Se la Chiesa inizia a denunciare la persecuzione anticristiana in Pakistan l'analisi di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 14 dicembre 2008 Pagina: 3 Autore: Carlo Panella Titolo: «Perché anche il Papa di Ratisbona tiene d’occhio il Pakistan»
A pagina 3 del FOGLIO del 14 dicembre 2008, Carlo Panella spiega "Perché anche il Papa di Ratisbona tiene d’occhio il Pakistan". Una parte della Chiesa cattolica non vuole dimenticare le violazioni della libertà religiosa e le persecuzioni antictristiane nel mondo islamico, rompendo con l'eccessiva "prudenza" del passato e con un "dialogo" teologico quarantennale che non ha sortito effetti significativi e che non ha mai posto seriamente la questione dei diritti umani. Un recente intervento sull' OSSERVATORE ROMANO denuncia l'articolo 295 del Codice Penale pakistano, che condanna la "blasfemia", e che è un vero e proprio strumento di persecuzione legale dei cristiani. Non si capisce, va notato, perché il quotidiano della Santa Sede, non sia esplicito nell'indicare le conseguenze di una violazione della cosidetta Blasphemy Law, che possono arrivare fino alla pena capitale. Nè si capisce perché il Vaticano, che giustamente denuncia il patibolo per i cristiani, si sia nondimeno opposto alla proposta di depenalizzazione dell'omosessualità avanzata dall'Unione europea all'Onu, su iniziativa francese. Anche per gli omosessuali, in molti paesi islamici, è prevista la pena di morte. Non si vede molta coerenza nella difesa (giustissima) dei cristiani perseguitati nelle terre dell'islam, coniugata con la sostanziale accettazione della persecuzione degli omosessuali. Un'incoerenza che va a danno anche dei cristiani che la Santa Sede vorrebbe difendere: una volta che si è accettata un'ingiustizia, si è meno credibili quando se ne denuncia un'altra.
Ecco l'articolo:
Roma. L’Osservatore Romano ha riportato con evidenza giovedì scorso un articolo di forte denuncia della persecuzione dei cristiani in Pakistan, così sintetizzata nelle parole di padre Emmanuel Asi: “Ancora oggi essere cristiani in Pakistan, equivale ad essere cittadini di serie B”, allusione, questa, allo statuto di dhimmi – sottomessi – che la società musulmana califfale riservava alle due religioni “ammesse”. Non è la prima volta che l’organo della Santa Sede affronta il tema, ma oggi non si può non notare il senso di una svolta – conseguente alla ridefinizione di “dialogo” tra le fedi voluta da Benedetto XVI – rispetto al passato. Per anni infatti, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, ha sempre stupito gli osservatori la scelta di Roma di adottare un profilo bassissimo nei confronti della persecuzione dei cristiani in Pakistan. Stupore che derivava dal fatto che questa persecuzione – a differenza di quanto avviene in India, Indonesia e altri paesi musulmani – non è solo opera di terroristi, di fondamentalisti, o di quel mix di conflitto etnico e religioso che ha seminato morte in Sudan e in Egitto. In Pakistan è lo stato, dopo l’introduzione nel 1982 dell’articolo 295 del Codice Penale, (la cosiddetta Blasphemy Law), a mettere le premesse per la persecuzione denunciata sull quotidiano della Santa Sede dai delegati del World Council of Churces. L’articolo 295 punisce con la pena sino all’ergastolo – dal 1986 con la pena capitale (ma questo non è riportato dall’Osservatore) – “quanti con parole o scritti, gesti o rappresentazioni visibili, insinuazioni dirette o indirette, insultano il Sacro Nome del Profeta”. E’ sufficiente dunque dire in pubblico “Cristo è figlio di Dio”, per violare l’articolo 295, perché questa frase smentisce l’unicità assoluta di Dio predicata da Maometto. Questa legge, ispirata dal “Khomeini sunnita” Abu Ala al Mawdudi, ha dato il via a una massa enorme di persecuzioni legali, processi (più di 4.000) e sofferenze per la comunità cristiana. Il 27 aprile 1998 John Joseph, il vescovo cattolico di Faisalabad, si è suicidato con un colpo di pistola in un aula del tribunale di Sahiwal, per protestare contro la condanna a morte appena comminata a un suo fedele, Ayub Masi, accusato di avere elogiato Salman Rushdie. Un suicidio che creò molto imbarazzo in Vaticano, anche perché era il frutto di una scelta lungamente meditata – non priva di evidenti polemiche nei confronti dell’atteggiamento prudente della Chiesa – tanto che pochi giorni prima aveva scritto una lettera pubblica per motivare il suo rifiuto a partecipare ad una conferenza a Roma: “Offro il mio sacrifico contro l’oppressione. Mi considererò estremamente fortunato se, nella missione di abbattere le barriere, nostro Signore accetterà il sacrificio del mio sangue per il bene del suo popolo”. Tra gli esempi di persecuzione, il vescovo Joseph citava 14 casi di persone accusate di aver violato la legge sulla blasfemia e per questo imprigionate, condannate a morte o già uccise. Una di loro aveva solo 12 anni. Il gesto clamoroso del vescovo Joseph ebbe una certa eco in Pakistan, tanto che la condanna a morte del cristiano Ayub Masi fu revocata, ma fu presto dimenticato a Roma dove quasi solo le iniziative della Fides e l’eccellente Asia News (www.asianews. it), diretto da padre Roberto Cervellera, hanno tentato di tenere viva l’attenzione sulla persecuzione dei cristiani in Pakistan e Asia. La decisione del nuovo premier Reza Gilani di nominare “ministro delle minoranze” il cattolico Shahbaz Bhatti, apre una finestra di opportunità per la riforma della Blasphemy Law, punto principe del suo programma e della sua associazione interconfessionale Amp. Ma questo sarà un altro fronte del duro scontro interno tra il governo e settori dei vertici militari e dei servizi legati al fondamentalismo islamico. Infatti la Blasphemy Law non fu imposta da ulema fanatici, ma dal generale Zia ul Haq, strettissimo e fidatissimo alleato – con i suoi generali fondamentalisti – del presidente Usa Jimmy Carter. In questo contesto, l’attenzione vaticana al Pakistan evidenzia la volontà di un confronto serio e concreto con il mondo musulmano non più – come inutilmente si è fatto per 40 anni– sul terreno teologico, ma su quello del rispetto dei diritti fondamentali della persona, come indicato da Benedetto XVI.
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