si usa nelle partite di calcio. E questo non sarebbe niente male, se poi un governo si preoccupasse di fare lui un vero controterrorismo. Di questi controlli sui suoi uomini Israele non sapeva spiegarsi la ragione. A meno che non ci fosse stata, da parte araba, una precisa richiesta in tal senso, un ricatto nel ricatto, in parallelo con la crisi del petrolio. Ci ha detto una fonte che, per ovvi motivi, non possiamo citare: “Gli italiani davano l’impressione di essersi addormentati in un’atmosfera di illusoria sicurezza. Qualcuno di loro, privatamente, sosteneva addirittura che c’erano state delle assicurazioni, da parte dei guerriglieri palestinesi, contro il ripetersi di attentati alle partenze da Roma. Noi avevamo risposto che se anche queste garanzie c’erano state, i terroristi palestinesi non rappresentano un gruppo compatto e unitario. Le assicurazioni degli uni potevano venir violate dagli altri. Ma in Italia non si fece quasi nulla per mettere i terroristi nell’impossibilità di nuocere“». (Marzio Bellacci, Raffaello Uboldi, Pietro Zullino, “Fiumicino. Perché è accaduto”, Epoca, 30 dicembre 1973).
A leggere queste parole sembra dunque che il “patto” fosse stato già siglato e che le autorità italiane si sentissero per ciò tranquille. Non avevano fatto i conti con Settembre Nero che con ogni probabilità intendeva boicottare non solo il “patto” con l’Italia ma anche la Conferenza di pace per il Medio Oriente che stava per aprirsi a Ginevra il successivo venerdì 21 dicembre.
La questione dell’esistenza del “patto”, al di là dell’odierna sensibilità, dal 1973 ad oggi ha trovato in Parlamento anche altri momenti di notorietà.
Venerdì 28 gennaio 1977, alla Camera dei deputati vennero discusse un’interpellanza (la n. 2/00038 presentata il 13 ottobre 1976) dell’onorevole Luigi Preti (Partito Socialista Democratico Italiano) e un’interrogazione presentata dall’onorevole Raffaele Costa (Partito Liberale Italiano). Poiché entrambe concernevano lo stesso argomento vennero svolte congiuntamente e a rispondere venne incaricato il sottosegretario di Stato per la grazia e la giustizia, onorevole Renato Dell’Andro (Democrazia Cristiana). [Il testo integrale della seduta è disponibile nei commenti*].
Una sintesi perfetta delle domande poste dai due deputati può stralciarsi dall’interrogazione di Costa: “conoscere se corrisponde al vero che esistono accordi segreti fra il Governo italiano e le organizzazioni terroristiche palestinesi che stabilirebbero, per i terroristi, libertà d’azione contro ambasciate o consolati esteri a condizione che vengano risparmiati gli obiettivi italiani; circa i terroristi colti in flagrante in Italia gli stessi accordi stabilirebbero la liberazione senza processo dopo pochi giorni di carcere“.
Le richieste di Preti e Costa nascevano da un recente episodio di un assalto dell’ambasciata siriana a Roma da parte di un commando palestinese e i due deputati si chiedevano, ripercorrendo l’elenco di eventi simili dove s’era evidenziato un trattamento inadeguato alla gravità, quale fosse la responsabilità del governo.
Preti: «Ponevo allora il dubbio che il Governo intendesse porre rapidamente in libertà i tre fedayn palestinesi che avevano assalito l’ambasciata siriana. Il fatto è che vi sono molti precedenti nel nostro paese in questo senso. Più volte questi fedayn, o comunque questi arabi appartenenti ad una determinata organizzazione hanno usufruito, di condizioni di favore, sono stati liberati pur avendo compiuto o tentato, di compiere, delitti. Ciò è avvenuto nel caso degli arabi bloccati mentre stavano per abbattere un aereo israeliano ad Ostia [i cinque arrestati il 5 settembre 1973, ndr]. Si trattava di un atto gravissimo, che è stato sventato a stento, ma i cui responsabili furono poi liberati. Analogamente furono liberati i tre palestinesi bloccati a Fiumicino nell’agosto 1975 poiché trovati in possesso di bombe a mano con cui si apprestavano a compiere un delitto. Lo stesso trattamento sembra che sia stato riservato, ad alcuni di coloro che parteciparono al massacro di Fiumicino del 1974 [1973] nel quale morirono trenta passeggeri di un aereo. Vi fu anche il caso di due giovani che consegnarono un apparecchio mangianastri ad una viaggiatrice diretta a Tel Aviv: il mangianastri era pieno di esplosivo che avrebbe dovuto far saltare l’aereo in volo. Per miracolo tutto questo non è avvenuto.
Una serie di circostanze fa dunque ritenere che il Governo italiano, ovvero certi suoi organi, non si comportino come dovrebbero, cioè non applichino la legge nei confronti di questi terroristi, a dispetto del fatto che la legge dovrebbe essere eguale per tutti.»
La risposta del governo per bocca di Dell’Andro è molto netta: «Nessun fondamento può essere attribuito alle notizie, diffuse da una parte della stampa, e richiamate dall’onorevole interpellante, nonché dall’onorevole Costa con l’interrogazione vertente sullo stesso tema… Non esiste - posso assicurare all’onorevole interpellante - né può esistere alcun trattato od intesa di sorta (peraltro ancor meno configurabile) con un movimento politico che non reclama esso stesso la qualifica di Stato o di Governo, che comporti l’impegno da parte italiana a rilasciare gli autori di atti terroristici compiuti nel nostro paese - in particolare contro rappresentanze di Stato estere - alla cui tutela viceversa, come è suo fondamentale dovere, il Governo ha provveduto ed intende provvedere per l’avvenire con la massima decisione, del resto in ottemperanza anche agli obblighi sanciti dal diritto internazionale… »
Per uno di quegli strani giochi del destino che portano le vicende umane ad oscillare tra ironia farsesca e tragedia, l’onorevole Renato Dell’Andro che abbiamo appena visto sostenere con fermezza l’assoluta infondatezza di ogni ipotesi di accordo segreto tra governo italiano e organizzazioni palestinesi, sarà la stessa persona che poco più di un anno dopo (il 29 aprile 1978), verrà direttamente chiamato in causa da Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse come testimone degli accordi medesimi: “Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra. Lo stato italiano, in vari modi, dispose la liberazione di detenuti, allo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo Stato di necessità…”.
Rivisitando il “patto” o “accordo” o “lodo Moro”
Lunedì 14 maggio 2007 il magistrato Rosario Priore rilasciava alla trasmissione “Omnibus”, sulla rete televisiva La 7, un’intervista nel corso della quale faceva esplicito riferimento ad un “patto” o “accordo” stabilito tra il governo italiano e “la resistenza palestinese”, menzionato in alcune lettere scritte da Aldo Moro, prigioniero delle Brigate rosse.
Ci impressionarono, da una parte, gli accenni all’indicibilità di quel patto e la rilevanza che Priore gli attribuiva per la storia d’Italia (”sul quale tuttora c’è una sorta di segreto di fatto [...] su cui non si può ancora parlare [...] che ha determinato la nostra storia per oltre trent’anni“), dall’altra parte, la menzione ai lavori della Commissione Mitrokhin, sottoposta nei mesi precedenti ad una sorta di “bombardamento mediatico” da parte di quasi tutta la stampa italiana. Bombardamento iniziato il 26 novembre 2006, dopo la morte di Aleksandr Litvinenko (il precedente 23 novembre a seguito di un avvelenamento da polonio 210 avvenuto il 1º novembre di quello stesso anno).
Ci chiedemmo immediatamente se conoscevamo qualcosa di quel “patto” e come avremmo potuto saperne di più. Dieci anni prima, nel 1997, avevamo letto le drammatiche lettere dalla prigionia brigatista scritte da Aldo Moro nell’edizione curata da Sergio Flamigni («Il mio sangue ricadrà su di loro». Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, Kaos edizioni, 1997), ma a tanti anni di distanza serbavamo solo uno sbiadito ricordo degli accenni che Moro faceva ai “palestinesi”. Decidemmo così di intraprendere una piccola ricerca seguendo da prima la traccia dell’epistolario di Moro. Fu così che, utilizzando sia l’edizione cartacea, sia quella on-line, delle lettere di Moro, identificammo rapidamente i riferimenti al “patto” con i palestinesi nelle lettere a Erminio Pennacchini e a Flaminio Piccoli (citate da Priore) ma rintracciando anche altri riferimenti allo stesso tema in altre quattro lettere di Moro stesso.
Nel giro di poche settimane, consultando con una certa frenesia un po’ di volumi della sterminata bibliografia dedicata al caso Moro, e con l’ausilio della rete, rintracciammo ulteriori interessanti informazioni (come ad esempio una data possibile di “stipula”: il 19 ottobre 1973) seppure frammentarie e apparentemente isolate, su quel “misterioso” “patto” o “accordo”, che cominciava a delinearsi in modo un po’ più preciso.
Ciò che avevamo raccolto ci parve interessante e decidemmo perciò di imbastire una semplice antologia dei testi che ci erano parsi più significati. Ne scaturì un articolo che pubblicammo nel blog “cielilimpidi” il 27 giugno 2007. Un secondo articolo, scritto da Enrix, che arricchiva e sviluppava il precedente, fu pubblicato sempre su “cielilimpidi” il 6 agosto successivo.
La testimonianza di Aldo Moro nelle drammatiche lettere dalla prigionia brigatista (fine aprile 1978).
Nei mesi scorsi ricorreva il trentesimo anniversario dei 55 giorni più drammatici della storia dell’Italia repubblicana (16 marzo - 9 maggio 1978) e, come era prevedibile, sono stati pubblicati numerosissimi saggi che rievocavano quella tragedia. Su tutti si staglia nettamente l’impeccabile nuova edizione del carteggio di Aldo Moro curata dallo storico Miguel Gotor, pubblicata nel febbraio 2008 (Lettere dalla prigionia, Einaudi). Il contributo di Gotor restituisce prima di tutto il testo filologicamente attendibile di 97 scritti di Moro. Gotor, con maestria e certosina pazienza, ha ricostruito con precisione la genesi e l’itinerario di ogni lettera, che ha arricchito con numerose e preziose note esplicative. Il curatore ha infine corredato il volume con un importante, profondo saggio di oltre duecento pagine. Questo volume è uno dei più importanti contributi che siano mai stati scritti sul “caso Moro” e ha una doppia valenza: si pone come l’edizione critica di riferimento per le lettere di Moro e come uno straordinario strumento di lavoro storiografico.
Ci è sembrato utile perciò riproporre l’elenco delle lettere di Moro che trattano dei palestinesi, secondo l’ordine cronologico di stesura, con alcuni dati biografici sui destinatari, così come proposti nel contributo di Gotor sopra citato.
1. Lettera all’ambasciatore Luigi Cottafavi, scritta intorno al 22-23 aprile 1978, recapitata; rinvenuta solo come dattiloscritto nell’ottobre 1978. Cottafavi nel 1978 era capo della rappresentanza dell’Onu per l’Europa a Ginevra, ambasciatore fuori ruolo presso le Nazioni Unite in qualità di vicesegretario generale aggiunto. In passato era stato consigliere diplomatico di Moro quando questi era presidente del Consiglio, e suo capo gabinetto al ministero degli Esteri.
2. Lettera a Flaminio Piccoli, scritta a partire dal pomeriggio del 23 aprile 1978, consegnata da Sereno Freato al destinatario il 29 aprile 1978; se ne conserva l’originale. Nel 1978 Piccoli era il capogruppo della Democrazia cristiana alla Camera dei deputati.
3. Lettera a Erminio Pennacchini, scritta a partire dal pomeriggio del 23 aprile 1978, consegnata il 29 aprile; rinvenuta come dattiloscritto nell’ottobre 1978 e come fotocopia di manoscritto nell’ottobre 1990. Pennacchini nel 1978 era deputato democristiano, dal 6 dicembre 1977 era presidente del Copasis, vale a dire del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti e sul segreto di Stato; inoltre dal 21 marzo 1977 era anche presidente della Commissione speciale dell’esame del disegno di legge n. 696 riguardante l’istituzione e l’ordinamento del Servizio per la informazione e la sicurezza).
4. Lettera a Renato Dell’Andro, scritta a partire dal pomeriggio del 23 aprile 1978, dopo le lettere a Piccoli e a Pennacchini, consegnata il 29 aprile; se ne conserva l’originale; rinvenuta solo come dattiloscritto nell’ottobre 1978. Nel 1978 Dell’Andro era sottosegretario al ministero di Grazia e giustizia.
5. Lettera al Partito della Democrazia Cristiana (se ne conoscono tre versioni), scritta il 27 aprile 1978 e recapitata il 28 aprile; se ne conserva l’originale; pubblicata per la prima volta dal “Messaggero” il 29 aprile; la fotocopia del manoscritto è stata rinvenuta nell’ottobre 1990.
6. Lettera a Riccardo Misasi, scritta il 30 aprile 1978; si ritiene recapitata, ma non divulgata; rinvenuta solo come fotocopia di manoscritto nell’ottobre 1990. Nel 1978 Misasi era presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati.
Le testimonianze della controparte palestinese
Nel nostro articolo del 27 giugno 2007 l’antologia delle testimonianze sul “patto” presentava una lacuna, mancava una qualche attendibile attestazione della controparte palestinese. Quella testimonianza, del tutto inattesa e clamorosa, è arrivata in un’intervista rilasciata da Bassam Abu Sharif al “Corriere della Sera” il 14 agosto 2008. Poiché di quell’intervista ci siamo già occupati in questo blog, ci limitiamo qui a richiamare solo alcuni sommari dati biografici dell’intervistato, dato l’importante ruolo che Bassam Abu Sharif ricoprì come dirigente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP).
Dopo la morte di Wadi Haddad a Berlino Est il 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, e la scomparsa, il 26 gennaio 2008, di George Habbash (1926-2008), Bassam Abu Sharif è rimasto il più importante esponente in vita del Fronte popolare per la liberazione della Palestina di cui fu, nel corso degli anni Settanta, il responsabile del settore stampa e pubbliche relazioni nonché ufficiale reclutatore. Fu lui infatti ad arruolare nel 1970 Ilich Ramirez Sanchez, cui assegnò il nome di battaglia di Carlos, nome col quale divenne tristemente famoso come uno dei più spietati terroristi internazioni nel quarto di secolo successivo.
Per ulteriori informazioni sull’itinerario biografico di Bassam Abu Sharif rimandiamo al volume dello stesso Bassam Abu Sharif e di Uzi Mahnaimi, Il mio miglior nemico - Israele-Palestina. Dal terrore alla pace, Sellerio 1996 (traduzione italiana dell’opera Tried by Fire. The Searing True Story of Two Men at the Heart of the Struggle between the Arabs and the Jews, 1995).
Ci sembra utile, in questo contesto, ricordare anche altre due testimonianze di parte palestinese, di diversi anni precedenti l’intervista di Bassam Abu Sharif, che non conoscevamo all’epoca della stesura del nostro articolo del 27 giugno 2007.
La prima è la testimonianza di Nemer Hammad, fino al 2005 delegato nazionale palestinese a Roma, una sorta di ambasciatore palestinese in Italia. I ricordi di Nemer Hammad sono riportati nel libro di Alberto La Volpe, Diario segreto di Nemer Hammad, ambasciatore di Arafat in Italia, Editori Riuniti 2002, p. 45.
«A Roma c’era stato il fallito attentato a Ostia, dove dei palestinesi di Al Fatah avevano cercato di colpire con un missile l’aereo di Golda Meir. E gli attentatori furono arrestati. Così come venne arrestato un altro palestinese che volendo uccidere il direttore della società aerea israeliana a Roma, uccise invece un italiano che non c’entrava niente!
Il colonnello Giovannone fece venire in Italia, clandestinamente, una «delegazione» palestinese alla quale fu permesso di parlare con i loro connazionali detenuti. Il risultato della missione fu positivo per l’Italia. Nel senso che i palestinesi detenuti furono segretamente rilasciati con l’impegno che non ci sarebbero stati più attentati in Italia. Un risultato certo positivo che avrebbe poi provocato un sacco di guai giudiziari al povero colonnello».
La vicenda di Ostia è quella sopra ricordata, il contesto cronologico si riferisce ai mesi di settembre-ottobre 1973 nel corso dei quali si delinea e comincia a diventare operativo il “patto”. Il colonnello Stefano Giovannone, capocentro dei servizi segreti italiani a Beirut tra il 1972 e il 1981, era un ufficiale dei servizi segreti (prima del SID e poi del SISMi) che ricoprì un delicato e difficile ruolo di “snodo” tra il governo italiano e le organizzazioni palestinesi. È ricordato da Moro nelle due lettere recapitate a Flaminio Piccoli e a Erminio Pennacchini il 29 aprile 1978 (ma scritte il 23 aprile). Su Giovannone si veda il volume di Fulvio Martini, Nome in codice: Ulisse. Trent’anni di storia italiana nelle memorie di un protagonista dei servizi segreti, Rizzoli 1999 (2001, 2ª ed.).
La testimonianza di Nemer Hammad è citata nel libro di Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Rubbettino 2006 (p. 286, nota 63) che dedica alcune pagine (284-288) alla discussione del “patto” (la vicenda del patto è quindi un evento che lentamente si sta sedimentando anche nella ricerca storiografica).
La seconda testimonianza è quella di Abu Daud, che fu braccio destro di Abu Ayad, numero due di al-Fatah, tra gli ideatori e organizzatori del sequestro, finito in un massacro, degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco di Baviera il 5 settembre 1972. Qui di seguito riportiamo un breve stralcio dall’intervista raccolta da Alix van Buren e pubblicata sul quotidiano la Repubblica il 25 gennaio 2006 (nel testo dell’intervista è utilizzata la grafia Abou Daoud).
«In Italia, nel ‘74, concludemmo un accordo con il governo. Se l’Italia avesse impedito agli israeliani di colpirci, noi avremmo terminato ogni azione. Quell’anno Fatah liquidò anche Settembre Nero. Il nostro obiettivo era raggiunto. La causa palestinese era sull’agenda delle cancellerie occidentali».
Questa testimonianza di Abu Daud può aiutare a far luce su un problema che affronteremo qui di seguito.
L’incontro del Cairo del 19 ottobre 1973 e l’attentato di Fiumicino del 17 dicembre 1973.
Nel nostro articolo del 27 giugno 2007 avevamo evidenziato che si poteva ancorare il “patto” ad una data precisa: il 19 ottobre 1973, quando rappresentanti diplomatici italiani si incontrarono al Cairo con un esponente dell’OLP (si veda Sergio Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Kaos edizioni, 1ª ed. maggio 1988, 5ª ed. aggiornata aprile 2003, pp. 197-198; informazione tratta da un appunto del SID, classificato “Riservatissimo”, proveniente dal Cairo; utilizzato nella sentenza-ordinanza del giudice istruttore Carlo Mastelloni, Tribunale di Venezia, procedimento penale n. 204 del 1983, pp. 1.161-63.).
Scrivevamo pure però che era difficile spiegare come mai, neppure due mesi dopo, fosse avvenuto il devastante attentato di Fiumicino, la più grave strage terroristica in territorio italiano fino a quel momento.
Lo stesso Mino Pecorelli, in un articolo sulla sua rivista OP (Osservatorio Politico) del 10 ottobre 1978 (si veda la più accessibile raccolta curata da Sergio Flamigni, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos edizioni, 2006, pp. 364-365), nel quale commentava la lettera di Moro a Piccoli, riteneva la strage di Fiumicino “l’unica misteriosa eccezione” di questo “patto”.
Una piccola incertezza sulla cronologia del “patto” ci sembra di cogliere in due note, pur estremamente puntuali e ricche di informazioni, del libro di Gotor sopra citato. Infatti nella nota 6 di pagina 81 (a commento della lettera di Moro a Cottafavi) troviamo scritto che “Moro allude per la prima volta a un accordo segreto stipulato nell’ottobre 1973 tra lui, allora ministro degli Esteri, e i rappresentanti dell’Olp, nei giorni in cui infuriava la guerra del Kippur tra Israele ed Egitto”, ma nella nota 10 di pagina 106 (a commento della lettera di Moro a Piccoli) leggiamo che “Moro ritorna alla questione dell’accordo segreto con i palestinesi, successivo alla strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973″.
Nell’articolo del 6 agosto 2007 su questo blog, Enrix metteva in evidenza che in quei mesi dell’autunno 1973 poteva essersi creato un braccio di ferro tra governo italiano e palestinesi per ottenere la liberazione dei tre terroristi del commando dotato dei missili Strela (si veda sopra) rimasti in carcere dopo la cattura ad Ostia il 5 settembre 1973.
La testimonianza di Abu Daud suggerisce però una possibile diversa interpretazione delle ragioni dell’attentato di Fiumicino, ossia i profondi contrasti tra Settembre Nero e le altre organizzazioni palestinesi. Abu Daud sostiene infatti che nel 1974 “Fatah liquidò anche Settembre Nero” che evidentemente ormai era diventato un gruppo troppo “scomodo” da gestire per la stessa causa palestinese. Da non dimenticare anche che Settembre Nero forse intendeva boicottare non solo il “patto” con l’Italia ma, come abbiamo già accennato, anche la Conferenza di pace per il Medio Oriente che stava per aprirsi a Ginevra il 21 dicembre 1973, ossia appena quattro giorni dopo la strage di Fiumicino.
È in linea con questa interpretazione quanto affermato dal senatore Paolo Emilio Taviani nel corso di una audizione della Commissione stragi il 1° luglio 1997: «Circa gli autori del crimine [la strage di Fiumicino], non ci sono dubbi, ma certezze: erano uomini di “Settembre Nero”, nemico feroce di Arafat. Proprio quindici giorni prima la magistratura italiana aveva posto in libertà provvisoria due palestinesi sospettati di un attentato. “Settembre Nero” si era mosso contro il rischio di un ulteriore avvicinamento fra l’Italia e Arafat». (Commissione stragi, 24ª seduta, 1° luglio 1997, audizione del senatore Paolo Emilio Taviani).
L’estrema complessità dello scacchiere mediterraneo e del Medio Oriente e le multiformi manifestazioni della politica estera italiana di quel periodo (ma non solo) ci spingono a citare un’ulteriore possibile motivazione dietro la strage di Fiumicino. È sempre Gotor a indicarla nella stessa nota 10 di pagina 106 sopra ricordata. Gotor suggerisce che la tragedia di Fiumicino sia stata la “probabile e drammatica risposta all’aiuto fornito dall’intelligence italiana durante la guerra del Kippur all’esercito israeliano in difficoltà“; una possibilità che adombra una politica del doppio binario sia filoisraeliana sia filoarabo-palestinese. Argomento troppo intricato per essere affrontato in questa sede.
Equivoci e confusioni da dissipare sul “patto”.
Concludiamo queste nostre considerazioni con alcune osservazioni “critiche” sulla natura del “patto” che abbiamo incontrato in due scritti di Giuseppe di Lutiis e Sergio Romano.
Gli “strani” contraenti del “patto” secondo De Lutiis (2007).
Nella pagina 225 del libro di Giuseppe De Lutiis, Il golpe di via Fani, 2007, leggiamo:
«Le motivazioni israeliane erano dettate dal timore che l’Italia, che nel 1973 aveva stipulato un patto non scritto con i Paesi arabi - propiziato proprio da Moro - che la metteva al riparo da ulteriori attentati sul suo territorio, dopo quello, devastante, di Fiumicino del 17 dicembre 1973, potesse rafforzare questa intesa e divenire un paese di riferimento per tutto il mondo arabo».
Non occorre dilungarsi più di tanto per sottolineare che la controparte delle autorità di governo italiane non erano dei non meglio precisati (e più rassicuranti) “Paesi arabi”, ma l’OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e l’FPLP (Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), “entità” che indipendentemente da come le si voglia classificare, nel 1973-74 non erano organizzazioni di uno Stato, allora, e anche oggi, inesistente.
Il “lodo Moro” secondo Sergio Romano (2008).
Nella parte finale di una risposta ad un lettore che sollevava interessanti quesiti sulla politica estera italiana di “rito mediterraneo”, l’ex ambasciatore Sergio Romano (nella rubrica “Lettere al Corriere”, Corriere della Sera del 15 novembre 2008, p. 43), scriveva a proposito del “lodo Moro”:
«Sulla questione del «lodo Moro» vi è ancora molta confusione. Ci è stato detto a più riprese che fu stretto una sorta di patto con i palestinesi e che questo permise agli uomini di Arafat di usare l’Italia come una retrovia. Ma non conosciamo i termini dell’intesa e dobbiamo accontentarci per il momento di informazioni di seconda o terz[a] mano. Vi fu probabilmente un accordo, ma negoziato da qualche «tecnico» e composto da silenzi e ammiccamenti più che da clausole precisamente definite. Non è la prima volta comunque che un Paese, per evitare di essere coinvolto in un conflitto o di subirne le conseguenze, fa qualche concessione a uno dei contendenti, se non addirittura, a tutti e due».
Il testo di Romano merita alcune precisazioni perché ci sembra in parte inadeguato, troppo “nebbioso” e dubitativo rispetto alle conoscenze affidabili già da molto tempo disponibili.
Che “Sulla questione del «lodo Moro»” vi sia “ancora molta confusione“, non ci pare: forse si FA “ancora molta confusione”, ma la cosa è leggermente diversa. Romano scrive che “Ci è stato detto a più riprese che fu stretto una sorta di patto con i palestinesi“: non è del tutto chiaro a chi si riferisca implicitamente Romano con la forma impersonale “Ci è stato detto“, probabilmente al presidente emerito Francesco Cossiga che ripetutamente, dal 2004 in avanti, fa riferimento all’”accordo” o “lodo Moro”, espressione quest’ultima coniata dallo stesso Cossiga e che Romano utilizza nel testo sopra citato. È vero che “non conosciamo i termini dell’intesa“, ma se ne conoscono in modo piuttosto preciso le “modalità operative”.
Non si può affermare però che “dobbiamo accontentarci per il momento di informazioni di seconda o terz[a] mano“, perché le “informazioni” che emergono dalle lettere di Moro, note ormai da tre decenni, e quelle recentemente fornite da Bassam Abu Sharif proprio al Corriere della Sera (il 14 agosto 2008), giornale sul quale Romano scrive quotidianamente, non sono affatto “di seconda o terz[a] mano“, ma provengono direttamente da testimonianze delle due parti contraenti il “patto”, e sono perciò informazioni di “prima mano”, che ci permettono di affermare con “certezza” (e non “probabilmente”, come sostiene Romano) che un “accordo” italo-palestinese c’è stato.
Sui negoziatori dell’accordo (”qualche «tecnico»”) ci saremmo aspettati un contributo di conoscenza dallo stesso Romano, proprio in quanto ex-ambasciatore e conoscitore quindi del mondo diplomatico. Ma qui Romano sembra suggerire che il negoziato sia stato condotto quasi all’insaputa delle autorità di governo vere e proprie, una tesi insostenibile dato che il “tessitore” principale di quell’”accordo” era stato proprio Aldo Moro per molti anni alla guida del Ministero degli Esteri (dal 28 dicembre 1964 al 5 marzo 1965, ad interim, nel secondo governo da lui stesso presieduto; dal 5 agosto 1969 al 26 giugno 1972; dal 7 luglio 1973 al 23 novembre 1974), tra l’altro proprio nei difficilissimi mesi dell’autunno-inverno 1973-1974, quando l’”accordo” prese forma.
Prima di concludere ci permettiamo di introdurre una considerazione che non vuole avere nessuna connotazione particolare ma che scaturisce quasi spontaneamente dall’analisi di una mole considerevole di dati, documenti e di pareri raccolti in mesi e mesi di ricerche, letture e confronti.
Aldo Moro, nelle sempre più disperate lettere che dal “carcere del popolo” inviava ai suoi “amici” e colleghi di partito, si sentì in diritto, come abbiamo visto dettagliatamente, di richiamare con allusioni nemmeno tanto velate il “patto” segreto tra il governo italiano e le organizzazioni palestinesi. “Patto” di cui era stato uno dei fautori e garanti.
Non ci sentiamo nemmeno di escludere che Moro, nel tentativo di trovare egli stesso, da solo per quanto poteva, una via di salvezza, abbia cercato di spendere coi suoi carcerieri l’impegno che egli aveva profuso negli anni per raggiungere accordi di sistema con la turbolenta galassia dei palestinesi, non nascondendo i rischi che aveva accettato di far correre allo Stato e alla sua stessa persona.
Detto ciò, possibile che Moro, nel suo “memoriale” non abbia dedicato nemmeno qualche frase, magari ermetica, al “tema” palestinese?
A tale domanda oggi come oggi, ad oltre trent’anni da quei tragici eventi, non si può che rispondere in un modo solo: Moro nel suo “memoriale” non citò mai nemmeno per allusione il “patto”. Tuttavia nel “memoriale” (insieme eterogeneo di scritti di Moro, distinto dalle lettere, in parte costituito dalle risposte che Moro fornisce ad un elenco di 16 domande formulate dai brigatisti, elenco però mai ritrovato) esiste un brano in cui Moro delinea in modo sintetico, ma denso di informazioni, la politica estera dell’Italia nel Mediterraneo e Medio Oriente, politica intessuta negli anni da Moro stesso in qualità di ministro degli Esteri e che caratterizza lo sfondo su cui si sviluppano i successivi eventi (Commissione Moro, 167-168; Commissione stragi, II 238-243).
Eppure, per completezza, ci corre l’obbligo di ricordare che una prima versione del “memoriale”, venne ritrovata il 1° ottobre 1978 dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano. In quelle 49 pagine dattiloscritte (trascrizioni di brani di Moro operate dai brigatisti) non si faceva menzione alcuna alla struttura segreta Stay Behind. Nell’ottobre del 1990, sempre nello stesso covo di via Monte Nevoso, dietro un pannello della cucina inspiegabilmente ignorato 12 anni prima, venne ritrovata una seconda versione più corposa del “memoriale” (questa volta fotocopie dei manoscritti di Moro), questa versione era costituita da ben 176 pagine. Fondamentalmente le parti inedite constano di 53 pagine.
Sul finire del 1990 la “guerra fredda”, ovvero la contrapposizione tra Occidente e blocco comunista, che aveva caratterizzato il quarantennio successivo la seconda guerra mondiale, stava spegnendosi di morte naturale insieme alla dissoluzione dell’impero sovietico. I tempi erano dunque maturi perché certi segreti venissero svelati. Ecco dunque nella seconda versione del “memoriale” di Moro ritrovata nel 1990, brani espliciti in cui lo statista fa menzione all’organizzazione Gladio.
È infatti proprio dopo il secondo ritrovamento del “memoriale”, avvenuto il 9 ottobre 1990, che il presidente del Consiglio Giulio Andreotti il 24 dello stesso mese procede a rendere noti all’opinione pubblica i dettagli relativi alla rete clandestina addestrata alla guerriglia e alla controguerriglia contro eventuali forze occupanti denominata appunto Stay Behind, una “struttura di informazione, risposta e salvaguardia”.
Come abbiamo visto da alcuni anni a questa parte autorevoli protagonisti delle vicende di cui ci stiamo occupando, da Rosario Priore a Francesco Cossiga, da Abu Daud a Bassam Abu Sharif, quindi esponenti di entrambi i “fronti”, hanno deciso di parlare liberamente del patto stipulato tra governo italiano e organizzazioni palestinesi nel lontano 1973.
Ecco dunque sorgere spontanea una domanda: che forse stia per crollare anche l’ultimo muro… o l’ultimo pannello?
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