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Il Foglio Rassegna Stampa
10.12.2008 Obama e l'eredità di Bush
la guerra afghana, l'ultimatum al Pakistan, la crisi iraniana

Testata: Il Foglio
Data: 10 dicembre 2008
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - la redazione - Christian Rocca
Titolo: «Perché il gen. Petraeus a Roma sfodera le armi della democrazia - Brucia Peshawar -L'unica vera idea di politca estera della storia recente è la dottrina Bush»

Dalla prima pagina del FOGLIO del 10 dicembre 2008, l' articolo di Daniele Raineri "Perché il gen. Petraeus a Roma sfodera le armi della democrazia":

Roma. Il generale americano David H. Petraeus, comandante dell’U. S. Centcom, comincia da Roma il suo tour europeo delle capitali Nato. Ieri sera Petraeus – accompagnato dall’ambasciatore americano Ronald Spogli – si è incontrato con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Poco prima aveva visto a Palazzo Baracchini il ministro della Difesa, Ignazio la Russa. Oggi incontrerà anche il capo della diplomazia italiana, Franco Frattini. E’ insolito che un comandante alleato – che oltrettuto opera al di fuori della gerarchia composita della Nato – riceva queste attenzioni, da visita di capo di stato. Ma in questo momento la sua responsabilità è la più forte all’interno del Pentagono, subito sotto quella del segretario alla Difesa Bob Gates, con cui lavora in tandem da due anni. Il volo militare atterrato ieri a Ciampino era partito dalla sede del Comando centrale degli Stati Uniti, base aerea di McDill, a Tampa Bay, in Florida. E’ il CentCom che governa le operazioni militari americane in un vastissimo settore asiatico che include almeno venti paesi – ci sono pure Iraq, Iran, Pakistan e Afghanistan – profondo circa 5.400 chilometri da est a ovest e più di settemila da nord a sud. Nel mezzo, sono impegnati anche i soldati italiani. Anche se è stato nominato da poco più di un mese, questa non è la prima missione diplomatico-esplorativa del generale. Il giorno successivo al suo insediamento è subito volato in Pakistan, la nazione che gioca un ruolo centrale nella guerra contro i talebani e al Qaida, per incontrare il governo civile e il capo delle forze armate, il generale Ashfaq Kayani. Sulla via del ritorno, ha fatto tappa in una seconda nazione cruciale: l’Arabia Saudita (la storia di al Qaida riassunta è la storia di arabi che si spostano da e verso il Pakistan). All’Italia non ha chiesto direttamente un maggior impegno militare, “sono cose che devono essere decise in sede Nato, a Bruxelles”. Piuttosto, chiede un aiuto per accelerare la preparazione delle forze armate e delle istituzioni afghane. E considera gli italiani formidabili nel nation building. “In Iraq avete fatto un lavoro eccellente. L’unità di sostegno alla ricostruzione di Dhi Qar (nel sud del paese) è un modello di funzionamento. E i vostri carabinieri sono la miglior forza di gendarmeria del mondo, per gli iracheni addestrarsi con loro è come allenarsi a basket con Michael Jordan”. La Russa conferma: “In Afghanistan c’è bisogno di rinforzare i team per l’addestramento della sicurezza locale, le Omlt, Operation Mentoring Liason Team. Passeranno da quattro a sette”. Ma non saranno mandati altri uomini: “A meno che le condizioni non cambino: mai dire mai”, aggiunge il ministro. Petraeus è stato nominato capo del Centcom dopo aver impresso una clamorosa svolta positiva alla guerra americana in Iraq. Ma, come lui stesso ha detto ieri durante un incontro con stampa e istituzioni al Centro Studi americano: “Nessuna buona azione resta impunita”. Ad ascoltare Petraeus ieri pomeriggio c’era una platea con interessi differenti. Molti generali e ufficiali italiani, ma anche la leadership politica dell’opposizione, ben rappresentata: il presidente della fondazione ItalianiEuropei, Massimo D’Alema, l’ex vicepremier Francesco Rutelli e il ministro degli Esteri ombra Piero Fassino. Lo stratega americano ha parlato a fondo della missione conclusa in Iraq, anche se in realtà stava parlando dell’impegno attuale in Afghanistan. Ha tentato di far risuonare una corda nei suoi ascoltatori: “E’ stato possibile a Baghdad, per questi motivi che sto spiegando. Può essere fatto anche a Kabul contro i talebani, se riesco a ottenere la collaborazione che mi serve”. Ha spiegato le idee alla base della sua dottrina di counterinsurgency: l’aumento delle truppe sul territorio – “che non è fine a se stesso” – ; la necessità di proteggere prima di tutto la popolazione e non i soldati; le piccole basi disseminate in mezzo alle case invece che le poche, remote basi di enormi proporzioni; la tattica che deve cambiare e adattarsi di continuo, le scelta deliberata di separare gli elementi con i quali è possibile una riconciliazione – “anche se hanno le mani sporche del tuo sangue” – da quelli con cui la riconciliazione non sarà mai possibile, e che devono “essere eliminati, catturati o cacciati dal paese”. Il comandante americano segue bene il modello della retorica americana. Parte leggero per alleggerire la tensione (“I miei primi tre anni di matrimonio li ho passati in Italia a Vicenza, e ho ancora un buon repertorio di frasi in italiano da quei tempi: ‘Due birre, per favore’, e anche ‘Ancora due birre, per favore’”). E’ molto chiaro quando espone gli elementi che gli servono per vincere. I dettagli, per ora, restano negli incontri a porte chiuse.

Sempre dalla prima pagina del FOGLIO "Brucia Peshawar":

Il capolouogo del terrorismo. Il console americano a Peshawar, la signora Lynne Tracy, è stata svegliata nella notte tra sabato e domenica. Cattive notizie. Un attacco di 400 talebani, distrutti 150 camion carichi di materiale militare americano. Questa volta i talebani non hanno colpito nelle gole del valico di Khyber, ma nel centro di Peshawar, sulla Ring road, la circonvallazione, e hanno bruciato “Port World Logistic”. I rapporti di un mese fa della stazione della Cia di Peshawar e del consolato già definivano la città “capoluogo del terrorismo”, visto che i talebani e al Qaida vi sono presenti in forze. La polizia non conta più nulla, i militari stanno chiusi nelle caserme, per strada si vedono pattuglie dei talebani che girano con Humvee rubati ai convogli americani. Per i rifornimenti all’esercito di Kabul e alle truppe alleate in Afghanistan, la via Karachi- Peshawar-Kabul è sempre più difficile. Le notizie provenienti da Peshawar – assieme a un dossier dell’ambasciatrice in Pakistan, Anne W. Patterson, e a un rapporto da Islamabad di Cia e Pentagono – sono finite non soltanto sul tavolo di George W. Bush ma anche su quello di Barack Obama. Sintesi del discorso: “L’Afghanistan sta precipitando nel caos, il sud di Kabul è in pratica una zona talebana, le province pachistane del Waziristan sono fuori controllo da parte del governo centrale, la frontiera fra il Pakistan e l’Afghanistan è un colabrodo, attraverso il quale talebani e al Qaida vanno e vengono come pare a loro”. L’inverno si annuncia tremendo, anche la provincia di Herat, dove si trovano gli italiani, è diventata molto pericolosa. Gli attacchi contro gli italiani e gli altri alleati si sono intensificati e, dicono le fonti talebane, saranno sempre più cruenti. O ci pensate voi o ci pensiamo noi. A Islamabad Condoleezza Rice, segretario di stato, è stata dura col presidente pachistano, Asif Ali Zardari. Anche il vicepresidente eletto Joe Biden ha parlato al telefono con Zardari, esprimendogli concetti che circolano parecchio fra i consiglieri di Obama: alcune zone del Pakistan sono diventate ingovernabili e rappresentano una minaccia per la sicurezza internazionale. Insomma “o ci pensate voi o ci pensiamo noi”, hanno spiegato gli americani al leader pachistano e al capo delle forze armate, il generale Ashaf Parvez Kayani, già capo dell’intelligence ai tempi di Musharra Zardari ha detto di essere in difficoltà, ha chiesto tempo per bonificare l’Isi, il servizio segreto, coinvolto nel terrorismo dei talebani e di Osama bin Laden, e per mettere in riga la Difesa. Come atto di buona volontà, il governo, sfidando le ire dei nazionalisti e degli islamisti, ha arrestato Zaki ur-Rehman Lakhvi, leader di Lashkar- e-Taiba, l’organizzazione terroristica responsabile dell’attacco a Mumbai. La caccia a Bin Laden. Obama continua a essere convinto che Bin Laden vada catturato nel suo rifugio pachistano, lo voglia o no Islamabad. A Bob Gates, riconfermato capo del Pentagono, sono stati chiesti piani di contingenza accurati su un’eventuale operazione Osama. La cattura di Osama sarebbe un bel successo per Obama. Il Pentagono, per ora, sembra puntare sull’uso massiccio dei drone, gli aerei senza pilota, teleguidati su informazioni fornite dalla Cia, dal Pentagono e dalla National Security Agency. Bin Laden e il vice al Zawahiri sono già sfuggiti almeno tre volte agli attacchi. Il dossier iraniano. Lo staff di Hillary Clinton ha chiesto materiali analitici sia alla diplomazia sia all’intelligence. Obama vuole capire e si consulta con la Clinton e, soprattutto, con Biden, il quale, stando a quel che si dice, avrebbe una profonda conoscenza dell’Iran e in passato avrebbe preso contatto con esponenti moderati del regime e con personaggi vicini alla guida spirituale, Ali Khamenei. L’ambasciata americana più informata sull’Iran è quella negli Emirati, ufficio di Dubai. Da lì arrivano le notizie sull’attivismo dei vertici iraniani in merito alla possibile, nuova, politica di Obama verso l’Iran. Ci sono gli scettici come il ministro degli Esteri, Manoucher Mottaki, che, in una riunione del Consiglio convocata dal presidente Ahmadinejad sul “caso americano”, si sono detti convinti che ci saranno pochi cambiamenti. Ci sono gli avversari di ogni riavvicinamento, come Ahmadinejad. E vi sono gli attendisti, Khamenei in testa, che vogliono lasciare all’America la prima mossa. E poi non mancano i moderati, come l’ex presidente Khatami, che intravvedono la possibilità che gli Stati Uniti, dopo alcuni colloqui, possano aprire una “Sezione di Interessi” a Teheran. Anthony Lake, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Bill Clinton e oggi vicino a Obama, prevede che la mossa verso Teheran sarà fatta e sarà una delle prime. Ancora non si sa che cosa Obama potrà proporre, ma certamente proporrà. Il suo obiettivo è di rasserenare la situazione fra America e Iran al fine di bloccare, con le buone, i progetti nucleari di Teheran.

Da pagina 2 del FOGLIO, l'articolo di Christian Tocca "L'unica vera idea di politca estera della storia recente è la dottrina Bush":

Barack Obama si è candidato e ha vinto le elezioni presidenziali americane presentandosi come il politico che avrebbe cancellato la “dottrina Bush” elaborata dopo l’11 settembre dai neoconservatori. Ma stando ai profili delle persone che ha scelto per la sua squadra di politica estera e di difesa sembra che non abbia ancora elaborato un’alternativa alla grande strategia bushiana post 11 settembre. Il timore è che questa alternativa non ci sia e che Obama voglia semplicemente tornare all’era pragmatica di Bush padre e del primo Bill Clinton, quella durante la quale si è sottovalutata la minaccia islamista e si sono create le basi per la Guerra santa di Osama bin Laden. E’ vero, come scrive Bret Stephens nell’articolo pubblicato qui sopra, che anche l’ultimissimo Bush junior, quello della seconda metà del suo secondo mandato, ha allentato i principi della sua dottrina, ma è anche vero che l’unico vero successo di politica estera di questi ultimi due anni è il “surge”, ovvero la nuova strategia politica e militare guidata dal generale David Petraeus che ha rimesso in sesto la situazione in Iraq.
La dottrina Bush è molte cose, spesso male interpretate, ma nasce dall’idea che il paradigma politico creato alla fine della Seconda guerra mondiale, impostato per contenere la minaccia comunista, non sia più adatto ad affrontare le nuove sfide globali poste dall’islamismo radicale. Il succo della dottrina è questo: dopo l’11 settembre, l’America è costretta a considerare gli stati che ospitano, sostengono e finanziano i gruppi terroristi come se fossero essi stessi terroristi. E deve essere pronta a usare lo strumento della guerra preventiva prima ancora che la minaccia letale si concretizzi, ma allo stesso tempo deve impegnarsi per promuovere il cambiamento di regime negli stati dittatoriali e per offrire un’alternativa democratica ai popoli sottomessi.
In campagna elettorale è stato proprio Obama, molto più di Hillary Clinton e ovviamente di John McCain, il candidato che ha promesso un vero cambiamento della politica estera americana. E gli elettori, specie alle primarie, lo hanno premiato soprattutto per questo. Obama era contrario alla guerra in Iraq, Hillary invece aveva posizioni e una carriera al Senato più in linea con quel filone interventista democratico che, a sprazzi, durante l’Amministrazione di suo marito Bill è riuscito a prendere il sopravvento.
La dottrina Bush, in realtà, nasce proprio negli anni clintoniani ed è contenuta in una lettera inviata nel gennaio 1998 a Clinton da un minuscolo centro studi di Washington, il Project for a New American Century, che chiedeva al presidente Clinton di considerare l’ipotesi di rovesciare il regime di Saddam Hussein. L’esito è stato una legge, l’Iraq Liberation Act, presentata da John McCain e Joe Lieberman, sponsorizzata da Al Gore, approvata all’unanimità al Senato e firmata con entusiasmo da Clinton. L’Iraq Liberation Act ha dichiarato solennemente che “la politica degli Stati Uniti deve sostenere il tentativo di rimuovere dal potere il regime guidato da Saddam Hussein e promuovere la nascita di un governo democratico che rimpiazzi quel regime”.
Obama non è un ideologo, è un politico pragmatico. Le prime mosse segnalano che nella sua Amministrazione non ci sarà spazio per la linea progressista, ma sembrano indicare un approccio più dialogante nei confronti dei nemici dell’America. L’Iran ha già risposto picche, con il suo ministro degli Esteri. Obama ovviamente ritenterà. Ma, se è davvero un politico pragmatico, in caso di fallimento sarà costretto a affidarsi, si spera non troppo tardi, alla dottrina Bush, ancora oggi l’unica seria strategia disponibile contro la guerra santa islamista.

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