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L'Osservatore Romano - Il Giornale - Il Riformista - Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.12.2008 Ma la Chiesa non può negare la storia
l'attacco del quotidiano della Santa Sede a Gianfranco Fini, la sua replica, i commenti di Fiamma Nirenstein e Giampaolo Pansa

Testata:L'Osservatore Romano - Il Giornale - Il Riformista - Corriere della Sera
Autore: la redazione - Fiamma Nirenstein - Giampaolo Pansa - Paola Di Caro
Titolo: «A proposito delle dichiarazioni di Gianfranco Fini - Un nodo ancora irrisolto della nostra civiltà - Fini non ha tutti i torti, anzi - L'amarezza di Gianfranco: nessun attacco, lo dice la storia»

Riportiamo di seguito alcuni articoli che proseguono la discussione sulle dichiarazioni del presidente della Camera Gianfranco Fini sul silenzio della Chiesa Cattolica di fronte alle leggi razziali fasciste.

L' OSSERVATORE ROMANO pubblica una nota che liquida le ragioni di Fini accusandolo di "approssimazione storica e meschino opportunismo politico".

Sul GIORNALE Fiamma Nirenstein ricorda per contro che "le leggi razziali presero ben concreto piede (mia madre e mia zia furono espulse da scuola, mio nonno dal lavoro.. poi persero la casa, e i loro beni, poi i miei zii finirono ad Auschwitz) tra istituzioni e popolazioni cui spetta storicamente la qualifica di civiltà cristiana. Nessuno protestò drammaticamente, o solidarizzò pubblicamente".


Giampaolo Pansa sul RIFOMISTA rievoca  vicende che contastano con il quadro unilaterale e di comodo che molti vorrebbero tracciare del comportamento degli italiani e della Chiesa al tempo delle leggi razziali:  "la madre superiora di un convento consegna alla polizia di Salò due vecchie signore ebree. Un'altra suora fa arrestare il medico dei poveri e il fratello, anche loro ebrei. La folla saccheggia la casa di una famiglia ebrea un attimo dopo la cattura. Sono appena tre casi fra i tanti. Ma ci obbligano a pensare che non abbia torto Gianfranco Fini nella sua analisi cruda del diffuso antisemitismo di una parte degli italiani". Tra i meriti delle coraggiose parole di Fini vi è certamente quello di aver aperto una porta rimasta chiusa troppo a lungo. Non ha caso, ci sembra,  un articolo come quello di Pansa è stato pubblicato soltanto dopo il discorso di Fini.

Sul CORRIERE della SERA, Paola Di Caro riporta le reazioni di Fini agli attacchi della Chiesa.


Da L'OSSERVATORE ROMANO riportiamo  "A proposito delle dichiarazioni di Gianfranco Fini"

Roma, 17. Ha suscitato stupore e molte polemiche il discorso pronunciato ieri dal presidente della Camera dei deputati italiana, Gianfranco Fini, in occasione di un convegno per il settantesimo anniversario dell'introduzione delle leggi razziali in Italia. "Ma l'ideologia fascista - ha detto Fini - non spiega da sola l'infamia. C'è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata, nel suo insieme, alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica".
Politici, storici e media sono intervenuti per correggere o sostenere le affermazioni di Fini. Non è vero che la Chiesa italiana non si oppose alle leggi razziali del 1938, ha puntualizzato subito Radio Vaticana, intervistando due autorevoli contemporaneisti che hanno dedicato importanti studi al periodo in questione:  Francesco Malgeri, dell'università di Roma La Sapienza, e Andrea Riccardi, dell'università di Roma Tre. I silenzi di un Paese intero titola oggi in prima pagina il "Corriere della Sera" un dettagliato articolo del vicedirettore Pierluigi Battista che mostra come intellettuali, senatori e antifascisti tacquero quasi tutti. "Fini "scivola" su leggi razziali e Chiesa", ha titolato invece ieri sul suo sito in rete "Avvenire", che critica anche il leader del Partito democratico, il quale nel pomeriggio di ieri aveva definito l'analisi di Fini "di una verità palmare".
Di certo, sorprende e amareggia il fatto che uno degli eredi politici del fascismo - che dell'infamia delle leggi razziali fu unico responsabile e dal quale pure da tempo egli vuole lodevolmente prendere le distanze - chiami ora in causa la Chiesa cattolica. Dimostrando approssimazione storica e meschino opportunismo politico.

Da pagina 14 del GIORNALE, Un nodo ancora irrisolto della nostra civiltà, di Fiamma Nirenstein:

L’impossibilità che si è manifestata in qualche commento di fronte alle affermazioni del presidente della Camera Gianfranco Fini di ammettere che il cattolicesimo non assunse un ruolo salvifico al tempo delle leggi razziali e, quindi, più avanti, della Shoah spiace dire che somiglia un po’ alla difficoltà degli eredi del comunismo di venire a capo dei problemi ontologici della loro scelta d’origine, e quindi della loro identità odierna. Le leggi razziali presero ben concreto piede (mia madre e mia zia furono espulse da scuola, mio nonno dal lavoro.. poi persero la casa, e i loro beni, poi i miei zii finirono ad Auschwitz) tra istituzioni e popolazioni cui spetta storicamente la qualifica di civiltà cristiana. Nessuno protestò drammaticamente, o solidarizzò pubblicamente. Così era l’Italia.
Quali che siano stati i tentativi, gli afflati altamente apprezzabili insieme anche alle parole sia dei Papi che dei cattolici italiani e tedeschi e di altri cristiani di salvare gli ebrei, o meglio una parte di essi, nessuna confessione scomunicò, vietò con presa di posizione ufficiale le leggi che discriminavano i loro fratelli maggiori, gli uomini che come Cristo recitavano lo Shemà Israel e il Padre Nostro; così andò anche con la Shoah. Anche le società cristiane aggredite dal nazifascismo coprirono sorprendentemente tutti i fatti che portarono ad Auschwitz. La denuncia dell’antisemitismo da parte del Papa è un piccolo gesto rispetto a quello che stava accadendo. Non si trattava di una bestia appena svegliatasi ma della storica montagna, di pregiudizi e di persecuzioni, che si frapponevano fra i cristiani e gli ebrei. Della civiltà cristiana che aveva spesso calpestato la sua parte ebraica.
La Chiesa ha vissuto un processo lento e faticoso di riconoscimento (completatosi con la visita in Israele di Giovanni Paolo II) per collocare gli ebrei in un giudizio univoco, per capire finalmente se contava di più la propria radice o il «deicidio». Fini ha messo proprio il dito sulla piaga chiedendosi, col documento del Vaticano del 2000 «Memorie e riconciliazione» se la persecuzione degli ebrei non fosse stata facilitata dallo spirito antiebraico di molti cristiani. È evidente che la risposta è sì. Ma ci vuole coraggio: lo «spirito antiebraico» non è solo antisemitismo. Nella sua forma di discriminazione e persecuzione rappresenta la crisi estrema di una civiltà che ancora oggi soffre una pesante crisi di identità.
Le leggi razziali furono accettate dalla società cristiana, prima di tutto italiana con acquiescenza, negazione, complicità. Questo non vuol dire che anche nella mia famiglia non dobbiamo ringraziare dei religiosi cristiani per avere salvato molti ebrei. La gratitudine è profonda, ripetuta e istituzionalizzata persino a Yad va Shem e nello stato d’Israele. Ma qui, lo si capisca infine, siamo di fronte a un nodo identitario del cristianesimo. La discriminazione, la persecuzione e poi la Shoah, stanno nel cuore di un rapporto irrisolto della storia della nostra civiltà, che oggi deve lottare per salvarsi, e quindi deve essere forte. Il lavoro degli ultimi due Papi ha affinato teologicamente la consapevolezza del genocidio, che diventa tema di fondo, mi sembra abbiano detto, quando si presenta dentro il proprio corpo.

Dalla prima pagina e da pagina 15 del RIFOMISTA, "Fini non ha tutti i torti, anzi", di Giampaolo Pansa 

La madre superiora di un convento consegna alla polizia di Salò due vecchie signore ebree. Un'altra suora fa arrestare il medico dei poveri e il fratello, anche loro ebrei. La folla saccheggia la casa di una famiglia ebrea un attimo dopo la cattura. Sono appena tre casi fra i tanti. Ma ci obbligano a pensare che non abbia torto Gianfranco Fini nella sua analisi cruda del diffuso antisemitismo di una parte degli italiani.
È sufficiente grattare sotto la crosta della retorica per avere la prova che il leader di Alleanza nazionale ha messo il dito nella piaga. Cito le sue parole: «Dovremmo ammettere che alla base della mancata reazione della gente alle leggi razziali ci furono elementi scomodi da riconoscere. Penso alla propensione al conformismo. Penso a una possibile condivisione, sotterranea e oscura, negata ma presente, dei pregiudizi e delle teorie antiebraiche».
Non mi interessa strologare sul perché Fini lo abbia detto. E se accusando la Chiesa e la società italiana vada in cerca di altri imputati, come sospetta il gesuita Giovanni Sale. È più utile rievocare qualche episodio, accaduto in due città.
La prima è la mia: Casale Monferrato. Qui gli ebrei erano arrivati dalla Spagna nel 1492, l'anno della scoperta dell'America. Un secolo e mezzo dopo, per volontà dei Savoia, nacque il ghetto. Stava nel centro cittadino in quella che si chiamò subito la Contrada degli ebrei. Era sbarrato da due cancelli e aveva la sinagoga, un tempio splendido che esiste ancora, in vicolo Salomone Olper. Sempre i Savoia avevano ordinato che gli israeliti portassero il "segno": una corda gialla attraverso il petto.
Alla fine del Settecento gli ebrei di Casale erano novecento, su una popolazione di 12mila abitanti: la seconda comunità del Piemonte, dopo Torino. Nell'autunno 1938, al momento delle leggi razziali, gli israeliti presenti in città si erano ridotti a poco più di cento. Molti erano emigrati a Torino e a Milano, dove era più facile trovare lavoro.
Dopo l'armistizio del settembre 1943, per molti si aprirono le porte dell'inferno. Anni fa mi impegnai in una ricerca e scoprii che almeno settanta degli ebrei casalesi o residenti nella città vennero catturati e morirono quasi tutti nei campi di sterminio tedeschi. A Casale le razzie furono due, il 12 febbraio e il 13 aprile 1944. E ci pensarono i poliziotti del commissariato cittadino. Giravano per il ghetto, ma anche nelle vie esterne, a bordo di una Balilla nera. La chiamavano lo Squalo, silenzioso e perfido.
Anche da noi, chi non era ebreo si voltò dall'altra parte e finse di non vedere. Sparivano persone ben conosciute, spesso anziane, e nessuno diceva niente. In quel buio si comportò in modo nefando la superiora dell'Istituto delle suore domenicane di Santa Caterina da Siena. Aveva dato ospitalità a due sorelle di Asti, Vittorina e Faustina Artom, di 75 e 73 anni. Ma quando scattò la razzia di aprile le consegnò alla Balilla nera.
Perché lo fece? Per cattiveria, per fastidio, per paura di essere denunciata? Sta di fatto che le sorelle Artom finirono a Fossoli e di qui nelle camere a gas di Auschwitz. Quando lo seppe, il vescovo di Casale, monsignor Giuseppe Angrisani, convocò la superiora, la maltrattò con asprezza e le tolse la guida dell'istituto. La suora fece una brutta fine. Colpita da un male incurabile, morì in una cella del convento.
Un'altra suora cattiva fece catturare il dottor Riccardo Fiz, conosciuto come il medico dei poveri. Andava per i 75 anni e si era rifugiato nell'ospedale Santo Spirito, insieme al fratello Roberto, un geometra di 71 anni. Sempre durante la razzia di aprile, la suora li obbligò a uscire dalla stanza dove stavano nascosti. E li consegnò ai becchini della Balilla nera.
Non erano tutti così i religiosi di Casale. Monsignor Angrisani si rivelò un presule coraggioso, capace di tener testa ai tedeschi, ai fascisti e ai partigiani. I sacerdoti della cattedrale avevano battezzato otto bambini ebrei, su richiesta delle famiglie che speravano di sfuggire in quel modo alle leggi razziali. Ricevettero il battesimo anche otto adulti. Avevano abiurato, scegliendo di farsi cattolici. Non sapevano che per i tedeschi pure l'ebreo convertito restava un nemico.
Ma nemmeno nella mia città ci fu un rifiuto compatto ed esplicito delle persecuzioni. Gli ebrei non godevano di molte simpatie fra la gente. Persino quelli poveri erano ritenuti ricchi. E persone grette, avide, avare. Se rifiutavo un giocattolo a mia sorella, la nonna mi rimproverava strillando: «Non fare l'ebreuzzo!». Anche chi non era fascista alzò le spalle di fronte allo sterminio.
Altrove accadde di peggio. A Reggio Emilia la questura prelevò i pochi ebrei rimasti il 3 dicembre 1943. Tra gli arrestati c'erano le tre sorelle Corinaldi: Bice di 70 anni, Ada di 66 e Olga di 55. Le presero nella loro casa di viale Monte Grappa. Piangevano mentre gli agenti le caricavano sopra un camion. A osservare quel che accadeva si era raccolta sul viale una piccola folla silenziosa. Non appena l'autocarro scomparve, la gente andò all'assalto dell'alloggio. E si portò via tutto: biancheria, quadri, mobili, il servizio da tavola, persino i vasi dei fiori.
Nel leggere le parole di Fini, mi sono domandato ancora una volta che cosa pensassero i testimoni delle razzie e delle deportazioni. Intendo i vicini di casa degli ebrei catturati, i conoscenti, gli inquilini del palazzo di fronte, i cattolici laici e i sacerdoti. E per tornare alla mia città, gli stessi guardiani del carcere giudiziario di via Leardi.
Dovevano spalancare le celle davanti ai volti atterriti dell'anziana insegnante, del fondatore della squadra di calcio, del negoziante che aveva servito anche loro. Come Sanson Segre, un commerciante vicino ai novant'anni che per il diabete aveva perso un piede. Tutti uccisi ad Auschwitz.
Certo, me lo sono domandato. Ma incontrando soltanto il silenzio. Lo stesso che circondò il ritorno dei pochi ebrei sopravvissuti. Non potevano rivendicare medaglie. Non avevano partiti che li rappresentassero. Né sindacati pronti a difenderli. Non erano reduci di nessuna guerra. Avevano fatto sì degli sbarchi, «ma soltanto sulle rive dell'Aldilà», come scrisse Giacomo Debenedetti, grande intellettuale ebreo.
Per questo plaudo alle parole di Gianfranco Fini. E lo incoraggio a non fermarsi nella ricerca della verità.

Da pagina 14 del CORRIERE della SERA, l'articolo di Paola Di caro "L'amarezza di Gianfranco: nessun attacco, lo dice la storia"
ROMA — Alla fine c'è stato anche il chiarimento, o comunque l'illustrazione dei rispettivi punti di vista. Perché ieri sera, alla Camera, Gianfranco Fini ha incontrato Monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Academia per la vita. E gli ha spiegato quello che in queste tormentate ore sta assicurando a tutti i suoi interlocutori: non c'era nessun «disegno» politico, nessuna voglia di aprire «una polemica gratuita» contro il Vaticano nelle sue parole di due giorni fa, che hanno provocato la vibrante protesta dei vertici ecclesiastici e non solo. Quell'uscita — quel suo «nemmeno la Chiesa cattolica, salvo talune luminose eccezioni» fece abbastanza per contrastare le leggi razziali —, altro non è stata che «un'analisi storica », nemmeno così nuova o contestata, e in qualche modo affrontata dalla Chiesa stessa, se è vero che il documento che ha ispirato il presidente della Camera è un testo della Commissione teologica internazionale del 2000 intitolato proprio «Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato».
Non solo: tra i documenti che hanno ispirato la riflessione, c'è anche un numero proprio dell'Osservatore Romano del 15 gennaio del 1939 in cui, per la prima volta dal varo delle leggi razziali (dicembre 1938), si affronta indirettamente il tema. Come? Con la pubblicazione dell'omelia dell'Epifania dell'allora Vescovo di Cremona Giovanni Cazzani che tutto era tranne una presa di distanza dall'antisemitismo: «Un vero cattolico — è uno dei passaggi— non ha domestici ebrei, o balie ebree, non accetta maestri ebrei» e ancora «la Chiesa ha fatto fa di tutto per impedire matrimoni tra ebrei e cattolici».
Dunque, sono i fatti a parlare, è l'opinione di Fini, non altro. «Perché avrei dovuto a freddo sfidare i vertici vaticani, quale tornaconto politico ne avrei dovuto avere?», è la domanda retorica di Fini. Un Fini che, anche dopo l'incontro con l'alto prelato (programmato da tempo, visto che Monsignor Fisichella ha visitato Montecitorio per benedire il presepe), non cambia dunque idea sulla liceità, per un presidente della Camera, di intervenire anche su temi delicati che riguardano la storia nazionale. E non chiede scusa. Piuttosto Fini, esasperato da quello che ritiene «un inutile esercizio di interpretazione delle mie parole» sui temi più svariati — dal rischio liderismo nei partiti moderni alla necessità del dialogo istituzionale —, si chiede come mai se a fare certe analisi basate comunque su filoni storiografici consolidati è lui, scoppia il pandemonio. E non accetta quello che tra le righe gli rimprovera l'Osservatore Romano, e cioè che un post-fascista non dovrebbe accusare gli altri di aver fatto poco contro il fascismo. Non ci sta perché, è la riflessione del numero uno di An, proprio a lui che «più di qualunque altro leader della destra» ha fatto gesti e pronunciato parole di condanna durissime su fascismo e antisemitismo, non si può chiedere di tacere e non esprimersi anche sugli errori degli altri. «Io i miei passi, i miei strappi li ho fatti. Io...».
E però, non sembra che i suoi uomini abbiano capito, o comunque accettato, la mossa del leader. In An è calato un gelido silenzio sulla vicenda, che non cela il disorientamento, lo sconcerto, anche la rabbia per una uscita che «non si capisce a cosa serva », che «ci mette contro il Vaticano » e nessuno minimamente si aspettava. Si limita a un sorriso Alemanno, non parlano gli altri big del partito, che già si sentirono traditi da Fini quando scelse, irritando molto le gerarchie ecclesiastiche, di sostenere il referendum abrogativo della legge sulla fecondazione assistita. Allora come ora, non sembra che il leader se ne preoccupi più di tanto.

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