Le donne afghane nel mirino di Al Qaeda e dei talebani reportage di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 16 dicembre 2008 Pagina: 5 Autore: Giulio Meotti Titolo: «I talebani le stanno cercando»
Da pagina 3 dell'inserto del FOGLIO del 16 dicembre 2008, riportiamo l'articolo di Giulio Meotti "I talebani le stanno cercando":
Una aveva fondato a Kabul una scuola di musica senza nome e insegne. I maschi entravano dalla porta principale, le ragazze da quella posteriore, per il timore di attentati e dell’acido solforico che i talebani gettano in faccia alle ragazze che vanno a scuola, perché “un uomo non dovrebbe udire la voce di una donna”. Come è appena successo a Kandahar. Un’altra promuoveva l’alfabetizzazione in edifici di fortuna dai muri di argilla, paglia e sterco. E così via. Sono cinque le donne-simbolo che dal 2001 hanno sfidato il fondamentalismo islamico dei talebani, gli studenti coranici impegnati a edificare la più pura delle teocrazie e a spegnere ogni luce in Afghanistan. Quelle donne sono state tutte uccise. Ma i conti dei tagliagole non tornano. Perché una nuova generazione di icone rosa ha preso il loro posto. Sono magistrati, giornaliste, artiste, educatrici, medici, parlamentari. E sono già state condannate a morte. Di notte i talebani affiggono lettere di minaccia sulle loro case e gli americani devono proteggerle perché la sicurezza locale non è all’altezza. A una di loro telefonano ogni giorno: “Ti uccideremo”. Molte colleghe sono finite così. Shaima Rezayee aveva soltanto 24 anni, era la conduttrice del programma “Hop” sulla prima tv indipendente afgana quando è stata freddata con un colpo alla testa. Raccontava con orgoglio che “quando la gente mi riconosce per strada ci sono molti che mi insultano, ma molti di più sono quelli che mi incoraggiano”. Safia Amajan è stata uccisa perché dirigeva il dipartimento Affari femminili. Un compito a dir poco rischioso a Kandahar, la culla del talebanesimo. Già negli anni bui in cui le donne erano private di ogni diritto, Safia gestiva scuole segrete per ragazze che sfidavano il potere delle famiglie e l’islamismo. Prima di morire, Safia aveva fondato sei scuole a Kandahar, insegnando a oltre mille donne cultura di base, cucito e cucina. Poi c’era Malalai Kakar. Era entrata in accademia nel 1982. Durante il regime dei talebani le era stato impedito di lavorare. Ma lei non si era lasciata scoraggiare, così, dopo la caduta degli studenti del Corano, Malalai fu la prima a indossare di nuovo la divisa. Scampata a molti tentativi di assassinio, Malalai Kakar divenne famosa quando uccise tre islamisti che volevano attentare alla sua vita. Ogni mattina Malalai, che si vantava di essere “l’unica donna armata a Kandahar”, controllava le scritte sui muri di casa. Se c’erano minacce, faceva uscire i figli in fretta per andare a scuola. Era la più alta in grado fra le donne poliziotto e aveva iniziato a quindici anni quando ancora c’erano i sovietici. “Non è un mestiere facile”, ripeteva. “Ma è importante che noi donne lo facciamo se vogliamo diventare parte del nuovo Afghanistan”. Un giorno prende parte a una offensiva contro una base di al Qaida. I colleghi la abbandonano sotto il fuoco nemico assieme ad altri tre. Lei resiste, spara, i guerriglieri islamici mollano. Malalai torna in caserma e raduna i colleghi fuggitivi: “Non basta aver la barba per aver coraggio”. Toccava sempre a lei in ospedale assistere le donne che nessun medico uomo vuole anche solo sfiorare. Toccava a lei far irruzione nelle case per liberare le “mogli della vergogna”, incatenate perché abbandonate dai mariti. Sempre a lei toccava soccorrere le donne lasciate in fin di vita sul luogo degli incidenti o le testimoni inascoltate di uno stupro. “I talebani mi odiano, ma le donne afghane mi amano”. Il 28 settembre scorso Malalai Kakar è stata assassinata come avevano promesso. Ma dopo pochissimi giorni c’era già un’altra donna al suo posto. Che non fornisce il nome completo: è nota soltanto come “Parwana”. Spiega Abdul Khaliq Hamdard, capo della polizia criminale di Kandahar, che “Parwana continuerà il lavoro perché è molto coraggiosa, è una donna saggia”. Ma lei dice di aver paura anche soltanto a uscire di casa. “Ogni giorno che vado al lavoro penso, ‘oh, ora qualcuno mi uccide’. Quando torno a casa penso la stessa cosa”. La sua nomina non è pubblica. L’Afghanistan non ha bisogno di donne martiri, ma di donne vive che continuano a battersi. “Di recente una donna anziana mi è venuta a trovare a casa. Mi ha detto, ‘qualcuno sta parlando di te, sanno il tuo nome, ripetono uccideremo anche Parwana’. E io lo so, uccideranno anche me”. Parwana è madre di quattro bambini, il primo marito è morto contro i mujaheddin, il secondo su una mina due anni dopo. Parwana oggi ripete “I’m alive”, sono viva, non darà mai tregua ai barbari. “Moltissime volte mi chiamano e mi dicono, ‘lascia il lavoro o ti uccideremo’”. Parwana scompare di nuovo dietro al burqa quando esce di caserma per occuparsi di quel terzo di donne vittima di violenza domestica e delle centinaia che si danno fuoco per sfuggire a violenze. Al suo fianco oggi c’è una ragazzina di diciannove anni, si fa chiamare “Shafoqa”. I talebani lei li ha ribattezzati “quelli che uccidono per nulla”, sono gli stessi che le hanno conficcato una fatwa sulla porta di casa dei genitori. E’ la più brava tiratrice di tutto il paese. Il generale Nasrullah Zarife dice che “Shafoqa non ha paura di niente”. Eppure sa che può fare la fine di Bibi Hoor, uccisa a Herat dopo aver ignorato le minacce di morte, prima donna poliziotta a morire. La first lady Laura Bush ha appena tenuto un discorso in occasione del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. “In Afghanistan ci sono donne che lavorano per vincere gli anni dell’oppressione e garantire i diritti basilari. Dal 2001, milioni di afghani hanno votato in due elezioni democratiche e il quaranta per cento erano donne. Oggi le donne compongono il 28 per cento del Parlamento, rivestono incarichi in ogni settore, dal giornalismo alla polizia. E sei milioni di bambini, incluse due milioni di femmine, sono a scuola”. Eppure l’oppressione non è svanita con la Costituzione che garantisce uguali diritti a uomini e donne. Sono donne riconoscenti dello sforzo americano e occidentale. Safia Amajan aveva definito George W. Bush “un leader che vuole dare un’educazione alle giovani donne dell’Afghanistan”. Troppo, per chi invece il presidente americano nei comunicati lo chiama “cane crociato”. A rischiare la propria vita è Shukria Barakzai, la giornalista e politica che dichiarò guerra ai fondamentalisti islamici dopo che la polizia religiosa del mullah Omar l’aveva picchiata perché aveva osato camminare senza accompagnatore maschile. “Quando lascio la mia casa per andare al lavoro, non sono così sicura di ritornarci”. Il governo l’ha già messa in guardia: un attentato suicida viene preparato contro di lei. C’è la parlamentare Malalai Joya, sospesa dall’incarico per aver definito alcuni colleghi “allevatori di animali”. Joya è scampata a quattro attentati. “Se dovessi morire, il mio sangue servirà alla causa dell’emancipazione. Puoi uccidere un fiore, non puoi fermare la primavera”. Era il dicembre 2003 quando Malalai prese la parola sotto il tendone bianco alla periferia della capitale, dove si erano riuniti mullah, mujaheddin e capi tribù nella Loya Jirga. “Il mio nome è Malalai Joya. In nome di Dio e dei martiri caduti sul sentiero della libertà, vorrei parlare un paio di minuti”. Tutto cambiò. E’ minacciata Fatima Gailani, fondatrice dell’Afghanistan Women Council, ex rifugiata col burqa in Pakistan tornata per lavorare alla stesura della “Costituzione islamica democratica, che tenga conto dei diritti umani e di quelli delle donne”, la carta approvata nel 2004 e bollata come “apostata” dagli sgherri di Bin Laden. Per il suo lavoro di “infedele”, Gailani è in cima alla black list dei guerriglieri. Ma è piena di speranza, basti pensare che per le elezioni del 2009 si sono già registrate 63 mila donne nella sola provincia di Paktia, fra le più conservatrici. D’altro canto era stata una ragazza la prima elettrice delle prime elezioni della storia afghana nel 2004. La deputata Tooarpekay, la sola parlamentare donna della provincia di Zabul, quando decise di presentarsi alle elezioni per rappresaglia i talebani le uccisero il fratello. Soraya Sobhrang ha commesso l’affronto di lavorare accanto alle donne in ospedale come ginecologa e di accettare la guida del dipartimento femminile della commissione dei Diritti umani. Oggi può significare vita o morte il fatto di fare l’infermiera o frequentare un corso in medicina neonatale a Kabul e tornare nel proprio villaggio nello Nuristan. Com’è successo a Wahida: ha deciso di diplomarsi dopo aver visto una zia morire di parto poiché i religiosi si erano limitati a chiamare un’anziana per recitare alla gestante versi del Corano. Habiba Sarabi è una leader hazara ed è governatrice di Bamiyan. Gli hazara furono trucidati a migliaia dai talebani. Alcune di queste donne hanno appena rilasciato una conferenza stampa a Kabul. Non erano ammessi i fotografi perché i loro volti non dovevano comparire. “Se una donna fosse catturata dai talebani, le taglierebbero la testa” ha detto Massouda Jalal, la sua fondazione lavora per i diritti delle donne. “La mia filosofia è che se sei nato, un giorno morirai. E perché allora non morire da ideale per gli altri?”. Jalal è l’unica ad aver accettato di rendere pubblica la propria faccia. Gli afghani non sono in grado di proteggere Marya Bashir da al Qaida. E’ agli americani che è stata affidata la protezione di questa paladina del diritto di 38 anni, unico procuratore generale donna di tutto il paese. Si muove con sei guardie del corpo e auto blindate. “Da quando sono stata nominata, ogni giorno è peggio”. C’è anche Runa Tareen, è a capo del dipartimento femminile della provincia di Kandahar. Le giornaliste sono state avvertite con il duplice omidicio di Zakia Zaki, direttrice di Peace Radio, e della presentatrice televisiva Shakiba Sanga Amaj. Zakia dirigeva anche una scuola nel villaggio di Jabal Seraj e aveva sei figli. Dormiva al fianco del più piccolo di venti mesi quando i decapitatori hanno fatto irruzione in camera da letto e le hanno scaricato sette colpi nel petto e nel cranio davanti agli occhi di un altro figlio. Zakia aveva la benedizione di Ahmed Massoud, capo antitalebano ucciso alla vigilia dell’11 settembre 2001 da Osama bin Laden. Nel mirino c’è oggi la giornalista Nelofar Habibi, ha soli 22 anni ma è già stata pugnalata dopo essere minacciata di morte. “Degli uomini mi hanno costretto a salire in auto e mi hanno tagliuzzato il braccio. Mi hanno detto che se mi avessero visto ancora in tv mi avrebbero ucciso”. Bombe sono state lanciate contro la casa della presentatrice Khadija Ahad. E’ un obiettivo la diciottenne Lima Sahar, si è aggiudicata il ruolo di protagonista della serie televisiva “Afghan Star”. Accusata di “oltraggio alla sharia” da chi ammette soltanto le nenie coraniche recitate da voci bianche maschili. Le basi talebane sono ancora oggi spesso contrassegnate da nastri neri delle cassette di musica appesi ai lampioni. Lima lavorava come domestica presso un capo mujaheddin. Non sa scrivere e legge a stento. Ma è l’usignolo dell’Afghanistan. “Allah mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno” dice con una certa incoscienza. Malalai Kakar era la sua protettrice. Farida Nekzad dirige Pajhwok Afghan News, l’unica agenzia di stampa indipendente. Riceve minacce ogni giorno. E’ lei il volto più noto della libertà di stampa. Tutto iniziò il giorno del funerale di Zakia. Le telefonarono avvertendola che avrebbe fatto la stessa fine. “Figlia dell’America! Ti uccideremo”. Farida resta. “Perché possiamo portare il cambiamento con la nostra presenza. Resto per il futuro, per il mio paese, per le donne”. Mary Akrami ha commesso il crimine di spiegare il Corano alle bambine. “Non vogliamo che le donne imparino l’interpretazione del Corano dei mullah secondo i loro interessi”. Mary ha paura, ma continua a lottare perché quest’anno gli studenti sono stati sei milioni, contro il misero milione del 2000. E se 600 scuole sono state distrutte dai talebani, 3.500 sono state costruite dal 2002. Sakeena Jacobi dirigeva scuole femminili clandestine quando un editto talebano vietava loro di uscire di casa. Per il suo lavoro è stata elogiata da Bush e Clinton. Oggi è a capo dell’Afghan Institute of Learning, ha aiutato 350 mila bambine a ricevere un’istruzione. Sakeena sa che nel solo 2008 gli addetti alla scuola assassinati sono stati 120. E’ ancora lungo l’elenco delle eroine. Mahbooba Ahadyar, unica atleta afgana alle competizioni olimpiche in Cina, corre in tuta da ginnastica sulle colline che circondano Kabul sotto gli sguardi allibiti degli anziani. Impossibile restare indifferenti alla storia di Nadia Anjuman. Pur di studiare letteratura, attività proibita dalla Stasi talebana, Nadia rischiò prigione e tortura. Poi i talebani sono caduti, ma lei è stata raggiunta lo stesso e uccisa per i suoi versi. Raccontava che “le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia. E’ difficile la strada che ho davanti a me e i miei passi non sono ancora, abbastanza, fermi”. La paura e il dolore quotidiano, la ferocia nemica, i tanti incredibili successi e l’orgogliosa resistenza di queste donne “normali” sono uno dei racconti più belli della nostra guerra al terrore.
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