I silenzi di un paese intero - Discriminare in quel periodo era il pensiero dominante
Riportiamo di seguito integralmente il discorso del presidente della Camera Gianfranco Fini al convegno “Settant’anni dalle leggi antiebraiche e razziste, per non dimenticare”, nella sala della Regina a Montecitorio.
Dal sito della Presidenza della Camera:
Rievochiamo oggi una pagina vergognosa della storia italiana. Le Leggi antiebraiche e razziste approvate nel 1938 e che hanno rappresentato uno dei momenti più bui nelle vicende del nostro popolo. Approfondiremo quel triste capitolo storico con l’aiuto di Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dello storico Michele Sarfatti e di Nedo Fiano, testimone dell’orrore di Auschwitz. Una testimonianza sulla necessità di mantenere viva la memoria di quegli eventi presso i giovani ci verrà dalla studentessa Zoe Brandizzi. Saluto e ringrazio gli oratori per l’importante contributo che si apprestano a fornire al convegno. Settant’anni fa, gli ebrei italiani furono colpiti, come uomini e come cittadini, da provvedimenti che stabilirono assurde discriminazioni nella vita economica e civile; l’allontanamento dagli uffici pubblici, dalle banche e dalle assicurazioni; o la proibizione di avere dipendenti o di possedere terreni e aziende. Particolarmente odiose furono le discriminazioni ai danni dei bambini e dei ragazzi o quelle che prevedevano il divieto dei matrimoni misti. Un esempio tra i tanti Rita Levi-Montalcini, Premio Nobel e Senatore a vita. A causa del “Manifesto della razza” dovette abbandonare patria, famiglia , affetti, sicurezze e lavoro; l’ospedale presso cui lavorava. Tutto. E trovare rifugio in Belgio, attrezzando in cucina un piccolo laboratorio di fortuna. Poi, l’invasione nazista; il rifugio ancora in Italia,a Firenze; sulle colline di Asti e infine a Torino. La professoressa Levi-Montalcini fu tra quanti – con le parole di Primo Levi- “sperarono di poter sopravvivere per poter raccontare”. Con la memoria di questa infamia dobbiamo fare i conti, dopo settant’anni, come nazione e come cittadini. Farli senza infingimenti e senza ambiguità. Il fatto che tali provvedimenti siano stati approvati a Montecitorio provoca un sentimento di tristezza, pur nell’ovvia considerazione che la Camera dei deputati della Repubblica italiana non ha nulla a che vedere con l’Assemblea che il fascismo aveva svuotato di qualsiasi contenuto democratico. La circostanza verrà ricordata in una lapide che sarà scoperta in questa Sala al termine del convegno. Vogliamo che il ricordo della vergogna di settant’anni fa sia di ammonimento per difendere e promuovere sempre i valori libertà e dignità della persona sanciti dalla Carta costituzionale italiana. Oggi fare seriamente i conti oggi con l’infamia storica delle Leggi razziali significa avere il coraggio di perlustrare gli angoli bui dell’anima italiana. Il che vuol dire sforzarsi di analizzare le cause che la resero possibile in un Paese profondamente cattolico e tradizionalmente ricco di sentimenti d’umanità e solidarietà. Tra queste cause c’è certamente l’anima razzista che il fascismo rivelò pienamente nel 1938, ma che era comunque già presente nell’esasperazione nazionalistica che caratterizzava il regime. Segni inequivocabili di razzismo s’erano già manifestati nella politica coloniale. Vale la pena ricordare la campagna propagandistica - “faccetta nera” - che fu lanciata subito dopo la guerra d’Etiopia contro quella che era definita la “piaga del meticciato”. Un Regio Decreto del 1937 vietò le “relazioni matrimoniali” tra gli italiani e quelli che erano chiamati i “sudditi delle colonie africane”. L’odiosa iniquità delle Leggi razziali si rivelò in modo particolare a quegli ebrei che avevano aderito al fascismo. Tra i nomi più noti c’è quello di Guido Jung, che era stato ministro delle Finanze tra il 1932 e il 1935. Oppure quello di un intellettuale come Ettore Ovazza, che aveva partecipato alla fondazione del Fascio di Torino e che nel 1937 aveva confutato un libello antisemita di Paolo Orano. Ma l’ideologia fascista non spiega da sola l’infamia. C’è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata, nel suo insieme, alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno da parte della Chiesa cattolica. A giustificazione potremmo addurre il carattere autoritario del regime - che certo non tollerava manifestazioni di esplicito dissenso - oltre naturalmente alla propaganda pervasiva e al controllo totale dell’informazione e ancor più dell’educazione e dell’istruzione esercitato per un quindicennio. Però dovremmo anche riconoscere che alla base della mancata reazione della popolazione ci furono altri elementi che può risultare scomodo riconoscere. Penso alla propensione al conformismo. Penso ad una possibile condivisione - sotterranea e oscura, negata ma presente – di una parte della popolazione dei pregiudizi e delle teorie antiebraiche. Penso soprattutto a una vocazione all’indifferenza più o meno diffusa nella società di allora. Proprio “Gli Indifferenti” si intitolava il romanzo d’esordio di Moravia, pubblicato nel 1929, con il quale lo scrittore dipingeva quella che a lui appariva già allora come l’inerzia morale della società borghese italiana di fronte all’essenza della persona umana. Lo ricordo perché rileggere gli scrittori può servire a cogliere quelle significative sfumature sociali che possono talvolta sfuggire al meritorio lavoro scientifico degli storici. Denunciare la inequivocabile responsabilità politica e ideologica del fascismo non deve insomma portare a riproporre lo stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli “italiani brava gente” . La memoria - ha scritto Elena Loewenthal – non è di per sé uno “scudo inossidabile di fronte al male”. Non lo è se non sappiamo trasformarla in esperienza storica produttiva di insegnamenti. Ciò non significa ignorare o trascurare il coraggio di quegli italiani che seppero opporsi alla barbarie del razzismo e dell’antisemitismo, soprattutto dopo il ’40 nel tempo orribile della Shoah. I nomi di alcuni di quei valorosi sono noti. Pensiamo a Giorgio Perlasca. Oppure al questore di Fiume, Giovanni Palatucci, che salvò cinquemila ebrei e che pagò il suo coraggio e la sua straordinaria umanità con l’internamento a Dachau, dove morì a soli 36 anni. Oppure al Console di Salonicco, Guelfo Zamboni, che sottrasse centinaia di ebrei al terribile destino della deportazione. A queste personalità straordinarie dobbiamo aggiungere tanti altri italiani, sconosciuti ma non meno straordinari, che si prodigarono per salvare gli ebrei spesso a rischio della propria vita. Vale la pena ricordare che le storie di tanti di quegli umili eroi sono raccolte in un bel libro uscito all’inizio del 2006 per cui ho avuto l’onore di scrivere la prefazione: “I giusti d’Italia”, curato dal direttore del centro ricerche dello Yad Vashem, Israel Gutman. Tutte quelle storie costituiscono motivo di legittimo orgoglio per l’intero popolo italiano. Ricostruire con rigore la vergogna delle Leggi razziali, guardare senza reticenza dentro l’anima italiana non serve soltanto per raccontare il passato nella sua completezza. Serve anche e soprattutto a preservare il nostro popolo dal rischio di tollerare in futuro, tra inerzia e conformismo, altre possibili infamie contro l’umanità. Ha detto il presidente Napolitano, commemorando nel gennaio scorso il Giorno della Memoria che “bisogna ricordare gli atti di barbarie del nostro passato per impedire nuove barbarie, per costruire un futuro che si ispiri a ideali di libertà e di fratellanza fra i popoli”. Ammoniva Primo Levi che un orrore accaduto nel passato può sempre riaccadere nel futuro. Magari non nelle stesse forme e non con gli stessi pretesti ideologici. Dobbiamo avere la consapevolezza che il fanatismo nemico dei diritti dell’uomo, che purtroppo agisce ancora oggi in tante parti del mondo, può dilagare nel torpore delle democrazie. Per questo dobbiamo mantenere sempre desta e vigile la coscienza dei cittadini. Una democrazia vigile e attenta deve saper contrastare con efficacia l’antisemitismo nelle vecchie e nuove forme ideologiche che questo oggi assume. C’è l’antisemitismo esplicito dell’estrema destra e del neonazismo. C’è quello mascherato da antisionismo dell’estremismo no-global e dell’ultrasinistra. E c’è quello, ammantato di pretesti pseudo-religiosi, dell’islamismo radicale. E’ un antisemitismo, quest’ultimo, che tende ad assumere spesso gravi forme terroristiche, come accaduto recentemente a Mumbai, dove i terroristi hanno assaltato anche il Centro ebraico facendo otto vittime. Le Istituzioni devono impedire che, di fronte a questi fenomeni, si producano fenomeni d’assuefazione nell’opinione pubblica. Un campanello d’allarme lo ha lanciato recentemente Angelo Panebianco, quando ha notato, sempre a proposito della tragedia di Mumbai, che presso gli europei tende a manifestarsi indifferenza nei confronti dell’antisemitismo presente in buona parte del mondo islamico, come se fosse inevitabile, quasi naturale. Oggi, come settant’anni fa, un’ideologia che sopprime i diritti dell’uomo e propugna l’annientamento di uno Stato e lo sterminio di un popolo può produrre grandi tragedie e sofferenze nella complicità silenziosa di una società distratta e indifferente. Come ci ha insegnato Hannah Arendt, il mistero della propagazione del male è un mistero banale. In uno dei suoi libri più famosi, che si intitola appunto “La banalità del male”, scritto a proposito del processo ad Adolf Eichmann che si celebrò a Gerusalemme nel 1960, la filosofa così descrisse l’imputato, reo di aver pianificato materialmente la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso. Solo grigio e incolore”. Sono parole che devono scuotere ancor oggi le nostre coscienze, perché il male si può riprodurre. Per questo è un dovere ricordare l’infamia di 70 anni fa. Ricordare. Cioè ri excorde. Riportare al cuore. Perché accanto al giudizio della storia ci sia il dovere morale di una profonda indignazione.
Il discorso di Fini ci sembra importante per vari motivi. Per la negazione dello stereotipo degli "italiani brava gente". Per l'uscita dalla retorica celebrativa della memoria, con l'indicazione dei pericoli concreti dell'antisemitismo di oggi, in particolare di quello islamico che ha motivato l'eccidio di Mumbai. Per la denuncia dell'indifferenza e del silenzio che accompagna questa nuova manifestazione dell'odio antiebraico. Per il richiamo alla mancanza di reazione alle leggi razziali da parte della società italiana; inerzia che, ha ricordato Fini, caratterizzò anche la Chiesa cattolica.
Quest'ultimo passaggio del discorso del presidente della Camera ha suscitato, come prevedibile, le reazioni più forti.
Nella cronaca di Flavia Amabile pubblicata da La STAMPA del 17 dicembre 2008 ("Fini: la Chiesa non si oppose alle leggi razziali", pag. 13) si legge la replica di Radio Vaticana: "Non è vero che la Chiesa italiana non si oppose alle leggi razziali del 1938"
L'articolo "Padre Giovanni Sale "Discorso sconcertante" " , sempre a pagina 13 della STAMPA ,riporta le affermazioni dello storico gesuita Giovanni Sale: " , «la dichiarazione del presidente Fini su presunte responsabilità della chiesa in ordine alla promulgazione delle leggi razziali del 1938, ci sembra un poco sconcertante. Il presidente sottovaluta gli studi recenti sulla materia, basati sulla documentazione dell’Archivio Segreto Vaticano, dai quali risulta che la Chiesa nella persona di Pio XI fece il possibile prima per evitare la promulgazione di una legislazione discriminatoria nei confronti degli ebrei, poi, ma inutilmente, per limitarne gli effetti». Fra l’altro il Papa nel settembre 1938 affermò che «l'antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti»
La tesi di una pubblica opposizione della Chiesa alle leggi razziali è involontariamente smentita dal più papista dei giornalisti italiani, il vaticanista del GIORNALE Andrea Tornielli, che nell'articolo pubblicato a pagina 14 del quotidiano "La Chiesa non restò in silenzio e reagì all'antisemitismo", non cita uno solo esempio di intervento pubblico in Italia: nell'elenco di azioni di Pio XI, il papa durante il cui regno vennero promulgate le leggi razziali, vi sono solo dichiarazioni durante udienze con religosi, e la firma di un appello rivolto ai vescovi americani.
Renato Farina su LIBERO ("Se Fini dà la colpa alla chiesa dei mali dei nonni", pagina 1 e 19), non cita prese di posizioni del Papa, ma prese di posizioni contro il razzismo del vescovo di Milano Ildefonso Schuster e contro il vulnus del concordato da parte del Segretario di Stato (Eugenio Pacelli) e dell'Osservatore Romano. Il vulnus al concordato, è bene chiarire, per la Chiesa si trovava esclusivamente in uno specifico aspetto delle leggi razziali: la proibizione dei matrimoni misti.
Di seguito, l'articolo di Tornielli:
Per Gianfranco Fini l’ideologia fascista «non spiega da sola l’infamia delle leggi razziali». Il presidente della Camera chiama in correità nella vergognosa decisione presa dal governo di Mussolini non soltanto «la società italiana» che si adeguò (e qui Fini forse sorvola troppo in fretta sul fatto che il fascismo era un regime poco propenso alle opposizioni, come insegna il caso Matteotti), ma anche la Chiesa. Leggendo le sue parole si può avere l’idea di una Chiesa cattolica acquiescente nei confronti delle decisioni del Duce. Le cose, però, non stanno affatto così, come ha precisato Radio Vaticana, correggendo Fini attraverso i commenti degli storici Francesco Malgeri e Andrea Riccardi: «La Chiesa reagì subito alle Leggi razziali del 1938». Mentre lo storico di Civiltà Cattolica Giovanni Sale ha dichiarato: «Pio XI è stato la sola personalità pubblica del suo tempo a opporsi apertamente a Mussolini per la sua politica antisemita».
La questione è complessa, densa di sfumature. Pio XI non è rimasto in silenzio, ma ha parlato pubblicamente contro il «Manifesto della razza». Il 15 luglio 1938, il giorno dopo la pubblicazione, durante un’udienza a delle suore, Papa Ratti dice: «Oggi stesso siamo venuti a sapere qualcosa di molto grave: si tratta, ora, di una vera apostasia». E aggiunge parole contro «quel nazionalismo esagerato, che ostacola la salvezza delle anime, che innalza barriere tra i popoli». Il 21 luglio, ricevendo in udienza gli assistenti ecclesiastici di Azione Cattolica, ritorna sulla questione: «Cattolico – dice il Papa – vuol dire universale, non razzistico, nazionalistico, separatistico». Queste ideologie – continua – finiscono «con il non essere neppure umane». Il 28 luglio rivolgendosi agli alunni di Propaganda Fide, Pio XI ribadisce: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali... La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana».
Negli ultimi mesi del 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali, la linea della Santa Sede è quella di cercare di attenuarne gli effetti, come dimostrano le trattative serrate e spesso tesissime, tra Vaticano e governo. La Civiltà Cattolica non condanna pubblicamente la legislazione antisemita, anche se in vari articoli pubblicati in precedenza aveva preso le distanze dalle teorie razziste. Il «silenzio» dell’autorevole rivista dei gesuiti è provocato da un decreto ministeriale che impone «la proibizione di pubblicare commenti sulla questione razziale divergenti dal senso del Governo nazionale». È il fascismo, dunque, a imbavagliare gli organi di informazione cattolici proibendo loro di intervenire contro il manifesto della razza e anche di rendere note le parole già pronunciate da Pio XI. L’8 agosto 1938 Montini, sostituto della Segreteria di Stato, informa il governo americano di questi provvedimenti, in modo che all’estero non si dica che il Vaticano e la stampa cattolica tacciono sui provvedimenti per pusillanimità o per complicità con il regime. Dai documenti degli archivi vaticani risulta dunque che il Papa aveva fatto il possibile per evitare la promulgazione di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, e poi aveva tentato di limitarne gli effetti. In quei mesi la Santa Sede metterà in moto iniziative per aiutare gli ebrei discriminati, chiedendo attraverso le nunziature che fossero accolti in vari Paesi, come dimostrano i dispacci inviati dal Segretario di Stato Pacelli. Su input del cardinale Bibliotecario Mercati, il Papa sottoscriverà un appello in favore degli scienziati e degli studiosi che avevano perso il posto, chiedendo ai porporati d’oltreoceano di favorire il loro inserimento.
Due commenti al discorso di Fini meritano di essere segnalati positiviamente : quello di Pierluigi Battista dal CORRIERE della SERA e quello di Giordano Bruno Guerri dal GIORNALE
Li riportiamo di seguito.
Dalla prima pagina e da pagina 15 del CORRIERE della SERA, "I silenzi di un paese intero" di Pierluigi Battista
L a «non reazione» della Chiesa, certo.
Ma nel '38 e negli anni successivi non reagì, non parlò, non si oppose nessuno. Il silenzio imbarazzato o accondiscendente nei confronti delle leggi razziali promulgate dal fascismo coinvolse cattolici e laici, conservatori e progressisti. Le eccezioni furono rarissime. Gli ebrei vennero lasciati soli, come il padre di Giorgio nel
Giardino dei Finzi-Contini
di Giorgio Bassani, iscritto al Fascio di Ferrara, volontario nella Prima guerra mondiale.
Nel '38 il personaggio di Bassani vide improvvisamente la sua famiglia messa ai margini della società, dal partito, dalle biblioteche, dal circolo del tennis, senza che nessuno, ma proprio nessuno spendesse una parola contro la discriminazione. Vittorio Foa, che mai recriminò contro i coetanei che facevano carriera mentre lui languiva nelle prigioni fasciste, verso la fine della sua vita ruppe il suo riserbo («non so bene perché diavolo lo faccio ») e scrisse: «Non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un'immonda violenza».
Dieci anni fa Giulio Andreotti si chiese perché non si fossero avviate indagini critiche «sul comportamento di senatori come Croce, De Nicola, Albertini, Frassati, che disertarono la seduta del 20 dicembre 1938 facendo passare senza opposizione la legislazione antisemita ». Vero. Ma non risultano commenti altrettanto indignati di Andreotti sulle accuse che padre Agostino Gemelli, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, mosse nel '39 all'indirizzo degli ebrei, «popolo deicida» che «va ramingo per il mondo » a scontare le conseguenze di quell'«orribile delitto ». E a proposito di Croce fa molta impressione leggere, nel libro
L'espulsione degli ebrei dalle accademie italiane di Annalisa Capristo, l'elenco degli intellettuali che risposero con zelo ed entusiasmo al censimento per identificare «i membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti che cesseranno di far parte di dette istituzioni». Bastava una compilazione burocratica e svogliata dei moduli, per chi non avesse avuto il coraggio di sottrarsi a quel compito infame. E invece i Giorgio Morandi e i Gianfranco Contini, i Roberto Longhi e i Natalino Sapegno, i Nicola Abbagnano e gli Antonio Banfi, gli Alessandro Passerin d'Entrèves e i Giuseppe Siri (e centinaia con loro, illustri come loro) vollero sfoggiare «l'aggiunta di esplicite dichiarazioni antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti tenuti nella scheda». Da Luigi Einaudi, che sottolineò orgoglioso «l'appartenenza alla religione cattolica ab immemorabile», a Ugo Ojetti, che fu puntuale fino alla pignoleria: «Cattolico romano, dai dieci ai sedici anni ho servito tutte le domeniche».
Solitaria eccezione, appunto, quella di Benedetto Croce, che rispedì al mittente i moduli della vergogna con impareggiabile sarcasmo: «L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata».
Era già una «persecuzione »: ci voleva poco a capirlo, malgrado i risibili rosari autoassolutori del «non sapemmo » e del «non capimmo».
Mentre Alberto Moravia implorava le autorità fasciste perché gli venisse data la possibilità di continuare a scrivere sulle riviste («sono cattolico fin dalla nascita, mio padre è israelita, ma mia madre è di sangue puro »), Guido Piovene recensiva rapito Contra Judeos di Telesio Interlandi. Il giovane cattolico Gabriele De Rosa (in un «libercolo » che lo storico decenni dopo avrebbe definito «goffo e scriteriato ») inveiva contro «il focolare ebraico» in Palestina, alimentato dal popolo responsabile della crocifissione di Gesù Cristo. Il giovane Giorgio Bocca discettava sui pericoli del piano ebraico di conquista del mondo rivelata dai (falsi) Protocolli dei savi Anziani di Sion. Giulio Carlo Argan, colto collaboratore del regime per la difesa dei beni culturali e artistici, in una corrispondenza del 1939 dagli Stati Uniti dissertava sull'influenza del «potentissimo elemento ebraico» in America. Una fornitissima appendice documentaria apparsa nella seconda edizione del «lungo viaggio» di Ruggero Zangrandi «attraverso il fascismo» descrisse nel 1962 l'ampiezza del consenso servile degli intellettuali alla politica antisemita del regime, ricostruito per la prima volta in quegli stessi anni da Renzo De Felice nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo.
Rosetta Loy, nel suo libro
La parola ebreo, ha definito la «Difesa della Razza» una «rivista dalla grafica aggressiva e anticonvenzionale che aveva tra i suoi finanziatori la Banca Commerciale ». Sandro Gerbi ha confermato che sul quindicinale fossero comparsi «talvolta avvisi pubblicitari della Comit, del credito Italiano, della Ras, dell'Ina e via dicendo», precisando però che quelle inserzioni erano il frutto di «chiare direttive "superiori" del Minculpop e non di scelte autonome e di dirigenti delle singole aziende». Non furono scelte «autonome». Ma furono o no, anch'esse, l'esito di una tacita «non reazione»?
«Non reagirono» gli scrittori che, come è documentato dall'Elenco di Giorgio Fabre, non si rifiutarono di firmare i manuali e le antologie scolastiche al posto degli autori ebrei il cui nome era ostracizzato e dannato. Non reagirono i docenti universitari che ereditarono le cattedre lasciate vacanti dai colleghi estromessi a causa della legislazione antisemita. Roberto Finzi ha rivelato che per Ernesto Rossi, in carcere, la cacciata dei docenti ebrei avrebbe rappresentato «una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi». Rossi non si sbagliava: l'«affollamento » fu macroscopico, corale, macchiato solo da qualche residuale caso di coscienza. Un capitolo controverso di viltà collettiva che faticherà a chiudersi anche nell'Italia democratica. Alberto Cavaglion ha ricordato che la cattedra di letteratura italiana sottratta ad Attilio Momigliano sotto l'effetto delle leggi razziali «dopo la fine della guerra sarà sdoppiata perché fosse restituita a chi era stato illegittimamente cacciato, ma anche per non scomodare chi al suo posto era tranquillamente subentrato». Chi, in altre parole, non aveva «reagito» nel '38 e negli anni successivi non perderà la cattedra. E del resto le leggi razziali saranno completamente e radicalmente soppresse solo nel 1947, con una lentezza che forse tradì il turbamento per non aver saputo contrastare, coralmente e individualmente, l'abiezione della legislazione antiebraica. La vergogna per non aver «reagito»: con poche, ammirevoli, sporadiche eccezioni.
Dalla prima pagina e da pagina 15 del GIORNALE, l'articolo di Giordano Bruno Guerri "Discriminare in quel periodo era il pensiero dominante".
Uno dei compiti che in Italia toccano agli storici del fascismo - volenti o nolenti - è fare da commissione esaminatrice alle dichiarazioni dei politici riguardo al ventennio. L’onorevole Gianfranco Fini è stato sottoposto più volte a questo procedimento, con mutevoli risultati. Stavolta mi sembra di poter dire che ha pienamente ragione. È vero, la società italiana si è «adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica», salvo luminose eccezioni fra le quali è il caso di citare Filippo Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli e Italo Balbo. Non fa onore agli italiani di allora, però bisogna tenere conto del contesto storico. A parte che le decisioni del regime non potevano essere discusse («Mussolini ha sempre ragione»), c’è da considerare due elementi fondamentali.
Il primo è banalissimo, nella sua crudele e banale ovvietà: nel 1938 non c’era ancora stato l’Olocausto, nessuno poteva immaginare gli orrori dei campi di sterminio. Inoltre, il razzismo fascista non veniva presentato come persecuzione (anche se lo era) bensì come discriminazione: una discriminazione che gli italiani avevano già accettato - certi di essere nel giusto - nei confronti di libici e etiopi, i popoli «conquistati». Del resto, non usavano gli stessi metodi, nelle loro colonie, inglesi, francesi, spagnoli, portoghesi, olandesi eccetera? Si poteva fare lo stesso, questo il pensiero dominante, per «poche decine di migliaia di ebrei»: italiani, sì, ma «diversi».
Un altro elemento che contribuì alla passività (e a volte all’entusiastica accettazione) rispetto alla legislazione razziale fu l’atteggiamento del Vaticano. Fini si è limitato a sostenere che non ci furono «manifestazioni particolari di resistenza da parte della Chiesa cattolica». È vero. La Chiesa si oppose alla politica antiebraica esclusivamente quando ledeva il suo ambito di azione, ovvero quando impedì il matrimonio - cristiano - fra un cattolico e un ebreo. Difese, cioè, i propri diritti, non quelli dell’essere umano, e tanto meno quelli degli ebrei. Gianfranco Fini avrebbe potuto aggiungere, senza timore di venire smentito, che la Chiesa aveva alimentato nei cattolici di tutto il mondo un sentimento antiebraico, sia pure per motivi religiosi, non razziali. Un fascista/razzista fanatico come Roberto Farinacci poté tranquillamente sostenere che era stata proprio la Chiesa a instillare negli italiani l’avversione agli ebrei. Erano stati i papi, secoli prima a costringere le comunità ebraiche nei ghetti, e obbligarle a portare segni distintivi e quindi infamanti, a limitare la loro possibilità di guadagno a lavori che avrebbero suscitato odio o disprezzo verso di loro, come il prestito a usura o la raccolta di stracci. Per secoli i papi avevano mantenuto un rito consistente nel dare un pubblico calcio (neanche tanto simbolico) a un rappresentante della comunità ebraica. E solo molti anni dopo le leggi razziali, e il fascismo, è stata eliminata dal messale l'espressione «perfidi giudei». C’è di più. Prima e durante il fascismo, le riviste cattoliche - specialmente quelle dei gesuiti, che davano il la a tutte le altre - attaccarono costantemente gli ebrei in quanto «popolo deicida», meritevole della punizione divina e umana.
Un razzismo di fondo era dunque sedimentato nella coscienza del popolo italiano, e favorì la passiva accettazione delle leggi antiebraiche, che spesso divenne anche entusiasta partecipazione, altre volte un più umano e cristiano sentimento di pietà e di solidarietà. È vero, dunque, che un atteggiamento genericamente autoassolutorio non serve a evitare di cadere ancora in simili errori, anzi.
www.giordanobrunoguerri.it
Altri commenti dei giornali del 17 dicembre alle dichiarazioni di Fini sono riferiti al seguente link:
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=26987
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