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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Gershom Scholem L’idea messianica nell’ebraismo 10/12/2008

L’idea messianica nell’ebraismo             Gershom Scholem

 

a cura di Roberto Donatoni ed Elisabetta Zevi

 

con una nota di Saverio Campanini

 

Adelphi                                                  Euro 34,00

 

 

 

Gli angeli, si sa, non si fermano volentieri. Questo, col suo sguardo in tralice e i capelli fatti di vecchie pergamene, ha spiccato il volo da Monaco di Baviera nel 1920, è passato a Berlino, è restato per qualche tempo a Parigi, è finito negli Stati Uniti e poi a Francoforte, per posarsi infine a Gerusalemme. Ma proprio in questi giorni, forse perché la sua anima di fuoco ne aveva nostalgia, è tornato per un poco a Berlino.

 

Non certo per caso i curatori della grande mostra da poco inaugurata alla Neue National-galerie di Berlino hanno riservato all’”Angelus novus” di Paul Klee un posto d’onore, in una sala fitta di rimandi letterari. Icona fin troppo celebre di un sogno fallito, questo piccolo disegno non è probabilmente una delle opere più riuscite di Klee, ma possiede una notevole forza di seduzione, dovuta in gran parte alla sua storia. Il quadro appartenne infatti prima a Walter Benjamin, poi ad Adorno e a Gershom Scholem (che lo donò al Museo Israel di Gerusalemme). Sulla suggestione di un criptico appunto di Benjamin, Scholem dedicò a questo disegno un libro intero, che è forse l’omaggio più sincero alla sua amicizia con lo sfortunato filosofo.

 

Berlinesi tutti e due, e malati, sebbene in modo diverso, di romanticismo tedesco, Benjamin e Scholem erano entrambi in cerca di una cura. Mentre Benjamin s’inventò un marxismo teologico, o forse una teologia marxista, Scholem trovò rifugio nel cabbalismo filologico, o meglio in una filologia delle ambizioni cabbalistiche. Entrambi passarono la vita a misurare il vuoto che si apre tra realtà e utopia, e per tutti e due il vecchio messianismo ebraico fu necessaria cifra intellettuale. L’angelo di Klee, cui Benjamin attribuì un’inarrestabile caduta verso il futuro, rappresenta la sintesi visionaria di questo condiviso tormento messianico. Come uscire dalla Storia?, si chiedevano i due amici, nella Germania del primo Novecento. La via percorsa da Benjamin si sviluppò attraverso letteratura e ideologia, sino alle tesi di filosofia della storia del 1940: “Il futuro non diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. In esso, infatti, ogni secondo era la piccola porta da cui poteva entrare il messia”. Dal canto suo, Scholem dedicò buona parte del proprio tempo a studiare quella “piccola porta”, a interrogarsi su come, e quando, si sarebbe dischiusa.

 

Il bel volume sull’Idea messianica dell’ebraismo, che Adelphi manda ora in libreria per la cura di Roberto Donatoni ed Elisabetta Zevi, può essere usato come una vera e propria enciclopedia della scholemiana filologia sul tempo ultimo. “Da giovane m’interessava scoprire cosa esattamente rendesse l’ebraismo un organismo vivente. La ridda di idee contraddittorie costituiva una sfida”, scriveva Scholem, guardandosi indietro, nel 1970. E, in effetti, le apocalissi grondanti distruzione, i paradossi, i peccati volontari, e i sortilegi, a fin di bene e a fin di male, raccolti nei saggi di questo volume, mantengono fede alla promessa di paradosso.

 

E’ vero che Scholem è pur sempre cresciuto alla scuola storicista tedesca e, nonostante le sue intemperanze, s’ingegna di mettere ordine con classificazioni di vago sapore hegeliano. Uno dei criteri fondamentali del suo lavoro è l’identificazione di tre forze nel giudaismo rabbinico: conservatrice, restauratrice, utopica. Proprio dall’interazione tra queste energie sarebbero nate, nel corso dei secoli, le diverse intonazioni del discorso messianico. Per Scholem, i conservatori, tutti impegnati a difendere lo status quo, sono stati gli anti-messianici per eccellenza, mentre il sogno della trasformazione ha ispirato da una parte i restauratori, per i quali il messia avrebbe dovuto reintegrare la perfezione dei tempi ancestrali, e dall’altra gli utopici rivoluzionari, proiettati verso una dimensione non ancora sperimentata dalla storia, un mondo nuovo, tutto da inventare. Non è difficile capire che le simpatie di Scholem vanno all’utopismo rivoluzionario, così che i suoi ebrei messianici sono perennemente ai ferri corti con l’ordine prestabilito. La galleria che ci presenta comprende mistici dalla doppia vita, come Shabbetai Tzevi e i suoi seguaci, o veri e propri provocatori, come i frankisti, che predicavano la trasgressione ai precetti quale autentica ricetta messianica.

 

Tra le parole che ricorrono più frequentemente nel volume vi sono “anarchia”, “antinomismo”. Per Scholem il messianismo nasce dalla miseria del presente, ovvero dalla perdurante sconfitta ebraica, e dal desiderio di redimerla con un’idea grandiosa. Quasi sempre, per lo meno nel taglio interpretativo che egli dà al fenomeno, il tempo messianico vive di un vagheggiato rovesciamento dell’esistente, in cui le leggi della normalità vengono riscritte nel loro contrario. In questa passione per le correnti anti-halakiche, Scholem rispecchia molto del proprio percorso privato che, dal giudaismo assimilato della famiglia, si trasformò in sionismo libertario e restò sino alla fine assai critico verso l’ortodossia religiosa.

Oltre che per la sua erudizione e per le numerose intuizioni storiografiche tuttora valide, la summa messianica di Scholem va letta come documento di un Novecento ebraico-tedesco instabile, ubiquo e fatalmente insoddisfatto di sé e del mondo. Proprio come l’angelo, che non sa dove fermarsi.

 

 

Giulio Busi

 

Il Sole 24 ore

 


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